I passeggeri di Caronte

Carlo de Bellis si disinteressa della vita non perchè sia professore di filosofia, ma perchè ha sessant’anni e buona salute. Quando si ha sessant’anni non bisogna più occuparsi che della salute e se essa è buona, bisogna chiudersi in casa, guardarsi dai colpi d’aria, accontentarsi dell’orizzonte cilestrino, contemplato dalla finestra a vetri chiusi, il corpo abbandonato al tepore di una poltrona comoda e profonda. E quando la coscienza è tranquilla – Carlo ha una coscienza molto tranquilla – bisogna chiudersi in casa, guardarsi dal proprio simile, che infuria per le vie del mondo, accontentarsi di ciò che fu – e che è sempre un orizzonte cilestrino – senza pensare a ciò che è, o avrebbe potuto essere, se... No. Bisogna fermarsi a guardare indietro, quando si ha la minacciosa età di sessant’anni e si ha paura della morte. E anche questo finisce per giovare alla salute.

Carlo de Bellis ha una gran paura del fenomeno morte, perchè esce dal dominio della sua logica interpretativa, ma d’altra parte ha da tempo capìto tutte queste cose, per intuito di uomo di buon senso e in virtù della inveterata abitudine di procurarsi, nella vita, il massimo godimento della tranquillità col minimo sforzo di sacrificio.

Più che partecipare alla vita, vi ha assistito con la indifferenza morale che gli viene dalla miopia professionale: nella commedia umana egli ha recitato la parte, assai comoda, del personaggio che non dice niente.

Per cui, chiudersi in casa al riparo dalle correnti fredde e dai contatti umani; abbandonarsi ai tepore di una comoda e profonda poltrona e in tranquilla coscienza; mirare infine, a traverso i vetri chiusi della finestra, l’azzurro delle lontananze; tutto questo era stato per lui, più che una saggia provvidenza, una conseguenza automatica.

Dalla sua finestra – la modesta finestra di una casetta fuori di porta – vede i colli di Bologna che sono sempre morbidi e luminosi e indicibilmente tranquilli: i colli di Bologna e niente altro. Nel cuore, una giovinezza lontana; sempre morbida e tranquilla nel suo ricordo; sempre dolce e luminosa. E lui, lui, sempre lui. In fondo all’anima dell’uomo pacifico la giovinezza è lui, primo sorriso della speranza, ultimo sorriso della nostalgia. Tutti i ricordi, tutte le dolcezze, tutte le malinconie del passato hanno ceduto, a poco a poco, alle nebbie della lontananza e vi si sono immerse in dimenticanza o in rassegnazione. Lui no: lontano come un sole, è vivo come un sole e, quando Carlo voglia, può sempre distendere la sua vecchia anima, stanca di una stanchezza organica, al tepore di quei raggi, per sognare.

Trent’anni fa si salutarono, perchè lui era bello, forte, geniale e doveva passare per le vie del mondo combattendo. Carlo doveva invece passare, insensibilmente, come un’ombra.

Ora pensa: «Dove sarà? Vivo? Certo vivo! Ricorderà?»

A volte dubita: «È di quelli che non si voltano indietro, è di quelli che non hanno riposo, perchè non temono nè il male nè il bene, due movimenti pericolosi, o al prossimo, o a sè stessi. È di quelli che camminano sempre e che hanno la triste vecchiaja, perchè non si voltano indietro e, se pure hanno paura della morte, l’affrontano, come una nemica».

A volte si consola: «Deve ricordarmi. Deve pensare a me. Io fui il primo a dirgli: «Cammina, la vita è tua! Corri e dona, come a me hai donato, il tuo sorriso, la tua gioja selvaggia, la tua bella violenza. Il mondo è tuo. Il mondo è ai tuoi piedi!» Io fui il primo a dirgli questo ed egli me ne sarà grato. Mi ricorderà!»

Lui si chiamerebbe Giorgio, ma ciò non ha importanza.

Margherita, sposa, da quasi trent’anni al professore di filosofia, non ha imparato dal marito la scienza sublime del disinteresse alla vita, perchè il marito l’ha resa madre. Quando una donna ha una figlia ventenne, per quanto abbia oltrepassato i limiti del desiderio, dei desiderî, o comunque, della decenza, non può assolutamente, nemmeno volendo, disinteressarsi della vita.

Anna. Signorina del secolo XX. È inutile aggiungere altro.

* * *

Il dissidio filosofico – se pure di dissidio si può parlare – non toglie che fra Carlo e la sua vecchia compagna, sia perfetta la pace. Perchè la moglie per bene segue sempre il marito, anche quando il marito si abbandona a viaggi immaginari per le lontananze abbandonate. Carlo è sdrajato sulla sua poltrona e guarda laggiù. Margherita gli siede accanto e guarda alla calzetta, che sta facendo tranquillamente.

Carlo – Perchè sospiri?

Margherita – E tu?

Carlo – Perchè sono solo. Vedi? Io ho lavorato tutta la vita a fabbricare delle nostalgie per la mia vecchiaja. Per questo non ho mai fatto del male. Io sono sicuro di non avere mai fatto del male. La virtù è per me una necessità fisiologica, naturale. Si potrebbe dire che la mia vita, come tutta la vita, è un perfetto sillogisma, filato a ragion veduta. Il mio «dunque» è questa virtù, che ama di essere ricordata.

Margherita – Chi può giudicare il bene e il male?

Carlo – Ti dico che è impossibile commettere delle cattive azioni, quando non si pensa ad altro che a fabbricarsi delle nostalgie. Triste è questo: che, per quanto tu abbia fatto, la vecchiaja si incarica sempre, in un modo o in un altro, di inutilizzare questi pazienti sforzi del passato e di consumare disperatamente questi risparmi spirituali. Io oramai sono alla rovina.

Margherita – Alla rovina?

Carlo – Una grande stanchezza percuote tutte le mie fibre. E le delusioni continuano a cadere su di me, pesantemente. Di che vivere oggi, che non posso più costruire, se non di nostalgie, di memorie? Fin che un uomo ricorda e, ricordando, rivive, vive. Se non avessi proprio più nulla di questi amorosi risparmi dell’anima, sarei vecchio, assai più vecchio: nè di qua, nè di là, sulla barca di Caronte – un buon Caronte universale, ma inesorabile sempre –...

Margherita – Tu, dunque, vivi ancora?

Carlo – Io vivo di una sola cosa, della sola cosa che mi è rimasta: lui.

Margherita – Tu mi hai domandato perchè sospiro. Io so che tu mi amasti ed amasti anche la nostra piccola Anna. Mi chiamavi Biondella, ricordi? La chiamavi Ninì. Ricordi? Perchè ci allontani così tutte e due dalla tua consolazione?

Carlo (un po’ arguto, un po’ amaro) – Quando il passato si protende fino alla realtà presente a traverso espressioni fisiche, sensibili, lo si concepisce soltanto e in quanto presente. Una moglie che ci sta innanzi vecchia e cadente, non è mai stata giovane, non è mai stata Biondella... E quando si ha innanzi una giovane che si tinge di minio e di bistro, ebbene, quella giovane non è mai stata innocente. No, non protestare: Biondella e Ninì, sono due parole desolatamente vuote... Lui, lui, lui... (Il vecchio si anima. Ha, negli occhi e nel volto, fiammate giovanili. Tutta la sua persona, negli angoli e nelle lunghe linee rette che la costruiscono, trema. Pare che le sue ossa si facciano pieghevoli e plastiche). Lui è qui, chiuso nel mio cervello e si esprime in mille forme meravigliose. E non muta! È qui, fermo!...

Margherita (amaramente) – Gli hai voluto molto bene.

Carlo – Certo, come lui ne volle a me. Avevamo diviso in due campi ben definiti la nostra vita: a lui l’azione, la ribellione, il tormento; a me la contemplazione, il sogno, la quiete. Egli mi infiammava col racconto delle sue gesta; io lo rapivo dicendogliene la bellezza. Egli era la mia esperienza, io ero la sua teoria. Senza di lui, io non sarei mai stato giovane. Forse, per me, egli non sarà mai vecchio.

Margherita – Gli hai voluto molto bene.

Carlo – Chi non ha avuto un amico, non sa che cosa significhi questo culto che da trent’anni, dal giorno della sua partenza custodisco in fondo all’anima. Non lo ricordi? Era bello, vigoroso, giovane, veramente giovane. È rimasto immutato. Ricordi?

Margherita – Ricordo.

Carlo – Tu fosti – non tu povera donna bianca e stanca – Biondella fu l’unica nube. Io vidi Biondella un giorno all’uscita di una scuola. Era tanto bella e me ne innamorai. Poi anch’egli la vide e forse se ne sarebbe innamorato come me, se io, timoroso e corrucciato, non lo avessi guardato in fondo agli occhi con le mie pupille intorbidite. Non mi disse nulla; ma non la seguì più, non la cercò più...

Margherita – Non la incontrò più.

Carlo (tace lungamente).

Margherita – E poi? Non dici più nulla?

Carlo – Parlerei ancora di lui...

Margherita – Parla ancora.

* * *

Poi che Anna, con tutto il suo bistro e il suo minio, è pur sempre molto graziosa e gentile; e poi che la madre, che l’accompagna dovunque, ha un aspetto domestico e soave, è probabilissimo che una sera o l’altra al concertino del Caffè Centrale la fanciulla riesca a trovare un buon diavolaccio di marito. Anzi Margherita sa di un certo scambio di occhiate promettenti fra sua figlia e un giovanotto per bene. Un problema risolto. L’avvenire senza attese, anche per lei, povera vecchia bianca e stanca. Carlo non vuol sentire queste cose. Crolla il capo commiserando, saluta le due donne che escono e rimane solo in casa.

* * *

Spegne tutte le luci troppo vive e accende una lampadina azzurra. I vecchi hanno bisogno di molto raccoglimento, per sognare. Sorride della sua solitudine e del grande silenzio che è intorno. A un tratto il campanello trilla. Sembra lo scoppio di un acutissimo grido, pieno di spasimo e di scherno. Carlo ha un tremito fulmineo. Si porta una mano al cuore, stanco di battere. Il campanello trilla un’altra volta. Carlo si alza. «Che cosa avranno dimenticato?» Apre le imposte della finestra e immerge il capo bianco nelle tenebre della notte.

Carlo – Di ritorno?

La voce di un uomo – Di ritorno!

Carlo (ha un momento di incertezza e indugia un poco) – Chi cercate?

La voce – Il professore Carlo de Bellis.

Carlo – Sono io. Chi siete?

La voce – Amici.

Carlo si ritrae dalle tenebre. Chiude la finestra e va ad aprire. Rientra, riaccende la luce più vivida, quella che serve a guardar bene in faccia la realtà, e attende. Un minuto dopo un uomo mal vestito, canuto, lacero, entra. La figura sinistra meraviglia e disdegna tutte le cose oneste, disposte con ordine intorno.

Carlo – Che cosa volete buon uomo?

L’uomo (alza lo sguardo torbido sull’ospite) – Perchè mi ha aperto la porta?

Carlo – Non avete suonato?

L’uomo – Non basta, pare, se mi ha domandato anche: Chi siete?

Carlo – Mi avete risposto: Amici.

L’uomo – Ah, perchè quando le dicono «amici» lei apre la porta? Bene. E se fossi un nemico?

Carlo – Non ne ho ch’io sappia; se vi fosse alcuno che senza conoscermi mi odiasse, uscirebbe di qui con diverso pensiero.

L’uomo – E se fossi un ladro?

Carlo – Avrei compassione di voi perchè qui non c’è nulla da rubare.

L’uomo – E se fossi un mendicante?

Carlo – Vi farei elemosina.

L’uomo – E.... uno scroccone?

Carlo – Ma, dunque, chi siete?

L’uomo – Uno scroccone.

Carlo – O dunque, perchè avete domandato del professor Carlo de Bellis, che non è certo in fama di prodigo?

L’uomo – Lo so. So che la nota dominante del suo temperamento, professore, è proprio l’equilibrio. Tutto a seconda delle forze disponibili, calcolando in bilancio un poco di risparmio. Nè troppo, nè troppo poco. Un po’ meno del possibile, sempre. Nè male, nè troppo bene. Bene il meno possibile...

Carlo (turbato e impaziente non ha più che un desiderio: finire) – Dunque?

L’uomo – Mi regali dieci lire.

Carlo – Eccole.

L’uomo (le ghermisce avidamente) – Non le scrocco che dieci lire, vedrà. Anzi, a rigor di logica, nemmeno queste. Vede, professore? Ora mi spiego. Io ho due situazioni da liquidare: la mia personale, tanto da arrivare a mezzanotte – ho un convegno fantasioso! – e l’altra fra me e la vita. Voglio essere in pari con tutti. Queste dieci lire rappresentano un gran passo verso la soluzione della prima questione: una bottiglia di Porto, che io berrò alla sua salute. Non mi guardi a quel modo, professore: prima di giudicare, bisogna conoscere. Si tratta forse di una mia necessità, più estetica che fisiologica. Queste, dunque, mi assicurano una lieta e buona morte in mezzo a una dolce corona di bajadere sognate... Non si meravigli, se io le prendo subito. Non so se lei me le darebbe più tardi, quando, a forza di guardarmi, avrà finito per convincersi che l’abito fa il monaco...

Carlo (si irrigidisce a un tratto di stupore. Fissa lungamente con gli occhi spalancati l’ospite importuno. Non dice nulla, ma le fiamme, che passano per le sue pupille dilatate, sembra che abbrucino, silenziosamente, mille e mille pensieri vorticosi, inesprimibili).

L’uomo (sogghigna intanto, poi:) – Sì, sono io... Sono proprio io... Sì, anch’io sono un poco commosso... Ma càlmati... càlmati...

Carlo (disperatamente) – Così... così...

Giorgio – Mi raccomando: cerchiamo di frenare il sentimento. Che c’è poi di strano? Io non sono per nulla mutato. V’è differenza, filosofo, fra la dentiera di un uomo vivo e quella di un uomo morto? Nessuna. Il morto la mostra con una maggiore ostentazione – vanità, verità. – Io mi ti mostro con una maggiore ostentazione – vanità, verità. – Ecco tutto.

Carlo – Trent’anni, trent’anni...

Giorgio – In questi trent’anni tu ti sei innalzato di due o tre gradini sulla scala sociale. Io li ho discesi tutti. Tu porti nell’abito e nel volto i segni della dignità professorale e sei maestro di sapienza alle generazioni che crescono: io sono stato in galera e al manicomio – che fa lo stesso – e porto attaccato, alle scarpe, il fango degli angiporti e, alla pelle, il sentore dei lupanari. Irriconoscibili tutti e due a noi stessi. Ciò non toglie che oggi io ti possa guardare in faccia, come non ho mai guardato nessuno, e per una volta tanto mi accinga a dare a te, professore di sapienza, una lezione di sapienza.

Carlo – Tu... tu...

Giorgio – Io, sì, trasformato da una vita di rovina e di peccato, a te trasformato da una sozza avarizia spirituale, che forse ti ha permesso di non fare il male, ma ti ha impedito di fare il bene. Due attività che hanno bisogno di un discreto impiego di capitali a fondo perduto. Non mi guardare così meravigliato. Io ti conosco bene e, senza avere avuto notizia di te, in questi trent’anni – che a pensarli sembrano una eternità – potrei raccontarti, per filo e per segno, i movimenti spirituali di tutta la tua vita.

Carlo – Che cosa vuoi da me? Dimmi. Io farò tutto quello che vuoi, ti darò tutto quello che vuoi...

Giorgio – Ecco, tu vorresti che io me ne andassi, perchè la mia presenza ti sciupa qualche cosa. Non posso. Ho un conto da regolare con te. Uno solo. L’ultimo, per essere in pari con la vita, e bere in pace la tua bottiglia di Porto. Ascoltami bene: nella mia vita non ho fatto che distruggere: la mia salute con le prostitute, la mia ricchezza nelle più luride bische, il mio cuore nei più perversi travagli e il cuore di tutti coloro, che mi avvicinarono, per vendetta della mia miseria... Nessuno mi ha amato. Io non ho amato nessuno. Ebbene: una sola persona ho ricordato, sempre, in tutti i tempi della mia furia. Tu.

Carlo (Cede un momento alla tenue speranza che gli offrono le indefinite parole dell’amico e scoppia in un pianto che è di consolazione, forse, di disperazione, forse, di paura, forse) – Anch’io ti ho ricordato, sempre, in tutti i tempi della mia pazienza!

Giorgio (gli va incontro con l’indice teso e grida l’accusa:) – Il punto di partenza del mio cammino nel mondo!

Carlo – La luce di tutta la mia nostalgia!

Giorgio – E man mano che i giorni passavano ed io scendevo, io, vedi?, non sapevo da prima il perchè, io ti odiavo, come si odia un nemico.

Carlo – E perchè? Io ti amavo, ti amavo sempre!

Giorgio – Lo so, lo so. Io sentivo questo tuo amore, che mi stava accanto e non sapevo distruggerlo, perchè era radicato nel passato, che è come dire nel sogno! Per questo io sono venuto qui, da te, a prenderti dieci lire per morire giocondo e per sentirmi dire una parola di odio, che mi compensi del mio veleno e mi liberi dal tormento del tuo amore, che io non voglio più sentire, accanto a me, come un angelo custode o come un demonio tentatore!

Carlo (disperatamente si accascia su una seggiola e mormora ancora) – La luce di tutta la mia nostalgia!

Giorgio – La tua nostalgia ti accusa!

Carlo (con uno schianto vertiginoso nella voce, come se domandasse all’Infinito il più grande «Perchè» o il più piccolo «Perchè») – Perchè? Perchè?

Giorgio – Non so dirti perchè, con esattezza e coscienza. È un sentimento confuso: un senso vago, un istinto, qualche cosa che io stesso non riesco a volgarizzare per la nostra ragione se non così. Ecco: ti ricordi quando cenavamo insieme, all’Osteria del Nero? Tu volevi ogni sera il racconto delle mie storie amorose, delle mie avventure di capo scarico... Erano il tuo passatempo, il tuo svago, erano le tue avventure. Invece di leggere romanzi, volevi che te li recitassi io, che te li leggessi io, nel libro meraviglioso della mia vita. Ricordi? E io che ti volevo bene, perchè non ti annojassi e perchè la tua povertà e il tuo ingenuo stupore mi davano un infinito senso di possanza, inventavo di sana pianta tutte le storie amorose, alle quali ti appassionavi quotidianamente, con la sordida malignità delle anime oneste per difetto di iniziativa. No, non mentivo che a metà: tu ti infiammavi nel racconto, io nella creazione e ogni giorno mandavo in atto la fantasia della sera prima... Sempre. Ecco: vi sono due categorie di uomini perversi: quelli che si abbandonano e tentano ogni cattiva azione – io per esempio – e quelli che non commettono nulla di male, ma amano il male, ne cercano il pizzicore appetitoso e ne vogliono sentire il profumo, sulla bocca di chi lungamente ne gustò il sapore. Tu, per esempio, anima onesta e tranquilla che, senza peccare, godevi dei miei adulterî immaginari... Immaginari fino al giorno dopo... Immaginavo per te, sì, per te, trascinato, spronato, incoraggiato, applaudito da te. E tu ne godevi... Ti pare strano che io, proprio io, arrivi ad una tale delicatezza morale?... No, no! Quelle mie volontà, quelle mie corrosioni, furono il sorriso della tua giovinezza. No? E per la tua giovinezza passiva, trovai nel mio essere quello che... c’era, sì, veramente: la disperata malattia (riprende il suo tono, con una interminabile risata) – divento morale! – la meravigliosa sete del piacere!

Carlo – Giorgio, Giorgio, te ne prego.

Giorgio – Un momento: per tutta la mia vita, tu mi sei stato accanto ed io ti ho raccontato le più pazze avventure di giuoco, d’amore, di vizio, di passione, che si possano immaginare; ti ho divertito per trent’anni con le mie fantasie, che il giorno dopo mettevo infallibilmente in atto. Professore, anima onesta per difetto di iniziativa, vuoi una mia nuova fantasia?

Carlo – No, taci, taci, te ne prego... Puoi ancora rendermi una grazia! Vattene, io crederò di avere sognato, vattene per carità della mia vita... della mia povera vita...

Giorgio – Non posso, prima di essere al sicuro del fatto mio.

Carlo – Ma perchè, ma perchè?

Giorgio – Perchè, entro due ore, debbo essere in pari con la vita: voglio tagliare le ultime gomene che trattengono il mio barcone, sventrato e sbandato, al mondo e mi costringono a voltarmi indietro, ostinatamente, a piangere lacrime di odio, a ridere di odio...

Carlo – Ma infine che cosa vuoi tu da me? Tu sei come un ladro: tu vuoi portarmi via tutto. Perchè? Tu mi accusi! Perchè? Io non sono colpevole. Tu mi odi ed io ripeto che ti amo, come la fantasia ti ricorda. Così, non ti conosco. Di che responsabilità parli tu?

Giorgio – Calma, amico; non far l’avvocato. Non siamo, per niente affatto, al cospetto di una augusta corte vestita di nero, la quale abbia per avventura bisogno di testimoni e di concioni. Noi parliamo innanzi a un tribunale che si chiama Coscienza. Ragioniamo: tu mi hai rovinato...

Carlo – Ma è possibile, è possibile, col mio sorriso?

Giorgio – Poesia, poesia, sempre poesia! Basta, dunque! Prendi gli occhiali e guardati dentro, guarda dentro a tutte le anime. Vivono in esse profondità inconoscibili, viluppi contorti e misteriosi di istinti, che se ne infischiano della legge di proporzione e di logica. Responsabilità! Un sassolino nell’acqua. Potrebbe forse provocare un naufragio. Che ne sai tu?

Carlo – Ma quello che tu dici è pazzo!

Giorgio – Per un chimico forse. Ma io non sono qui per discutere. Ascoltami: ho qualche volta pensato all’immenso beneficio che io avrei avuto da una tua parola di saggezza. Fermati! Bastava. Fermati! No: tu mi hai detto: Corri! Sembravo il più forte dei due. Corri! Ho obbedito fino in fondo come una valanga. Ero il più debole. Ora, è giusto che tu viva in pace, senza sapere ciò? Onestamente, posso io accettare il tuo nostalgico amore, quando io non ti serbo che rancore e odio? In questo caso, vedi, la mia vendetta si chiama giustizia, onesta giustizia...

Carlo – Ma è più forte il mio amore...

Giorgio – Perchè forse non sono riuscito a renderti la realtà dei tuoi rimorsi.

Carlo – Ma è più forte ancora! La mia coscienza è tranquilla!

Giorgio – Non vi è tranquillità se non a prezzo di qualche rovina. Basta. Vuoi dunque una mia nuova fantasia? La più bella, la più luminosa di tutte? Ieri, calpestando le ceneri di ciò che ancora rimaneva in piedi della mia vita e dopo avere bevuto voluttuosamente, a sorsi, una bottiglia di vecchio Porto, offertami da un amico di giovinezza, io mi sono ucciso, con questa (alza una rivoltella e ride).

Carlo (balza in piedi e urla) – Vattene, vattene, pazzo, vattene!...

Giorgio – Professore, senti finalmente nella carne il dente del rimorso? Oh, davvero che dovrei essere contento dell’effetto prodotto sul tuo sistema nervoso dalla mia fantasia più bella. Confesso, però, che anche questa soddisfazione è scroccata, perchè, sì, sono sicuro di bere alla tua salute la bottiglia di vecchio Porto, ma non sono altrettanto sicuro di ammazzarmi. Non vorrei che mi venisse in mente qualche altro conto sospeso, magari con te.

Carlo (con la voce strozzata) – Basta, basta! Io non so se quello che sento è odio come tu vuoi, ma vattene fiero di avere provocato in fondo all’anima mia uno stridore sordo, un tormento che repugna, non so... non so...

Giorgio – Ho capìto. È un disagio del tuo egoismo ferito. È facile provocarlo, quando si hanno innanzi delle figure, ripiegate su sè stesse, come te, che come te sono passate per la vita, senza sapere, senza vedere, ballonzolandosi nel ventre delle funzioni ostinatamente regolari una coscienza tranquilla. (Un riso stridulo, un urlo:) Chi può avere una coscienza tranquilla al cospetto di Dio? (Si calma improvvisamente). Basta. Adesso che ho detto tutto, posso vedere dunque se è il caso di imbarcarmi per il mondo di là. Addio.

* * *

Mentre sta per valicare la soglia, Anna entra. Egli le cede il passo e rimane fermo sullo stipite della porta come colpito dalla sua bellezza. Carlo, veduta la figlia, cerca di nascondere con uno sforzo sovrumano la propria angoscia.

Anna – Buona notte papà.

Carlo – Buona notte.

Anna – Che hai? Chi è?

Carlo – Niente. Nessuno. Buona notte.

Anna – Buona notte.

* * *

Giorgio (non esce: ritorna verso l’amico, sorridendo) – O senti questa: mi è venuta in mente guardando tua figlia. Io ti racconto una bella istoria d’amore, ma vera, proprio vera, passata, cioè. Oramai non ho più tempo di creare. Senti: ti ricordi Biondella? (un pallore mortale cala sul volto dell’infelice). Ma sì, quella signorina, che ti invaghì. Ricordi? Quella che provocò, senza saperlo, un piccolo incidente tra noi...

Carlo (tace e trema).

Giorgio – Non te ne ricordi più? Fa niente. È interessante lo stesso. Io allora fui generoso e ti lasciai campo libero. Fui generoso in nome dell’amicizia. L’unica mia buona azione. Immagina, dunque. Sposò, sai? Non so chi, ma sposò...

Carlo – Vattene, in nome di Dio, vattene...

Giorgio – Non ti interessano più le mie storie? Non ti interesserebbe di sapere la minuta descrizione?... Perchè io la ritrovai quindici anni fa, a Milano. Mi riconobbe. Le donne non dimenticano mai gli uomini che hanno fatto loro un po’ di corte... Figurati che un poco, poco veramente, si ricordava anche di te...

Una pausa larga, misurata dal rantolo profondo del vecchio, che non osa più guardare il volto dell’amico, per non vedere, dietro di se, l’orrore di una vita inconsapevole e deserta. Poi un silenzio.

Giorgio (con una voce che sibila) – Ho passato con lei tre giorni e tre notti... tre notti... Ah...

Carlo affonda il capo nel petto. Si direbbe che la sua canizie diventi livida. Il corpo schiacciato, dentro la profonda poltrona, par che esali la vita nel frequente respiro, che fischia per le narici ottuse.

Giorgio (gli si avvicina lentamente) – Che hai? Sei morto?

Si china, l’uomo tristo; guarda intensamente l’amico dentro l’occhio socchiuso, vitreo, dentro le labbra che tremano di un moto paralitico; guarda insolentemente, curioso di misurare la profondità dell’abisso scavato in quell’anima, curioso di comprendere e di godere la propria vendetta sulla vita.

Giorgio – Che hai? Parla!

Un silenzio lunghissimo, un silenzio che non finisce mai, un silenzio pesante, oleoso, sul quale, a un tratto, la voce di una donna invisibile, scivola e si perde, senza gorgogli e senza echi.

— Posso entrare?

— Carlo, posso entrare?

Giorgio – Svegliati, vecchio! Ti chiamano.

La voce dell’amico, violenta come una frustata, produce nel vecchio una reazione fisica.

Carlo – Ti odio, ti odio...

Giorgio – Come dovevasi dimostrare!

Margherita (dietro l’uscio chiuso) – Perchè non rispondi? Posso dunque entrare?

Un grido soffocato, una violenza faticosa nel corpo, che si dibatte tra i vincoli della stanchezza. E il cadavere si erge spaventosamente. Balza all’uscio chiuso a cui si batte e vi fa scudo con tutta la persona disperatamente distesa, le braccia spalancate, il capo riverso, gli occhi e la voce gonfi di pianto.

Carlo – No, no, questo no!

Giorgio (comprende, dunque, la vendetta inconsapevole e ne ha terrore. Alza gli occhi stupefatti al cielo. Un attimo). – Anche questo? (ride). È prodigiosa la logica della vita, non ti pare? E io credevo ad un sofisma. Càlmati. Ho capìto. Ora davvero non mi resta che andarmene a meditare sull’altro curioso sofisma, che mi aspetta, che ci aspetta tutti. In viaggio, amico; noi non abbiamo più nulla da fare qui. Il vascello fantasma della morte ci offre il fascino del suo oscuro destino. Andiamo.

Si carica sulle spalle il laido mantello della miseria e grida

— Addio Biondella!

* * *

Si sente che, dietro l’uscio chiuso, qualcheduno trema. Carlo si volge, porta la mano violentemente sulla maniglia, sta per aprire.

No: ha paura di uccidere.

Corre alla finestra, ansimando, balbettando; la spalanca e si affaccia; immerge la testa nelle tenebre fredde. Gli par di sentire la voce di un uomo, che dalla via gridi: «Di ritorno!»

No: ha paura di uccidersi. Ha paura della morte.

— Spezzare così la mia vita, la mia pace! Tradire così il mio amore...

Misura con passi veementi la stanza e cerca in sè stesso, sotto il pungolo del tormento, la gioja selvaggia della vendetta.

— Tradire così.... Spezzare così.... Finire così...

Nello specchio della mensola la sua immagine passa e lo ferma.

La sua immagine, immobile, lo guarda con occhi di terrore.

— No! No!

Incatenato, dunque, nei polsi dal tremito della età minacciosa; imbavagliato fino a soffocare dai segni del tempo stampati intorno alla bocca paonazza; finito, finito, finito! La vita è troppo lontana, nel passato; e la passione, che gorgoglia qui dentro, nelle vecchie vene mortali, è troppo lontana, nel mondo. Finito, finito, finito! Perchè dunque tremare così? Perchè?

L’immagine ha uno sguardo un po’ bonario, un po’ ironico, un po’ triste, ed è tutta cadente.

— Più nulla. Fuori della vita. Più nulla...

Si sente che, dietro l’uscio chiuso, qualcheduno trema e attende. Carlo apre.

Piccina, piccina, tutta bianca e stanca, perchè tremare così? Più nulla. Non vedi? Più nulla. Fuori della vita, per sempre. E l’anima affidata al misterioso pilota dell’infinito.

Margherita (con la vocetta tremante di angoscia e di vergogna, mentre gli occhi implorano, non per sè, non per lui, ma per tutto il mondo sconsolato e deserto, non sa dire che questo:) – Io desidererei di morire!

Carlo (sorride) – Aspetta ancora un po’. Si passa...

* * *

Carlo – Come è illogica la vita! E io credevo a un sillogisma...

Margherita – Non si sa nulla...

Carlo – E il vascello fantasma della morte ci offre il fascino del suo oscuro destino. (Una pausa). Andiamo.

Margherita – Dove ci porterà?

Carlo – Chi sa? Andiamo: che la Stella Polare ci guidi.

Margherita – Che Dio ci ajuti!

Carlo – Che hai detto?

Un silenzio di molti giorni caliginosi, di molte notti profonde.

Carlo – Ecco: io non ho più paura della morte.

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