La terza ora

Il conte Gian Francesco Ferdinando de Politis all’età di ventisette anni, cioè dopo sette anni di studi regolari all’università, aveva raggiunto la sospirata laurea, naturalmente in legge; a ventotto anni aveva ereditato da uno zio morto lontano e quasi sconosciuto una ingente sostanza, che lo aveva d’un balzo portato a risolvere, senza troppa fatica, il problema del pane quotidiano; a trent’anni aveva speso metà del suo capitale e in compenso aveva imparato a conoscere la vita e ad annojarsene; a trentadue anni, tagliati gli ultimi ponti che lo univano ai ricchi nobili annojati suoi pari, richiuso in sè stesso, si accorse che stava per essere un uomo felice.

Intendiamoci. Il conte Gian Francesco Ferdinando De Politis non era un uomo intelligente nel vero senso della parola: era un mezzo cervello di nobile decaduto moralmente e rialzato finanziariamente; una magnifica tempra di egoista per il quale tutto l’universo era concentrato nell’immortale sè stesso.

Non aveva ideali; nella sua stirpe illustre la Fede si era spenta da qualche generazione senza provocare nemmeno l’ombra di una reazione negativa. Non credeva, o meglio non si era mai domandato se credesse: reputava inutili e pazzeschi gli sforzi dei filosofi di ogni tempo e di ogni classe e le loro elucubrazioni lo annojavano mortalmente.

Non era animato dal sacro fuoco dell’arte; amava il bello tiepidamente, per una specie di naturale tendenza fisiologica, che lo portava a godere dei piaceri dell’occhio, così come godeva dei piaceri del gusto e dell’olfatto; amava tiepidamente la musica, perchè lo addormentava e lo faceva sognare cose dolci; amava tiepidamente la poesia, o meglio le poesie, specialmente quando erano ricche di rime sonore, perchè quei suoni cadenti e ricadenti gli carezzavano l’orecchio, come il mormorio di una fontana.

Non aveva vizi: Bacco, Tabacco e Venere lo avevano annojato e lo vedevano oramai di rado. Non giocava, vestiva elegantemente perchè era bello, amava la sua fiera bellezza maschia per ammirarsi, parlava bene per ascoltarsi.

Dopo la scomparsa del povero zio, era rimasto solo. Aveva un tormento. Ecco: lo strano in lui era questo, che, pure non avendo idealità, sogni, o vizî, disprezzava come un asceta i piccoli desiderî umani, come un poeta le piccole aspirazioni sociali, come un dissipatore le piccole voglie giovanili. Ne comprendeva la miseria, dunque, pure essendone lo schiavo, perchè si cambiava d’abito tre volte al giorno, andava tutte le sere a teatro, tutte le domeniche alle corse, partecipava a tutte le passeggiate collettive, a tutti i comitati di beneficenza, a tutte le feste con relativa maldicenza, e infine – era questo che più lo irritava – faceva la corte a tutte le ragazze.

Un bel giorno disse: Basta! Troncò i rapporti col mondo gaudente e comprese di essere sulla via della felicità.

Perchè, a volere essere sinceri, una specie di idealità l’aveva, una fisima, un’idea fissa, una ostinazione della quale aveva finito per fare lo scopo della vita e alla quale tutto avrebbe sacrificato: raggiungere la felicità.

È ben vero che suo padre, uomo profondamente infelice, soleva consolarsi dicendo che per ammazzare un uomo bastano tre ore di felicità e, per questo forse, dovette finirla col suicidio; ma Gian Francesco la pensava diversamente, anche nel modo di intendere la felicità. Per questo suo modo tutto personale di vedere la Fata Morgana di tutti gli esploratori della vita aveva tutto l’armamentario occorrente a raggiungerla: un bel nome, un bel titolo, una brutta laurea, molti quattrini... tutto.

Per lui, essere felice voleva dire non desiderare nulla. L’idiota beatitudine di uno spirito semi incosciente e statico, che nulla vuole o desidera perchè nulla oramai può volere o desiderare; questa era, per lui, la felicità. E c’era vicino. Tanto vicino che un passo solo bastava: un brutto passo, ma un solo passo: il matrimonio.

Invero da qualche tempo egli era pervaso da un nuovo, ultimo desiderio umano, sociale o civile che dir si voglia, ma prepotente e imprescindibile: prendere moglie. Non nel senso comune che a questa proposizione sogliono dare i celibi stanchi di correre la cavallina e i giovani ben pensanti in cerca di una posizione; nel caso di Gian Francesco il significato era questo: prendere quella moglie! Grave! Ahimè, il canto del cigno della infelicità umana si alzava in lui, alto e squillante. Un desiderio? No, veramente: mille formidabili desiderî lo attanagliavano, mille dubbi lo tormentavano, mille considerazioni lo assalivano: ma... se... e poi?... Non viveva più.

L’aveva veduta, quella dolce figura da melodramma, diafana e tenue come la cera, una mattina di primavera, mentre egli, dopo il bagno, in maniche di camicia, borghesemente soddisfaceva allo stupido desiderio di godere un poco di quel sole giovanile che entrava, ridendo, per la finestra della sua camera.

Ella abitava dall’altra parte della strada, proprio di fronte lui. Quando lo vide, ella si ritrasse e andò a suonare al pianoforte un notturno di Chopin, ma così rumorosamente che pareva più diurno dell’inno di Garibaldi. Lui capì e si innamorò.

Nelle sue condizioni quello era un cataclisma spirituale. Egli allora avrebbe desiderato di essere amato per sè stesso, come i principi dei romanzi per fanciulli, di sposare quella donna e di spegnere in sè e in lei le ultime faville del tormento umano: il desiderio. Essere amato, amare e non desiderare più nulla. Ecco la felicità. In fatti non desiderava altro.

Un passo soltanto e poi... Bisognava farlo e sùbito. L’ansia della vittoria definitiva gli ardeva nelle vene.

Era amato: glielo dicevano gli occhi della fanciulla diafana e i notturni che ella fracassava sul pianoforte tutte le mattine, dopo il bagno. Questo era certo. Rimaneva a sapere se quella donna lo amasse per l’amore o per qualche altra cosa ma, a convincersene, sarebbe bastato, il giorno della dichiarazione, dirle, spogliandosi d’ogni fascino mondano: «Mi chiamo Calogero Spinetta, sono studente e povero». Egli aveva nel cuore il presentimento che ella gli avrebbe gettato le braccia al collo. E allora? Allora non restava più che sposarla, levarle tutti i capricci, soddisfare tutti i suoi desiderî e, dopo una settimana, un mese, un anno sarebbe stato felice e questa, volta per sempre.

E già vedeva la sua donnina aggirarsi per la casa, angelo di bellezza e di bontà, tranquilla e morbida, sorridente e felice. E poi? Questo tenebroso poi, come è naturale, lo preoccupava moltissimo. Tutto questo avrebbe dunque spento in lui per sempre il tormento del desiderio, o avrebbe suscitato desiderî nuovi? Quali desideri? Oh, non poter leggere nel proprio destino!

Interrogò i mariti e tutti gli risposero ad un modo:

— Per l’amor di Dio! Vada piuttosto a mare con una pietra al collo! Mica per mia moglie, sa, che è la più buona creatura che mi potesse capitare fra i piedi, ma, sa... tutte le preoccupazioni... le responsabilità... Però, senta, le soddisfazioni della famiglia, della casa propria... in fondo... Cosa vuole che le dica? Tenti: dopo tutto...

Interrogò gli scapoli e tutti gli risposero ad un modo:

— Senta, la vita dello scapolo è la più bella vita che si possa immaginare e io la consiglio a tutti. Certo, vede, non avere un cane che ci circondi di cure, un affetto nostro, proprio nostro, e solamente nostro... Cosa vuole che le dica? Si ha un bell’essere scettici, ma quando viene la sera e, con la sera, questa nebbiolina fredda, parola d’onore si invidiano i mariti, che vanno dove li attende una moglie affettuosa e una minestra fumante alla casalinga. E poi, lei è ricco. Ma sì: sposi. Mi inviterà a colazione da lei, qualche volta.

Interrogò le mogli e tutte gli risposero ad un modo:

— Fa bene, fa bene per davvero. Lei oramai è un giovanottone serio e le scapatelle debbono considerarsi finite. Non è vero? Su, dunque, da bravo, si metta tranquillo nella sua bella casetta e con una mogliettina felice; perchè lei saprà farla felice sua moglie. Ah, non avere trovato un marito come lei! Non che il mio... Tutt’altro, poveretto. È tanto buono! Non per questo... Ma oramai è fatta... e sono anch’io da mettere tra i ferravecchi.

Interrogò le vecchie zitelle e tutte gli risposero ad un modo:

— Io, per quanti buoni partiti mi siano capitati, buonissimi proprio, sa?, non ne ho mai voluto sapere. Ognuno, si sa, ha le sue idee. Ma lei è un uomo... È tutta un’altra cosa. Pare che voglia venir fuori il sole, non è vero?

* * *

Lui a lei:

«Signorina, io non so il suo nome e debbo alla cortesia della discreta portinaja, se il desiderio di scriverle ciò che da tanto tempo mi turba lo spirito e il cuore è soddisfatto. Non pensi che questo mio atto è poco elegante e prosegua invece nella lettura delle mie appassionate parole. Sì, signorina, io l’amo come un pazzo. Le offro la mia vita. Non sorrida: aspetti. Bisogna bene che io chiarisca che cosa io le offro. Sono studente in legge: direi che sono laureando, se questa parola altisonante non desse, alla mia condizione, un lustro ingannatore. Sono povero. Ho due virtù rare negli studenti poveri: non scrivo nè in prosa nè in versi e il riso non ha mai abbandonato il mio labbro. Non creda per questo che io sia uno sciocco. Coloro che dicono che il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi, sono evidentemente degli sciocchi, che ridono troppo poco. Ecco: io le offro tutto questo. In compenso le domando amore, amore, amore. I suoi occhi, che mi hanno guardato tante volte profondamente, mi fanno sperare. Mi illudo? Domani mattina io sarò alla finestra. Se non mi sono illuso, mi sorrida e suoni, divinamente come sa, un notturno di Chopin. Le bacio la mano.

«Lo studente del primo piano di fronte: Calogero Spinetta».

La mattina dopo, il cuore di Calogero fu illuminato dal più bel sorriso che bocca verginale abbia mai sbozzato, da Giulietta in poi, e le sue orecchie furono straziate dal più terribile notturno che sia mai stato suonato sotto la luce del sole.

Calogero allora si vestì degnamente per la cerimonia solenne.

Indossò i panni più vecchi che avesse, non si rase la barba non si lavò la faccia, non si profumò le mani, non mise il fiore all’occhiello, si lordò le scarpe, si annodò una cravatta consumata. Si guardò nello specchio e sorrise:

— Se quella donna resiste, ha un bel temperamento.

E si presentò.

La fanciulla era più bella da vicino che da lontano, gentile e pudica, amabile e abbastanza ardente. Aveva inoltre due buone qualità: non sapeva suonare il pianoforte e sua madre era una ottima signora sorda e quasi cieca. Il notturno di Chopin era suonato a manovella. Tolta la manovella, Calogero sentì che la felicità si avvicinava a grandi passi.

La sera del fidanzamento sognò di suo padre che gli disse: – Guardati! Bastano tre ore sole...

Ma voltò fianco e sognò di Marietta che raccoglieva fiori in un giardino variopinto.

* * *

Due mesi dopo Calogero Spinetta, ritornato, fra la soddisfazione universale, il conte Gian Francesco Ferdinando De Politis, nella sua villa sul lago di Como stava uccidendo, con le ultime vampate della passione saziata, gli ultimi guizzi della infelicità dileguante.

Una mattina – il cielo era sereno, l’aria tiepida, il corpo riposato, l’animo tranquillo, Gian Francesco si accorse di non desiderare più nulla. Scese nel salottino, dove lo attendeva la sua mite mogliettina e un buon caffè. Si lasciò dare il bacio, oramai consuetudinario, e si abbandonò di peso sulla poltrona.

Nel silenzio la pendola battè lentamente le otto.

— Marietta, sai che sono felice?

Perchè, dunque, egli non sapeva più che cosa desiderare. Perchè, dunque, aveva raggiunto infine il suo ideale nella vita: una fortuna che càpita a poca gente a questo mondo. Perchè, dunque, la vita è bella e degna di essere vissuta.

Marietta, intenta a ricamare, lo guardò un momento con dolcezza.

Suonarono le nove.

— Marietta, dimmi tu che cosa posso desiderare io? Sono ricco nobile intelligente amato. Ho la soddisfazione di avere trascorso la mia giovinezza nel più assiduo lavoro, rivolto a spingere la mia perfettibilità fino al limite del possibile. Mi sono dunque servito della vita per salire al di sopra della vita, dove si sorride sempre e non si desidera nulla. Ho chiesto alla vita tutto quello che mi poteva dare, ma soltanto quello che mi poteva dare; per questo mi sono servito di tutti i mezzi. La vita è una donna che bisogna sapere conquistare con tutte le civetterie. Ecco, io non desidero più nulla... Dimmi tu... dimmi...

Marietta gli diede un bacio sulla fronte e ricominciò a ricamare.

Gian Francesco tacque, meditando.

Suonarono le dieci.

Meditava. Non guardava più Marietta intenta all’opra dell’ago, non guardava più al lago che diventava più turchino, non guardava più al cielo che si confondeva col lago, non guardava più a niente.

Meditava. Teneva gli occhi fissi nel vuoto, come sbarrati, atoni in un assorbimento tutto orientale della beatitudine. La felicità gli entrava nel sangue, nelle fibre, come un narcotico soavissimo e potente, immergendolo tutto, spirito e corpo, in un rapimento sconosciuto.

Sbadigliò. Perchè? Non aveva sonno: aveva dormito nove ore. Chiuse gli occhi. Il silenzio, che lo circondava e la immensa tranquillità che tutto lo penetrava, infondevano in lui tale benessere, che non avrebbe mosso un dito, per timore di turbarlo. Innanzi agli occhi chiusi, aveva tutto l’azzurro del cielo e tutto l’azzurro del mare e tutte le stelle. Una di esse, più lucente e più viva, brillava bellissima nel mezzo di quel firmamento di sogno. Come era bella! La fissò intensamente e quella ingrandì, si avvicinò, ingrandì ancora, si dilatò assorbendo nella sua luce viva tutte le stelle e tutto l’azzurro del cielo e del mare. Felice... felice...

Gli parve di sentirsi male; sentì d’avere bisogno di distrarsi, per non soffocare.

— Marietta, ricordi il primo incontro in casa tua?

Marietta, col capo chino, sul bianco dei merletti ebbe un sorriso bianchissimo, maliziosetto.

— Sì...

— Chi t’avesse detto che Calogero... eh?

Marietta alzò lo sguardo sul consorte e sorrise uno dei sorrisi più intelligenti della storia femminile dopo l’invenzione del cinematografo.

— Lo sapevo... la portinaja...

Il consorte scattò;

— Come, come, come?

La pendola battè undici rintocchi lenti.

Gian Francesco Ferdinando de Politis, per quella volta, non morì.

Due ore e cinquantanove minuti.

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