E gira!...

La giostra di Timoteo Bergonzi aveva uno stile e un organo meccanico di primo ordine, dodici paja di cavalli focosi, con gli occhi fuori della testa e le criniere inverosimili; tre berline a rabeschi orientali, degni di una moschea e molti specchietti da tutte le parti. L’unico cavallo brutto era quello vivo. La ragione di ciò non era nella diversità soltanto della razza, ma anche del destino, che aveva affidato a Nino – il cavallo vivo – la duplice missione di muovere la giostra nei tempi di ferma – di «piazza» come diceva Timoteo padrone – e di sostituire la ferrovia nei non frequenti, ma per nulla comodi traslochi. S’attaccava allora alle stanghe d’un carrozzone immenso, verniciato d’azzurro, sul quale Timoteo Bergonzi, impaccata e spedita con altro mezzo la sua magnifica giostra, viaggiava, mangiava, dormiva, sopra tutto fumava una grande pipa di terra; comodo, tranquillo, contento. E Nino tirava lentamente il carrozzone azzurro per le vie lunghe e polverose delle pianure, battute dal sole, gli occhi dilatati dalla fatica e dalla polvere, la testa bassa sotto la rabbia meridiana, paziente, sempre in moto, fino alla sosta agognata, all’angolo di un prato erboso. Una manciata di fieno, una carezza del padrone, una notte di quiete.

Poi, una città. Molti ragazzi, molte donne – sono sempre gli stessi ragazzi, le stesse donne, che si fermano intorno a una giostra, sempre uguali, in tutto il mondo –. L’organo meccanico intonava la sinfonia della «Semiramide» o il «valtzer» del «Faust» e Nino, sotto, a canto a una berlina moresca, a trascinare alla illusione di un viaggio intorno al mondo gli stessi ragazzi, le stesse donne, dovunque. Allora sognava anche lui, perchè camminava più svelto. O sognava o la sinfonia della «Semiramide» gli piaceva molto. In ogni modo Timoteo era contento e incassava fior di quattrini.

* * *

La giostra di Timoteo Bergonzi piantava le sue tende or qui, or là con un criterio topografico apparentemente inesplicabile. Se in un paese c’era una fiera, la giostra era dovunque, meno che nel campo del mercato; nelle città, lontano dai luoghi ove si suol dar convegno l’umanità zingaresca; alle volte anche lontano dai frequentati passaggi, alle volte anche lontano dai sobborghi. Ma dei ragazzi e delle donne ce n’è in ogni luogo.

— Quando si tratta di illudersi, l’umanità corre da per tutto.

Timoteo era orgoglioso della sua professione che riteneva fra le più oneste e intelligenti.

— La gente si contenta di poco e di quel poco vive. Un giro in giostra ed ecco molti fanciulli allegri, tranquilli, buoni con i loro genitori; dunque la pace nelle famiglie; ed ecco le fantesche e i caporali sufficientemente divertiti e di buon umore per volersi tutto il bene possibile; dunque ancora la pace nelle famiglie e la quiete nelle caserme; dunque, l’ordine pubblico... No, no: si fa presto a dire a un povero diavolo «voi siete un imbecille» ma non si fa altrettanto presto a dimostrare che ha torto. –

A contrariarlo, arruffava le folte sopraciglia e scatenava dagli occhi cinerei lampi di fuoco; allora si rivelava quello che era intimamente: un uomo di coscienza.

— Sì, signori: e poi, che cosa fanno tutti, a questo mondo? C’è chi prende una laurea, c’è chi avvia un negozio, c’è chi inventa una polvere per i denti, c’è chi fa il pittore. Ognuno, insomma si sente trascinato a dare al prossimo una certa quantità e qualità di illusioni, che gli verranno compensate con altrettante illusioni, quante merita. Invece di prendere una laurea in legge, ho preso una giostra: e la gente d’ogni paese e d’ogni età viene al mio studio... «Forza Nino!», attacco la «Semiramide» e spalanco i cervelli alle più beate visioni di monti, di mari, di paesi selvaggi che nessuno ha mai visto nemmeno al cinematografo. Poi se ne va contenta, la gente, e mi vuol bene. E io fumo la pipa e leggo molti libri, che sono la mia giostra. E non creda che solo i ragazzi mi vengano a cercare. No. Le dirò questo solo: una volta un commendatore che possedeva un gran castello in Piemonte, mi scritturò per tre giorni. Dovetti trasportare armi e bagagli nel suo parco, dove si diedero convegno, per certi festeggiamenti, tutte le ricche famiglie del vicinato. Ebbene, lo credereste? Il commendatore che, a vedermi in piazza, non si sarebbe nemmeno fermato, si è piantato lì, su quella berlina e non si è più mosso: per tre giorni non si è mosso. Quell’uomo, lì seduto, avrà fatto seicento chilometri ed è arrivato fresco come una rosa. La cosa più difficile del mestiere e la più delicata, a volerlo fare con coscienza, è la scelta del repertorio musicale. Ho suonate d’ogni specie e compero sempre nuovi cartoni a seconda delle esigenze, ma occorre molto orecchio. Pure, io credo che se l’organo non avesse difetti, il mio tatto non fallirebbe mai; ma gli mancano un «fa diesis» e un «do naturale» e allora, invece di suonare, soffia che è una cosa penosa. Guardi; quando arrivo in una città, la prima cosa che faccio, è l’acquisto dei giornali locali, dove si capiscono subito i gusti politici, musicali, generici della gente. Fiuto il momento e in due e due quattro, dopo la «Semiramide» e il «Faust» che sono il pasto quotidiano, il livello del mare, la base insomma d’ogni coltura musicale, attacco l’«internazionale» o la «duchessa del Bal Tabarin» a seconda che il pubblico è prevalentemente socialista o conservatore. Adesso si suona molto, l’«internazionale», ma pensi che per quattro anni non si è suonato che la «marcia reale». Anche la musica ha i suoi alti e bassi. Ma la gente, in giostra, ci va sempre. –

* * *

Non capiva, Timoteo Bergonzi, perchè mai suo figlio non condividesse questo orgoglio. Non capiva e ne soffriva. Suo figlio era tutta la sua ragion d’essere, insieme alla giostra e scoprire alle volte sulla fronte alta e fine del suo ragazzo un lampo di disprezzo per quei cavalli focosi, dalle criniere inverosimili, era doloroso, per lui, come subire un insulto di ingratitudine.

Il figlio studiava all’università e tra poco si sarebbe addottorato in medicina. Timoteo lo aveva sempre seguito. Per lui, un paese o un altro, un bastione o un prato, una collina o una valle per lui era lo stesso: ed aveva seguito il figlio ferito in tutte le peregrinazioni di ospedale in ospedale, di paese in paese; il figlio quasi dottore alla città degli studi; sempre. E poi che dunque la sua scelta topografica aveva esclusivamente un carattere di occasionalità sentimentale, curava Timoteo di rendere minore che fosse possibile anche nello stesso paese, la distanza fra il suo carrozzone azzurro e la camera ammobiliata, che il figliolo affittava e che era sempre bella e pulita e in tutto degna del fine ed elegante giovane, che aveva l’onore di ospitare. Così molto spesso accadeva che questi, dal suo studio, udisse per ore intere l’organo meccanico, fallace nel «fa diesis» e nel «do naturale», scatenare per l’aria lucida e festosa le note più delicate del più doloroso Bellini. E non condivideva gli entusiasmi paterni.

Tuttavia Timoteo era felice di sapere il figliolo così prossimo e si illudeva ad ogni costo di prodigargli in tal modo un po’ della felicità che rideva negli occhi di tutti i bambini, di tutte le fantesche, di tutti i caporali che gli giravano intorno; felicità che gli era proibita da troppe ragioni di rango, da troppi pregiudizi di casta. Così all’orgoglio della professione Timoteo finiva per confondere quello della paternità. E poi? E dopo? Ma può essere che al mondo sia vietato a un medico e a un giostrajo di vivere vicini?

La pipa impregnava tutti i suoi pensieri, raccolti e quieti, d’un aroma paradisiaco.

* * *

Un crepuscolo domenicale. Sui filari del bastione il sole ha spento le sue fiamme e ha lasciato, alitante tra le rame immobili, il greve profumo della sua generosa combustione; ma a poco a poco, il caldo aroma, sempre più si spezza in solchi freddi e tenebrosi, traversati dal lontano respiro della notte. È l’ora dell’abbandono; è l’ora della festività che riposa; è l’ora della gioja che respira; ora serena in cui tutti si ridiventa fanciulli; ora canora, in cui tutti i fanciulli delle contrade si cercano, si adunano, ruzzano, ridono, giocano, volteggiano come passere, mentre nelle case si accendono le prime luci malinconiche.

Intorno alla giostra di Timoteo Bergonzi, tutta a specchi, a fiammelle d’acetilene, a colori abbacinanti è la folla più varia che grida; e l’organo grida più forte, sempre più forte, man mano che la notte discende, squilla alle pallide stelle canzoni di guerra, canzoni d’amore, per la gioja della gente che gira, che gira, che gira, intorno a una colonna magica di specchi e di fiammelle.

Timoteo a quello spettacolo si commuoveva sempre. Da quanto tempo? Chi sa? Certo un bel giorno egli si persuase d’essere davvero un dispensatore di illusioni, si convinse del potere miracoloso che hanno sugli uomini le cose che brillano, vibrano, girano, cantano e che ciò era bello e buono. E da quel giorno in poi, tutte le sere egli subì prima d’ogni altro il fascino miracoloso di questo incantamento.

Una signora e una signorina si fermano a pochi passi dalla giostra, mostrano desiderio di vedere, si fanno gentilmente largo tra la folla dei ragazzi: la loro attenzione converge sul padrone che troneggia in mezzo al folgorare delle fiamme. Timoteo esce dal cerchio dei cavalli e delle berline moresche, si leva la pipa di bocca, si tocca il berretto.

— Desiderano, lor signorie, fare una corsa?

La signorina ride.

— No, no...

Timoteo aggrotta le sopraciglia.

— Volevo vedere. Da vicino non avevo mai veduto una giostra.

Timoteo spalanca le braccia allo scandalo.

— No? E come? È possibile?

— Quando vi dico...

— Ebbene, ora le fo’ vedere cos’è una giostra. Vuol montare dunque?

— No, no.

— È lo stesso. Ragazzi in sella! Ragazzine in carrozza! Viaggio gratuito in onore delle signorie...

Accadde un pandemonio. Tutta l’armatura della giostra scricchiolò; paurosamente piegò sotto il peso di troppa allegria. Ogni cavallo reggeva un grappolo di bimbi e la fatica immensa di divincolarsi da quelle piccole mani bramose e tenaci giustificò, per un attimo, il fantastico sconvolgimento della criniera, la contrazione spasmodica delle frogie, l’orrore delle orbite spalancate.

Timoteo si rimise la pipa in bocca e attese.

— Ma non vedete quello che succede?

— Niente. Io non muovo la giostra fin che non è finito questo pasticcio. Del resto, quando si è in troppi in qualche luogo, non c’è bisogno di nessuno a rimettere in sesto le cose. I più forti si incaricano della bisogna. Dopo, la giostra cammina che è un piacere.

— Ma è ingiusto.

— Sarebbe ingiusto il contrario. È la vita. I forti contro i deboli, i sapienti contro gli ignoranti, gli scaltri contro gli imbecilli, i giovani contro i vecchi... Se no, a questo mondo non saremmo ancora arrivati al tram elettrico. Ecco, vede? Guardi che bei ragazzi quelli che sono rimasti in sella. Pronti? In onore delle signorie, marcia trionfale dell’«Aida». Nino! Hip! Via! Bravo Nino! Che spostata!

— Oh...

Timoteo spalancò i suoi fondi occhi cinerei a godere con tenerezza paterna quello scoppiare sempre nuovo di luci, di inni, di risa, che pareva cadere nel grande asse della giostra tutto sfaccettato a specchi, tutto specchi e perle e bolle di vetro verdi e turchine, per ribalzare prodigiosamente indietro, con scatti di follia e spegnersi e morire nelle cento pupille dilatate che attendevano intorno.

— Ma guardi signoria! Immagini d’esserci sopra e guardi al perno! Non muova gli occhi dal perno... È un altro mondo, vede? È un’altra gente, vede? È una velocità pazza, vede? Guardi, signoria, neanche in treno questi orizzonti, questo verde, questa gente bizzarra che salta e si ferma d’un tratto, e salta ancora... E passano per l’aria i fuochi leggeri d’una festa di fate!... Neanche in treno... Ah, deve essere bello starci sopra e volare...

La signorina rise.

— Non ci siete mai stato?

— Io? No.

— E perchè?

— Perchè farei ridere. Non so perchè, ma farei ridere. Un trattore mangia sempre in un’altra trattoria.

— Come vi chiamate?

— Timoteo Bergonzi.

— Bergonzi? Non mi è nuovo questo cognome.

— Ho un figlio che studia medicina all’università.

— Ah!

Le due signore si volsero rapidamente e si allontanarono.

— Signorie! Che modi son questi? Accidenti all’aristocrazia! Ferma, Nino! Giù tutti! E adesso attenti, ragazzi: giro a prezzo doppio. E attacca l’«internazionale»!

* * *

— Insomma, papà, questa volta dovete darmi retta assolutamente. Fra dieci giorni io sarò medico e non sta bene che voi continuiate a fare questo mestiere...

— ...che ti ha fatto medico e grasso...

— Va bene, va bene, vi son grato, lo sapete, papà, ma adesso basta. C’è di mezzo la mia felicità. E poi è inutile discutere: sapete quello che è accaduto ed è necessario che facciate quello che vi chiedo.

— Accidenti all’aristocrazia! Che male faccio io alla gente? La prendo in giro, ecco tutto. E tu?

— Ma insomma...

— Dico, mi lascierai fare la domenica di Pentecoste, no?

— Ma no, papà. Che bisogno c’è?... Siete pieno di quattrini...

— Me ne infischio, io, dei quattrini...

— Ma non siete stato lì lì, per mandare a monte tutto il mio sogno, tutta la mia vita. Non insistete, vi prego...

Timoteo sospirò lungamente. Si alzò con fatica e porse la mano al figliolo, che intanto si disponeva a uscire dal carrozzone azzurro.

— Va bene.

Si sentì debole, fiacco e nel muoversi avvertì un sordo contraccolpo di sangue, su, nel cervello. Quei due giorni di discussione col figlio lo avevano invecchiato di dieci anni. Si avvicinò, curvo, al giovane e gli disse:

— Senti, sto male; fammi una visita.

— Una visita, io?

— Già, è vero. È come se io ti dicessi: Vieni a fare un giro in giostra. Però vedi, si parte quasi sempre in mala fede, a questo mondo; poi, lungo la strada ci si persuade. Una volta ridevo dei miei clienti. Adesso... Ti dò la mia parola d’onore che avrei voluto farti fare il viaggio di nozze sulla mia giostra... Chi sa com’è? Una volta ridevo e dicevo: «Quanto è stupido l’uomo che va in giostra!» No, amico mio, l’uomo è uomo, sempre: quando va in giostra, quando va a piedi, quando sta fermo,.. Ecco: tu non mi vuoi fare una visita. Perchè non ti fidi, perchè non ti credi, eh, dottore? Ebbene, fra qualche anno, quando avrai ciurlato pel manico, anzi per la pelle molti clienti, allora, più somaro d’adesso, ti fiderai, ti crederai... Allora, se ti dirò: «Senti, sto male», svergognato, mi tasterai il polso... L’uomo è uomo. E anch’io, figlio mio... È tardi e mi sento molto male, molto male, molto male. Buona notte.

* * *

Rimasto solo Timoteo non ebbe tempo di pensare ai casi suoi. Il cerchio di ferro che gli stringeva la testa da due giorni si era fatto in quelle ultime ore più fermo, più freddo e le gambe parevano decise e non servirlo più. Si sdrajò sulla sua cuccia sotto la finestretta del carrozzone azzurro, donde entrava la notte di primavera profumata e morbida come una donzella. Ma non potè dormire, non potè pensare.

Si alzò, uscì all’aria aperta sotto le stelle limpidissime. Lentamente si avvicinò alla sua giostra. Il pensiero di doverla demolire – venderla no, mai! – lo premeva sul cuore come un pugno di piombo. Parve perplesso. Poi si mosse ancora, staccò tutte le tende, accese tutte le luci, caricò a tutta molla il bell’organo meccanico. E svegliò il cavallo.

— Nino! Nino! Un giro per il padrone!

La bestia s’alzò con violenza dalla paglia, si scrollò, slabbrò soffiando dalle frogie contratte la sua stanchezza insoddisfatta; poi si guardò lentamente intorno, stupito di quelle luci, di quelle tenebre, di quel silenzio.

— Su, Nino!

Il cavallo evidentemente non capiva. Ma si lasciò legare. Guardava il padrone; lo seguiva col suo grande occhio languido mentre egli andava pian piano, un po’ barcollante, di qua, di là a stringere una vite, a lustrare uno specchio a mettere nell’organo un cartone di musica...

La scelta della musica preoccupò un poco il vecchio, ma poco.

— Ecco; la marcia funebre della «Jone».

Timoteo salì sulla berlina accanto al cavallo. Il motore dell’organo battè alcuni tempi a vuoto, poi soffiò alle stelle molti «fa diesis». Il cavallo guardava il padrone.

— Nino, Hip! Gira! Ultimo giro signori!

Ma il cavallo non capiva. Pareva sperduto. Mosse la testa per guardarsi intorno, poi, ancora, guardò il padrone.

— Hip! Gira!

Infine obbedì e la giostra si mosse. Timoteo socchiuse gli occhi: non li chiuse per godere la meravigliosa caleidoscopia degli specchietti dell’asse, tutta luce e perle e bolle verdi e turchine e immagini fantasiose...

— Ancora, Nino, ancora... ancora... ancora...

Poi vide anche ad occhi chiusi. E allora non si mosse più, nemmeno quando Nino, trafelato, ansante, stordito, si fermò, tentò per impazienza il terreno con lo zoccolo consunto, agitò dall’alto al basso e con furia la testa lunga e scarna; non si mosse più nemmeno quando l’organo, passato il cartone della «Jone», continuò a pulsare nel vuoto, tempi sordi e violenti, come un cuore malato.

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