Terza Oleografia.

Una cosa molto volgare: il profilo di una città disegnato sullo sfondo di un orizzonte livido, freddo, in una luce che non è d’aurora, che non è di tramonto. Che luce strana! Assomiglia alla luce di un temporale dibattentesi in alto, tra le braccia di un nemico possente che lo tenga prigioniero, inchiodato alle nubi. Tra poco se ne libererà per correre come un pazzo le campagne che lo attendono e già incominciano a tremare foglia a foglia...

Tutte queste cose me le immagino, perchè non si vedono nè campi nè pianure: soltanto si vedono, laggiù, contro la luce sinistra, aguzzi e lucenti come aghi, i binari di una strada ferrata, che subito si perdono, si confondono, disperati di lontananza, nell’ignoto.

Non si vede bene che questo: la macchia rosso cupo di una città che pare addormentata, una distesa di tetti, una selva di comignoli, case, case, case. Un quadro da pittore romantico, che ama di giocare con la folle tavolozza dell’infinito, o da romanziere verista, che ama far pensare, con la tristezza acre della miseria, alla felicità di coloro che, al piano nobile, non bevono mai la malinconica malia degli orizzonti e dell’abbandono.

No, non è proprio una città qualunque; tanto è vero che non potrebbe essere Parigi, perchè almeno un pezzettino di Torre Eiffel si vedrebbe. Io non ho mai veduto un panorama di Parigi senza la torre Eiffel. Nè potrebbe essere Londra: o dove sono le brumose torri di Westminster dalle campane armoniose, che suonano le ore per tutte le case oneste e pacate? Non si vede nè il foro Trajano, nè il campanile pendente, nè il mare dolce con una vela in mezzo, nè la Garisenda daddolona.

Comignoli.

Ogni opera dell’ingegno umano è il trono di un’idea.

Quando non la si comprende significa una di queste due cose: o che l’idea domina uno strato intellettuale, una casta superiore alla nostra; o che il trono è vuoto per la morte del re, che avvenne certo all’atto della incoronazione. Questo secondo caso è il più interessante e il più frequente. E allora, poi che un trono senza re è un controsenso, che si fa? Si cerca un re disoccupato. C’è sempre dentro di noi un re che dorme, un pensiero che attende di nascere. E lo si incorona, se ne vale la pena, su un trono bello e fatto.

Il travaglio della interpretazione delle opere d’arte, non è, in fondo, che una cerimonia di presa di possesso di un pensiero nostro su un trono altrui: una usurpazione sacrilega.

Ma in questo caso non c’è usurpazione: è evidente che non esiste più il pensiero, per cui fu disegnato questo paesaggio volgare di comignoli che fumano, fumano....

Già, fumano ora, vedo: pare proprio che la grevità malata dell’aria, pur così viva all’orizzonte, altro non sia che un’immensa nube dove si confondono in una attesa misteriosa, le spire dei focolari sconosciuti.

Sono come affacciato a un abbaino. Respiro quest’aria greve. Mi sembra di non avere mai respirato altro.

E mi ostino a cercare un pensiero mio da inchiodare qui, come un titolo, come un’etichetta È la mania di tutti gli uomini e non mi vergogno, è la disperazione di tutti i cervelli: definire. E non si definisce niente, meglio di quello che io non fossi definito da mio padre, quando nacqui: Gherardo. Non significa niente. È vero che subito dopo aggiunse: «Poverino!» Ma ci vuole altro! Mi ostino a cercare un pensiero. Al mio posto Lesage inventerebbe un diavolo zoppo, al quale senz’altro affiderebbe il compito di scoperchiare le case. Questo lo so. Ma non so quello che avrei fatto io, al posto di Lesage.

Ma che bisogno c’è del diavolo zoppo? Esce dai comignoli fumanti l’anima dei focolari.

* * *

— Ogni sera un gatto misterioso si avvicina alle mie finestrelle affumicate, annusa per un momento e poi se ne va. Ahimè! Da secoli e secoli il mio padrone, che è un filosofo, manda su fumo di polenta, un fumo senza sale, molto triste.

— Senza sale? Vuol dire che lo mette tutto nella saggezza...

— Non so. Il gatto nero fiuta e se ne va scontento.

— Della polenta?

— Della saggezza.

Parlo con me stesso. Segno evidente che alla fin fine, questo fumo di polenta inconcludente emana da un focolare che è dentro di me.

— Il mio padrone è pazzo, – continua la voce del comignolo infelice – pazzo da legare: incominciò molto tempo fa, dico, secoli, a fare i giuochi sulla tavola mettendo in fila una mezza dozzina di punti interrogativi, proprio come fanno adesso i bambini con i soldatini di stagno. Li contemplò a lungo, molto profondamente, poi ne distrusse due o tre. Sorrise soddisfatto, ma mentre si accingeva a sottoporre alla medesima operazione anche gli altri, si avvide che i primi rinascevano moltiplicati. Dopo, un attimo di stupore, si rimise alla bisogna, deciso a tutto, deciso a sacrificare tempo danaro, salute, felicità, pur di distruggerli tutti, ad uno ad uno. Ma per ognuno che pareva morto, dieci ne rinascevano. Il meraviglioso è questo: un uomo qualunque a un certo punto avrebbe gettato tutto all’aria, stanco alla fine di servire di zimbello a un mago sconosciuto. Niente: il mio padrone più gli interrogativi crescevano e più prendeva gusto al gioco. Li afferrava, li guardava, li mirava da vicino e da lontano, li capovolgeva col puntino in su e la spirale in giù; li disponeva in senso orizzontale... Una volta, due, tre – non ricordo bene – perse la pazienza e con uno scappaccione li buttò tutti sotto la tavola. Per distrarsi si rimise a fare un solitario con le carte francesi, ma non le aveva nemmeno disposte, secondo vuole la regola, per incominciare, che, eccoti i punti interrogativi ancora di sopra, ma questa volta sostenuti da punti esclamativi pungentissimi e seguiti da filze straordinarie di puntini, che erano un tormento per le sue stanche pupille.

Non vuol morire prima d’aver vinto la sua povera battaglia. Un mago malefico ha consentito al patto ed egli non si muove dalla sua stanza fredda e solitaria come una prigione, e non posa un istante, ostinato in tutti i tentativi che la sua bizzarra fantasia o il caso più bizzarro ancora, gli suggeriscono.

Ha tentato con l’acqua, col ferro, col fuoco, col sangue. La danza serpentina degli interrogativi diventa ogni giorno più frenetica. Non vede più, non ode più, non patisce più. Dovunque è il suo nemico, dovunque la ridda ossessionante infuria tra le stelle, se guarda il firmamento, nel volto degli uomini, se un essere umano si avvicina a lui, nel suo cuore istesso, se, preso dall’angoscia, ne ascolta i battiti misteriosi, per piangere. Ha stretto il patto: non vuol morire, prima d’aver vinto la sua battaglia.

E non sa che è il solo modo di vincerla, morire.

* * *

Il mio dilettantismo filosofico parla così. Ma qui non c’è un’idea. C’è una moda, un andazzo, qualche cosa che appartiene ad altri, a tutti.

* * *

— Ogni sera al lume della luna un gatto misterioso s’avvicina a me.

È un comignolo alto e sottile come un pinnacolo e parla con una voce delicata e trasparente di efebo.

— Lo vedi? Eccolo. S’avvicina.

Un gatto nero. Io ho sempre avuto molta paura dei gatti neri, perchè mi hanno sempre portato la disgrazia. Questo no: non mi dà che un senso di profonda tristezza. Sono io, quel gatto. Non mi fa paura. Eppure mi ha portato la più grande disgrazia, la disgrazia fondamentale. Attendo in pace lo scongiuro definitivo di una lapide sepolcrale e sto allegro.

— Ogni sera è qui e annusa. Il mio padrone che è un grande poeta, manda su un fumo saporito.

— Sale altrui. Non si bada a spese.

— Ma il gatto se ne va scontento.

— Del sale?

— Della poesia.

Io parlo con me stesso, in fondo. Segno, evidente che questo fumo emana da un focolare che è dentro di me.

— È un poeta fortunato. Ha solleticato le corde più sensibili della passione sessuale – che è il dramma primitivo, elementare, dell’umanità – e lo ha fatto con tanta dolcezza, che intorno a sè ha suscitato i clamori frenetici delle folle innamorate. Lenone illustre, in ogni verso della sua poesia, in ogni attimo della sua immortalità, presiede alla copula gigantesca e molteplice, ove sfociano lente e continue le due grasse correnti della dolce miseria universale. Tempo verrà che se un uomo e una donna, incontrandosi a caso per la via, si guarderanno negli occhi pronunciando il suo nome, ebbene quell’uomo e quella donna peccheranno insieme.

Egli è felice.

A volte soltanto è preso dal timore di non essere per gli uomini e per le donne che un letto di vizio e di tortura. Allora – ma è un attimo – pensa con accorata viltà a giorni perduti nel roteare dei secoli, quando respirava l’aria ventilata dal volo delle aquile, o quando, con le allodole, dava la scalata al sole mattutino su, per i fili dorati della luce; quando – e chi ricorda come? – sapeva tuffarsi in tutti i mari e in tutti i misteri senza morire di paura.

Ma è un attimo solo. Passato, ecco, passato. Una lacrima sola di nostalgia.

Il vociare iroso, impaziente delle due folle che attendono lo scuote: da ogni parte si implora il suo canto, da ogni parte lo si insulta e a un tempo lo si loda e a un tempo lo si schernisce e lo si esalta e lo si acclama supremo reggitore della bufera infernal che mai non resta.

Ed egli canta l’amore.....

* * *

Se io potessi davvero ridere del filosofo e disdegnare il poeta, sarei probabilmente sulla via di trovare me stesso, un piccolo me stesso, ma mio, un pensierino così... La mia tragedia invece è questa: che mi sono messo una maschera in faccia e mi guardo soltanto nello specchio. Per una volta tanto, che mi guardo senza specchio, ad occhi chiusi, mi avvedo che rido del filosofo fino a un certo punto e disdegno il poeta fino a un certo punto.

In me fermentano, sepolte da una equivoca immobile nebulosità, i sedimenti deposti nell’alveo insondabile della incoscienza, dal fluire di tutto il passato. Un’idea mia, o meglio – siamo franchi – un’idea nostra non c’è. Tutte le volte che ci agitiamo, non facciamo che sommuovere i fondi limacciosi, i putrescenti residui del tempo, nell’anima che stagna.

Faremmo meglio a star fermi, aspettando che passi la corrente nuova.

Fumano i comignoli: la casa dell’amore. Il gatto nero fiuta il tradimento o là fedeltà etica.

La casa del dolore. Il gatto nero fiuta la rassegnazione dell’egoismo o la menzogna civile.

La casa della bellezza. Il gatto nero fiuta il mercimonio.

La casa della virtù. Il gatto nero fiuta l’abitudine o l’insufficenza.

La casa della carità. Il gatto nero non fiuta nulla perchè il focolare è spento.

* * *

Io cercavo un re per questo trono deserto: ho squillato la petulante fanfara della mia ostinazione e della mia presunzione. Non è venuto fuori nessuno. In queste case non ci sono re che dormano: ci sono re che muojono, a poco a poco.

Quanta malinconia nelle case della mia città!

Lontano, sui binari della strada ferrata, disperati di lontananza, come ho detto prima, passa un vapore. Ho veduto per un attimo uscire dal camino della macchina i buffi incandescenti della forza divoratrice. Ecco, più nulla.

È passata un’idea, senza fermarsi.

Penso ai crateri furibondi dei vulcani, ma non oso protendere l’orecchio per ascoltare la loro voce eroica. Sono lontani nel tempo e nello spazio. Penso all’uomo che primo li vide e, superata la meraviglia, armato di clava, con un salto improvviso s’immerse nel rosso mistero. E poi fu subito al vento, in fuga, pei fianchi della montagna, mentre la clava, roteante, ardeva, della prima fiamma umana.

E gli uomini ebbero il fuoco.

Ebbero anche un tormento di più.

Questa idea mi consola di non aver saputo discendere, nemmeno con un cerino in mano, entro la bocca fumigante della vaporiera, divoratrice di spazio e di fuoco, nell’attimo del suo passaggio. Mi consolo perchè ho la coscienza tranquilla e se ho un cerino, lo frego per accendere la pipa.

Per altro chiamerò il più grande pittore che io conosca e gli farò dipingere, sul panorama della città Mediocre, che mi sta d’innanzi, una solida imposta e un catenaccio.

— Chiama dentro il gatto e chiudi l’abbaino.

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