Francesca e Romeo

I tre grandi lucernari che, dal soffitto a volte affrescate, dànno luce alla sala, sembrano guardare verso un cielo àtono, lattiginoso, uguale, senza gioja di sole, senza malinconia di nubi. La polvere e le ragnatele, che adornano e colorano le cose abbandonate dal padrone, filtrano allo stesso modo i limpidi mattini di maggio e i crepuscoli autunnali.

Dice il signor Abele:

— È bene che sia così in una regia biblioteca. Per raccogliersi a studiare, che vuol dire sognare, bisogna uscire dal giorno per entrare nel tempo: e il tempo ha questo colore uguale, lattiginoso, lontano e questo silenzio risonante, come quello delle chiese. Ecco: basterebbe che da un vetro di lassù passasse incorrotto un raggio di sole per ricordare ai giovani curvi sui libri, il presente che respira e dissolvere dai cervelli raccolti il pensiero, il passato, il sogno che non hanno respiro. Anche quella ragazza laggiù, poverina, farebbe meglio a restare fuori di qui, a casa sua. Ha un ricciolo color di rame acceso, che esce dal cappellino, con una impertinenza irriverente. Basta un raggio di sole e un ricciolo color di rame acceso. Dovrebbero proibire alle donne di entrare in una regia biblioteca, se non dopo morte, e quando abbiano saputo meritare un manto di poesia... Allora sì...

Le grandi pareti sono coperte di stemmi comunali, di busti marmorei, di immagini, di simboli: tutto sembra in attesa, fermo, inespressivo. Avviene allora, tra una battaglia di Cesare e un verso di Pindaro di fissare la pupilla stupita di lontananza, su un ippogrifo nero dagli occhi gialli e dalla lingua scarlatta, fermo, inespressivo, in attesa.

Che vuol dire un ippogrifo nero?

Dice il signor Abele:

— È bene che sia così in una regia biblioteca. Per raccogliersi a studiare, bisogna chiudere il cervello entro i confini di sè stesso. È provato che queste figure che non significano nulla, come gli stemmi comunali, i busti commemorativi, la Giustizia con la bilancia, la Sapienza col papiro, la Civiltà con le ali ai piedi, conferiscono molto di più d’una parete tutta bianca e nuda alla meditazione e allo studio, forse per il fatto che in esse predomina un senso di rigida e fredda simmetria. L’occhio le guarda senza commozione: e allora un ippogrifo nero può essere Napoleone Bonaparte o il teorema di Pitagora. Sicuro: o perchè dunque la Giustizia che ha il seno sconvenientemente scoperto è assai meno – anzi per nulla – inquietante di quel ricciolo là, color di rame acceso? Dovrebbero proibire alle donne vive di entrare in una regia biblioteca, perchè la donna viva è asimmetrica. Anche l’uomo, sì, anche l’uomo: ma tutta questa gente raccolta intorno ai tavoli e curva sui libri non sono uomini: no. Gli uomini non appartengono che alla storia: quelli che si vedono intorno per le vie sono animali da cortile, che non hanno niente a che vedere con quelli. Io, per esempio, che converso tutti i giorni e da quindici anni, con Egisto, Werther, Jacopo Ortis, Paolo il bello, Ippolito, Romeo, io non incontro mai nessuno per la strada che mi richiami ad uno di costoro. Un’altra razza, questa... Qualche cosa come questi busti commemorativi. La donna, invece, è donna. Una fantesca può diventare principessa; ai giorni nostri, ancora si celano, sotto i busti parigini, anime di castellane fedeli e infedeli, a costo della morte. Per questo, la donna, può ancora meritare il manto della poesia.

* * *

Il signor Abele, tra un libro e l’altro, pensava a queste cose per riposarsi. Dietro il banco solenne, dove una civiltà, che non ha più cavalieri e cortesie e pazze imprese e amori, lo aveva confinato a combattere col pane quotidiano e a meditare l’anacronismo della sua anima avventuriera, egli dimenticava la papalina verde e le soprammaniche nere e se qualcuno innanzi al banco non lo richiamava alla servile realtà, si perdeva tutto nella storia delle donne infelici, vestite di poesia.

Come tutti coloro che vivono accanto ai libri, era un erudito. Come tutti gli eruditi, conosceva bene una sola cosa. Egli conosceva bene l’amore. Anzi amava l’amore e precisamente quell’amore clandestino, furibondo, peccaminoso, che se gli uomini hanno concepito, la letteratura ha complicato; che ha bisogno, per vivere, della tenebra che nasconde, di un marito che non vede e nel quale la parola sempre, mormorata negli attimi vertiginosi, densi di odori e di sapori, bocca su bocca, significa per gli altri due: morte sicura.

Come succede nella letteratura da Cleopatra in giù.

Curvo sulla Orestiade, o sui Dolori del giovane Werther, invasato della follia di Francesca, o accorato dall’angoscia di Isolda la bionda, il signor Abele sognava: usciva dal giorno, per entrare nel tempo e inalteratamente risoffriva le angoscie che accompagnano il miracolo dell’amore, il martirio, il sangue e la morte che lo conchiudono.

Intorno alle figure che egli risognava sublimi nella gioja dell’amore, come nell’ansia del pericolo e nella maestà della morte, egli creava un mondo in penombra: lividi tramonti, castelli tetri, cavalli scalpitanti sulla ghiaja dei greti, e via, per le brughiere che ondeggiano, per i monti erti che fremono di vento, per le convalli fonde che tacciono; e lunghe soste ansimanti, sotto la minaccia delle torri merlate e agguati e sospiri e dolci canzoni e una finestrella che si illumina e si spegne, e un’ombra, una chioma, una scala di seta, un lungo silenzio; un bacio forse, o una morte. Una mandòla abbandonata sull’erba...

A mezzogiorno usciva sulla via rumorosa d’una città del ventesimo secolo e ne provava una sorpresa irritante, violenta.

— Piove. Apro l’ombrello... L’amore è morto.

* * *

Il signor Abele non ostante tutto amava sua moglie. Il suo cervello protetto da fredde e simmetriche visioni di simboli, chiuso entro i confini di sè stesso; la sua anima immersa nella penombra del tempo, sospirosamente lontana, accoglievano Alba Sereni, non ostante la sua procace asimmetria e il riso vivo dei suoi occhi azzurri, come una visione perenne. Il signor Abele amava sua moglie con tutto: anche con la coltura letteraria appassionatamente, come se l’avesse rapita ai lanzichenecchi d’un vassallo brutale a bisdosso d’un cavallo dalle frogie di fuoco. Tutte le donne fatali, le donne grandi e infelici della letteratura mondiale erano in lei, Alba Sereni, ricamatrice di corredi nuziali, donna gaja, giovane, ignorante, lontana dal tempo e dai tempi, luminosa e canora. Il signor Abele odiava i mariti della storia; anche per questo adorava sua moglie.

* * *

Dice il signor Abele:

— I terzetti della storia e della letteratura, hanno bisogno non solo di una donna disonestamente infelice e di un amante consolatore e di un marito brutale, volgare e sanguinario; non solo di questo e di una determinata preparazione d’ambiente, ma anche di una fortunata contingenza per la quale le tre energie in giuoco, si incontrano, sulla stessa via, magari nella stessa stanza e, dico, proprio nello stesso momento in cui tutte e tre si esaltano, ai vertici massimi, di sè stesse. Mi spiego: se Paolo e Francesca non leggevano quel giorno per diletto di Lancillotto, come amor lo strinse, Gianciotto forse non li ammazzava, o se Gianciotto fosse entrato a spada sguainata, Paolo si sarebbe trovato nelle condizioni di spirito più adatte per darsela a gambe. È una questione di cronometro e di traguardo. Io conosco bene queste cose. Sono tutte così... Non dico che ciò sia inverosimile, dico che è difficile, tanto più ai nostri tempi. Insomma, sapete voi quante Cleopatre sono in giro per la città? Quante pallide Isolde... Sta bene, ma dove è Egisto? E Tristano dove è? Ve lo immaginate un amore fra Tristano e Cleopatra? Diventa una cosa quotidiana, volgare, immeritevole di rispetto. E quando anche un Werther trovasse la sua Carlotta, dico, il marito classico, il marito indispensabile, il marito che arriva al traguardo, nel momento voluto, per l’eccidio ispiratore, dov’è?

— Insomma se vostra moglie vi tradisse?

Il signor Abele masticava un poco amaro, ma poi rispondeva

— Cosa c’entra? Intanto: mi sa dire lei chi sono i colpevoli dei grandi adulteri della storia? Gli amanti? No: i mariti. E anche oggi è lo stesso. E se io non fossi tranquillo in coscienza avrei ragione di temere e se la sventura – perchè è sempre una sventura – mi cogliesse, vorrebbe dire che c’è di mezzo l’amore. E allora? Giù il cappello!

* * *

Invero, perchè Alba Sereni, gaja ricamatrice di corredi nuziali, lo tradisse, non era nemmeno il caso di pensare che uno sconforto passeggero, un capriccio sbocciato dalla noja, una divagazione consigliata dalla repugnanza coniugale, avessero avuto questo tristo potere. No: il signor Abele era sicuro di non essere un marito come quelli là: in coscienza era tranquillo. Un matrimonio d’amore, una luna di miele dolcissima, una vita di cure assidue, di attenzioni per lei e di controllo estetico per sè. Sì, un marito perfetto. Alba Sereni era per lui, Romeo, una Giulietta regolare, senza le complicazioni di famiglia. Dunque? Sì: tutto era possibile, ma perchè fosse possibile ci voleva un amore, un amore profondo, un amore fatale, un amore che a nullo amato amar perdona.

E un uomo di eccezione.

Il signor Abele, che era un uomo di carattere, capiva che, nella tempesta, avrebbe avuto la forza di ammirare la bellezza della folgore.

* * *

Alba Sereni da qualche giorno rideva meno. Quando il signor Abele fu ben certo che rideva meno, andò a guardarsi nello specchio. Mormorò a sè stesso molte delusioni e ritornò in tinello rabbujato in volto. Sulla fronte aveva i segni del tormento di un dubbio.

Alba sparecchiava la tavola. Egli attese in silenzio, senza staccare lo sguardo dalla sua donna. Giovane, era, bella, era, forte e fresca, era la sua donna. Mormorò a sè stesso altre delusioni e i solchi del tormento si fecero più profondi sulla sua fronte. Perchè? Gli venne in mente un personaggio ignoto ai poemi d’amore: il tempo. Che parte recitava il tempo nell’eterna commedia dell’amore? Sentì l’insidia di quel personaggio invisibile che la parola sempre non basta a uccidere: sentì che per ucciderlo bisognava morire. Desiderò di morire con Alba, in quel momento stesso.

Giovane era, gaja, forte e sana...

— Alba – disse improvvisamente con una voce terribile e dolce – Alba, dimmi tutto!

Alba si volse pallida, stupita, tremante.

Il signor Abele sentì nelle gambe e nel cervello il tremito vertiginoso della paralisi. Si alzò, ripetè:

— Dimmi tutto!

Alba non aveva più gli occhi azzurri: lo spavento dava alle sue iridi dilatate, il colore degli abissi.

— Abele...

— Dimmi tutto!

Ella era una gaja ricamatrice di corredi nuziali: si lasciò cadere in ginocchio, ai piedi del marito e scoppiò in forti singhiozzi

— Non è vero, Abele, ti giuro che non è vero!

Il signor Abele ricadde a sedere sotto il peso di una grande confusione di pensieri.

* * *

Così, alla sprovvista, egli non trovò nulla di meglio da fare che meditare.

Meditò tutta la notte, immobile, a canto alla moglie, che singhiozzò lungamente, poi russò lungamente senza lasciarsi mai sfuggire di bocca una parola sola, nemmeno nel sonno.

Meditò poi la mattina al parco, sotto un ippocastano fremente e canoro di passeri che scherzavano col sole; chiaro e fresco di rugiada che si asciugava brillando nel sole; profumato dall’alito tranquillo d’una notte di pace, d’un risveglio di sole; meditò, mormorò, si agitò, accanto a un vecchio dell’ospizio, che lo guardava con occhio così pacato da urtare i nervi...

Il signor Abele pensava:

— Io sono un uomo di carattere, un uomo di fede: io non posso smentire per causa di mia moglie quindici anni di studi; non posso demolire un edifizio di persuasioni che costituiscono la mia personalità. E poi? Uccidere? Perdonare? Dimenticare? Se ci fosse un figlio mi attaccherei a Giacosa... Non si può uccidere, nè si può perdonare: l’amore è una cosa che va benedetta e supera d’altra parte i limiti della vendetta e del perdono: l’amore è: buona notte. Ajutarli no! Questo no! Ma insomma andarsene, abbandonarli alla loro gioja...

Vedeva lei e lui, avvinti dalla ferrea legge che governa il mondo e sentiva dentro il suo petto di galantuomo un cuore che si spezzava di impotenza.

— È inutile combattere... Lui ha saputo prendere l’amore per i capelli; alto, bello, giovane, gagliardo, Paolo... lui... E dopo tutto, ho sempre sentito in mia moglie un temperamento classico. Se così è, dunque, io che posso fare? Pur di conoscere Fedra, avrei desiderato di essere Tesèo... Eccomi accontentato. Perchè qui, non siamo in terreno volgare: per tradirmi ci vuole un amore più forte anche del tempo.

Se il pacato vecchietto dell’ospizio non si fosse improvvisamente soffiato il naso, il signor Abele avrebbe forse meditato ancora.

* * *

Rientrò in casa calmo, sereno. Prima di rivolgere il discorso alla moglie che non muoveva il capo, chino sul ricamo, si guardò nello specchio. Non ebbe delusioni: la sua persona aderiva esattamente alla parte dolorosa della commedia, che il destino gli affidava quel giorno. E fu contento di esprimersi, finalmente.

— Ascoltami, Alba: tu sai che io venero le grandi sventurate dell’amore. Sarò quel che sarò, ma avrò la forza di conservare intatta questa mia venerazione anche se si tratterà di te. Io sono stato un cattivo marito...

— Abele...

— Un volgare distruttore d’ogni cosa gentile, una bestia...

— Abele...

— Io ti ho imposto la mia odiosa presenza, senza comprendere la poesia della tua anima canora...

— Abele...

— Lo so, non mancherebbe altro che sulla mia volgarità brutale...

— Abele...

— ...sì, io spargessi il sangue di due vittime... innamorate...

— No... Abele... no...

— Ma sì! Tutto quello che vuoi, ma io sono un uomo di carattere. Lui è poeta, deve essere poeta, è gentile e ti compensa, povera creatura, dei lunghi anni di vigilia... È così, o non è così?

— Abele...

— Dimmi chi è e poi me ne vado lontano e non mi farò vedere mai più. Tutto io ti abbandono purchè tu sia felice con lui... tutto: ecco i miei risparmi, ecco la mia casa, ecco i miei mobili, i miei libri... Alba, povera donna, è venuta anche per te l’ora dell’amore... Fa ch’io lo veda una volta sola, per rendergli l’omaggio di tutta la mia disperazione, Alba, e poi me ne vado a seppellirmi tra i canti che non muojono e chi sa che tu non raggiunga un giorno il mio spirito fedele, tutta vestita di poesia, queta, luminosa, senza macchia di sangue!

La giovane non rispondeva: nascondeva ora il volto, appoggiando la testa sul gomito carnoso, giù, sulla tavola. I capelli le cadevano per una spalla, spettinati, sconvolti, ma lasciavano quasi nuda la nuca; le belle spalle curve non avevano che il leggero movimento del respiro.

— Rispondi! Se tu mi mostri rinnovato il miracolo dell’amore, me ne vado senza una parola amara. Io amo te, ma questo è un sentimento volgare: più di te, amo l’amore! Rispondi!

Il tinello era tutto avvolto nell’ombra della sera: dalla finestra aperta entravano le esalazioni crepuscolari, in volgoli odorosi, e il coro dei grilli, a ondate vaste, che tornavano lontano, sempre più lontano e si perdevano all’orizzonte livido dell’ultimo bagliore; e la visione d’un mondo fantasioso, senza contorni, tutto profumo e sonorità armoniosa, fatto per le audaci cavalcate dei bimbi e dei poeti verso il castello del mistero, o la disperata landa della Morte, per raccogliere un fiore, per carpire un bacio, o per cantare...

E chiome e agguati e sospiri...

Una voce baritonale, dalla via, intona una serenata a cadenze malinconiche:

Ad ora bruna e tarda
la luna è tutta gaja
se in due la si riguarda...

Poi si tace improvvisamente. Le spalle di Alba hanno avuto un epilettico sussulto, che dilegua a poco, a poco in un tremito continuo.

La voce riprende, un po’ tremante:

…se in due la si riguarda...

E silenzio. Il signor Abele ha gli occhi attraversati da una saetta livida.

Sottovoce, affannosamente egli chiama la donna:

— Alba, Alba, rispondigli!

Il signor Abele non vede più che la sua donna, che ansima o soffoca di singhiozzi...

— Alba rispondigli... Bada!

Con un moto improvviso il signor Abele impugna un coltello da cucina: afferra per i capelli la moglie e le rovescia il capo all’indietro; ella mostra un viso deformato dalle lacrime e dallo spavento e due occhi di vetro sbarrati sulla punta fredda che il marito le mostra.

— Rispondigli o t’ammazzo! Non vi farò del male. Rispondigli, Alba...

Alba con la mano che traballa, cerca l’interruttore elettrico: accende e poi, subito spegne. Un silenzio. Il signor Abele, ritto in piedi, verso la finestra, sente il cuore saldo, pronto al sacrificio. Il momento dell’amore sta per essere rivissuto.

Fuori, la notte...

...Una mandòla abbandonata sull’erba.

È l’amore, l’amore cieco e bizzarro che prende, come la morte le sue vittime ovunque, e si compiace, a volte, d’incoronarle di fiori, di lacrime, di luce...

Egli accarezza la testa della sua donna, che sembra, ora, impietrita. Ha l’onore il signor Abele di accarezzare la testa della sua donna infelice.

Un rumore per le scale...

Per le scale?!...

— Taci, Alba; un minuto solo, da quest’angolo... No: non mi farò vedere! Poi me ne vado... Dammi un bacio, Alba, l’ultimo. Addio!

* * *

L’uscio del tinello cigolò. Un’ombra entrò, annaspò nel bujo, cercò...

— Alba, dove sei?

Trovò la chiavetta della luce. Accese.

Un attimo. Il signor Abele balzò dal suo nascondiglio, urlando:

— Ah, no, signor mio, lei no! Lei no! Non c’è linea!

Alba, come una belva si scagliò contro il marito:

— Come no?!

— No! Ti dico di no! Non c’è linea, e basta! Uscite di qui, tutti e due, uscite di qui. Andate via! Non vi voglio più vedere! Sì, così, come sei, va via, va via, va via!

* * *

Quando il signor Abele potè ancora trascinare le sue vecchie gambe stanche dietro il banco solenne della biblioteca e la sua anima amara tra le pagine di poesia, entrato per sempre nel tempo e rinchiuso per sempre nelle simmetriche rappresentazioni dei simboli, incontrò il compagno Gianciotto lo sciancato, che gli rise in faccia:

— Assassino! Assassino! Essi si amavano, come tutti gli amanti della terra e tu dovevi uccidere, come ho fatto io, se amavi l’amore. Vedi? Paolo e mia moglie si amano ancora da quel giorno, inalteratamente, ed io sono tradito per l’eternità dei secoli! Non hai voluto gettare gli amanti fra le braccia della morte e li hai abbandonati, soli soli, tra le braccia del tempo. Assassino! Assassino! Hai ucciso l’amore!

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