Seconda Oleografia.

Sembra una prigione. La porticina in fondo è chiusa da un catenaccio enorme che, quando è mosso, deve ruggire e guaiolare come un mastino legato. Una finestretta in alto lascia passare un raggio di luce.

Può essere di sole vecchio o di piena.

Come si vuole.

Non c’è anima viva, nella cella squallida. Non si scorge nulla, nella cella buia. Si direbbe anzi che le tenebre spesse la vincano sul raggio, che le taglia invano. Ma poi ci si abitua. Qualche lieve contorno emerge, a fatica, sulla tinta opaca del cartone. Si vede un tavolino, una specie di desco tutto ingombro di ferri, di lenti, di scatolette, di piccole tenaglie, di indecifrabili dischetti bianchi.

Si vede, ecco, si vede benissimo, più a destra, più vicino a me, una pendola enorme dai pesi smisurati; una di quelle pendole patriarcali, solennemente incolonnate in austere nicchie da tempio. Un quadrante inverosimile. Fa le cinque, immoto. Più nulla? Sembra che il sole – o la luna – si faccia più vivo. O sono io che ci vedo meglio. Balzano quasi all’improvviso dalla oscurità mille occhi bianchi di ogni misura, per ogni dove, a destra, a sinistra, abbandonati agli angoli remoti della bottega, appesi alle pareti, in mezzo ai viscidi riflessi del salnitro, sparsi anche al suolo in frammenti minuti che hanno conservato qualche cosa del tutto, come la tenacia di una fede, l’ostinazione di una passione, la pervicacia di un dispetto – uno, cinque, dodici – dovunque quadranti, sfere, lancette, molle spirali in tormento, ruote dentate, ansiose di vivere per mordere, piccole conche d’oro, d’argento, di bronzo, bestialmente spalancate a ricevere la fecondità d’una vita metallica.

Quanti orologi! E tutti senz’anima, anche quelli che appaiono perfetti e che l’ignoto padrone ha ordinato amorevolmente nei ripostigli più degni.

Quanti orologi! Quante ore immobili! Quanta attesa di tempo da misurare e da patire! Quanta disperazione di vanità nel pensiero d’un cammino percorso senza meta, sotto le sferzate di una crudeltà sconosciuta!

Ma chi mi ha cacciato qui dentro? Dove è il padrone? Io voglio vedere il padrone per dirgli che mi apra, che mi lasci andare fuori, all’aperto!

Tutto è immobile.

Perchè io sono immobile. Perchè io sono posseduto dall’angoscia improvvisa di questa meditazione. Basterà che io possieda il mio piccolo mondo, la mia piccola prigione, senza averne paura; basterà che io mi muova, che io prema un bottone qualunque del mio cervello, perchè una molla spirale si animi dentro di me e tutti gli orologi riprendano il loro viaggio doloroso, sotto il sole o sotto la luna, per le steppe solitarie del tempo. E vivano!

Ecco: è fatto! È uno scoppio immane; un cupo galoppo d’armenti affamati batte l’aridità della tenebra.

No, no, fermatevi, fermatevi! Mi fate troppo male! Come se calpestaste il mio cuore! Fermatevi!

Non si può, non si può! Si corre. Oramai, bisogna.

E incomincia una tormentosa vicenda. In questo momento mi sembra di essere innanzi a tutti, a tagliare col viso affilato, proteso, marmoreo, il vento gelato del destino, mentre dentro di me un cuore di metallo in battiti uguali misura l’angoscia con la cieca ostinazione dell’istinto.

Ora non più. Ora sono trascinato per le braccia, a forza. Il galoppo dell’armento disperato è innanzi a me, inesorabile. Mi lascio trascinare come se non avessi più anima, nè giovinezza, mentre il mio viso, ad ogni istante, è schiaffeggiato dal turbinare dei minuti, che si frantumano sotto il galoppo e inerti cadono sulle orme oltrepassate per sempre. Ho in cuore una pena spirale, che vuole risolversi in uno schianto.

Ma chi mi ha messo qui dentro. Dov’è il padrone di questa bottega maledetta?

Eppure io stesso mi sono detto: si preme un qualunque bottone, nel cervello, e tutto si muoverà.

Ticchetaccheticchetoc.

Il mio cuore sembra, nel concerto, un contrabbasso d’accompagnamento. Bisogna uscire di qui. Io capisco che non mi sarà data la grazia della libertà, se non mi solleverò anche sopra il tormento di questa corsa turbinosa, con uno sforzo di dominio.

Corrono ancora. Mi gettano ancora sul viso i frammenti morti dell’eternità. Corrono sempre. Fino a quando?

* * *

— Ladro!

Chi è che insulta?

— Ladro!

La voce è di vecchio, ma trema di sdegno. È la pendola dai pesi enormi, che pure ha un passo tanto rassegnato.

— Ladro! Dico a te, nuovissimo! Sono le dieci e due minuti. Perchè segni le dieci? Di questo passo alla fine dell’autunno, tu sarai ancora in primavera... È un inganno! Spicciati... E smettila di tabaccare quella porcheria.

Una voce velata, ma irosa, ribatte:

— Io me ne frego di te e del padrone! Vado a comodo mio, a dispetto tuo e di tutti. Quanto al tabaccare, ti illudi che io ne possa fare a meno. È più facile che mi stronchi da me stesso il bilanciere....

— Sei disonesto! Tu dimentichi il tuo dovere, quello di indicare al tuo padrone l’ora giusta.

— Il mio padrone? Come sei ingenuo! Il mio padrone mi ama semplicemente perchè sono un regaluccio d’amore. Quanto all’ora se ne infischia! Sta dei giorni interi senza degnarsi nemmeno di guardarmi.

— Il tuo dovere è il tuo dovere. L’ora è per l’uomo una sublime regolatrice dell’opera.

— Sì, per fare a tempo le porcherie! E poi lo sai perchè mi sono dato alla cocaina? Per una delusione giovanile. Tu sai che non sono vecchio: ho appena due anni e poichè sono stato garantito per tre, non ho nemmeno raggiunto la maggiore età. Ciò non ostante ho avuto una delusione così forte, che la vita mi è venuta in dispetto: una volta – ero al ventisettesimo minuto di un’ora quinta – il mio padrone mi guarda, con un occhio così languido da fare mancare di lusinga una anima più malleabile della mia. Io credo che sia ammirazione, affetto, che so? Non ero nemmeno arrivato alla mezza e stavo appena preparandomi a muovere il congegno delle campane, per squillargli il più armonioso saluto di riconoscenza, quando con una smorfia stomachevole mi dice: «Tuam gnosco, meam nescio» e mi ributta nel taschino del panciotto, vicino all’ombelico. Pezzo d’asino! La mia la conosce e la sua no!? Sfido io! Che cosa pretende, che un rémontoir gli predica la caduta dei denti? Io mi sono immediatamente fermato e se non c’era mastro Crono, ti assicuro che d’ora innanzi il mio signor padrone non conosceva nemmeno la mia. Ma io mi vendico e faccio il comodo mio.

— Ti ripeto che sei un immorale. Intanto, per una piccolezza non si pregiudica un nome onorato, non si macchia una coscienza, una ditta!

— O piantala! Io poi non sento questo dovere di camminare con tanta regolarità! Voi che ti dica? Io potrei fermarmi in questo momento. Ebbene, se mi fermassi, non farei che aspettarti: fra un poco tu saresti ancora accanto a me e si potrebbe ricominciare a camminare insieme.

— E con questa bella trovata, cosa dimostri?

— Dimostro, che facciamo un giro-girotondo assolutamente inutile, per cui l’umanità mi fa l’effetto di quel tale che, correndo intorno ad un albero, voleva raggiungersi e darsi un calcio di dietro.

La pendola evidentemente non era abituata a certe sottigliezze. Scrollò un poco i pesi e seguitò impassibile a compiere il suo dovere. Pareva che segnasse il passo al ticchettare frenetico dell’invisibile moltitudine.

Per me invece, confesso che il ragionare piacevole di quello zoppicante cocainomane aveva una sottile seduzione, come hanno in genere tutte le cose che, senza appagare le nostre esigenze spirituali, placano la sensualità della nostra macchina, cioè il senso estetico, che è l’organo genitale della ragione.

«Ha ragione, pensavo tra me, ma intanto si corre. E se si deve correre, è meglio lasciarsi trascinare così per le braccia...»

— Una favola, nonna, una favola! – strillò un orologio d’oro per signora. – Io non posso sopportare queste discussioni. Non ci capisco niente. Io non capisco che i bei racconti d’amore, che ci fanno venire la voglia di rifare meglio quello che si è già fatto. E poi – aggiunse con una grazietta melodiosa, come sogliono fare le donne, quando dicono una bugia alla quale vorrebbero credere – e poi, non è vero?, Le storie d’amore ci danno l’illusione di vivere cento vite, di amare cento volte.....

— Cento uomini – bofonchiò un misogino.

— No – protestò la signora con una punta di dispetto nella grazietta – No, un uomo solo, che ci ami cento volte, in cento modi diversi.

— Il re di cuori!

— Basta, basta! – interruppe la pendola – Se mi promettete di non rubare nemmeno un secondo, io ve la racconterò una bella storia d’amore.

— Rubare? – intervenne una voce impubere sistema Roskopf – Rubare? Ma per chi ci prendi? Io non sono esatto, non lo sono mai stato e non lo sarò mai. Ma vado avanti. Vedi? Per me tra poco è mezzanotte. Io sono innanzi a tutti, lo sai perchè nonna? Perchè ho fatto un piccolo ragionamento. Che si debba correre, è fatale. Io non so perchè oggi corriamo, per volontà di chi, ma corriamo, come ieri, come domani. Corriamo senza sapere chi ha premuto il bottone della nostra fatalità. Dunque: uno scopo ci deve essere. Quell’ubbriaco dice che giriamo intorno a un asse inutilmente. Non è vero: noi non sappiamo perchè giriamo, come dunque possiamo sapere dove andiamo? Io sento che ci attende un cataclisma conclusivo. Non è meglio affrettarlo? Io intanto faccio mezzanotte. Viva la corsa! Se mi spezzerò non fa niente. I miei morsi al futuro nessuno li cancella.

Ha ragione lui! Bisogna correre. Sono innanzi a tutti sotto la pioggia lancinante dei minuti secondi, con gli occhi dilatati dalla tenebra e le mani adunche protese a lacerare.

La pendola si limitò a mormorare: «Questi ragazzi!»

Capiva di non capire e per non avventurarsi a compromessi morali, si attenne al buon costume consacrato dalla tradizione.

— Io ho sempre fatto l’ora giusta. Ai miei tempi....

— Sì, sì, racconta, raccontaci una favola....

* * *

I vecchi non negano mai a sè stessi la gioia di raccontare. Gli orologi andarono per un attimo in punta di piedi, in attesa e la pendola amabile dopo avere battuto più forte, come per un richiamo alla coscienza, il suo passo grave, incominciò, scandendo le sillabe, una lunga cantilena...

— C’era una volta, c’era, un vecchio sapiente. Di giorno e di notte, lontano dal mondo, nel grande e profondo silenzio del monte, lavora, lavora, il vecchio, lavora a un’opera dura, che gli rode la vita – è vecchio, è vecchio – a una grave fatica, senz’ora di pace – è triste, è triste – senz’ora di posa. Che cosa fà il vecchio? Che cosa?....

— Io. sono già stanca di questa roba, mormorò il viveur – Poesia ascetica, mitologia sentimentale: è ora di finirla. Vuoi tabaccare una presa, mia bella amica?

— Taci, stupido! Perdiamo il più bello. Non senti?

La vocetta della signora era ghiribizzosa, ma gentile.

— Ci siamo, col sentimento!

— Hai ragione – mormorò il misogino – adesso questa quì, approfitta dell’estasi, per rimanere indietro!... Ah le femmine!

La voce della pendola scandiva:

— Il tempo, a quel tempo, non era segnato se non dalle stelle e dal sole. Il vecchio, che vuole? Cadon le nevi, fioriscon le viole, il vecchio sapiente sta solo, all’opera dura, all’opera triste. Che vuole? Che vuole?

— Uffah! Guarda un pò’ come la prende lunga per dire che quello svizzero dell’antichità pensava di fare un orologio! Amica, lo senti?

— No, taci! Mi piacciono tanto le canzonette napoletane!

— Aveva il vecchio due figlie: una figlia era bella, una figlia era brutta. Un dì le chiamò e disse così: Ho lavorato cent’anni, cento anni di pazienza, cent’anni d’astinenza, cent’anni di silenzio. Ed ho costruito un gioiello, fra tutti il più bello: Guardate!

Il misogino mormorò:

— Ci siamo! Quando un uomo ha fatto qualche cosa di buono, lo mostra subito a una donna, che si incarica di trasformarlo in veleno!

— Taci, tu! Dici male di noi, perchè non ti abbiamo mai voluto tra i piedi.

— Hai ragione, amica mia, ma non trovi anche tu che sarebbe meglio che intanto facessimo all’amore?

— Lasciami stare!

— Ma è la solita storia: adesso quel disgraziato non sa se dare quell’orologio alla figlia bella o alla figlia brutta!...

— Io dico che lo darà alla bella! Noi belle siamo sempre le preferite!

— Dammi un bacio!

— No.... Non usare violenza.... Villano!

— Il vecchio poi disse cosi! Ho chiuso il mio tempo qui dentro. È patto che ho stretto col dio della luce e fin che l’ordigno prezioso avrà vita, anch’io avrò vita. Chi di voi, creature amorose, vorrà custodire la vita del padre. Chi di voi? Chi di voi?

— Ti dico di non usare la violenza.... – Silenzio, silenzio!....

— E poi disse guardandole fiso negli occhi; «Chi di voi è più pura, chi di voi creature può guardarmi negli occhi così?» Allora la bella si mise a ginocchi e pianse così: «Mio padre, dolcissimo padre, l’amore... l’amore... l’amore...»

— Hai capito amica mia dolcissima? L’amore.... l’amore, anche a quei tempi.... E poi danno la colpa agli stupefacenti!

— Sta’ fermo! Se ti dessi un bacio, perderemmo la testa tutti e due...

— Che bello spettacolo!

— La brutta divenne severa custode dell’ordigno perenne. E si chiamò Speranza....

— Ho capito.... ho capito. Un giorno lo ruppe, il padre crepò. Questa storia la so!

Ma i vecchi raccontano a sè stessi e il triste destino di Speranza ebbe anche una volta dalla rapsodia ritmica una solenne commemorazione.

— Le donne! Le donne! Quella virtuosissima Speranza, scommetto, si è lasciata ingannare da un uomo senza scrupoli, curioso del segreto e bramoso del tesoro. Che razza iniqua le donne!

La signora non protestò. Il viveur taceva. Silenzio.

— Speranza impazzita vagò per la valle, ascese le rocce scoscese del monte e giunse alla fonte del fiume. E qui si fermò. Uscìa dalla terra un filo d’acqua azzurra, lento, silente. Una rosea conca marmorea, simile al cavo di una mano verginale, raccoglieva, un istante, il tremante opale dell’acqua, ma poca, ma poca, chè subito colma, lasciava cadere in istille ad una, ad una, più una, più una. Tic-tac-tic-tac. Fino a quando? Fino a quando? Speranza non senti il pianto del padre che muore? Una, più una, più una. Fino a quando? Fino a quando? Speranza impazzita protese le mani all’eterna sorgiva: la rosea conca marmorea divenne una sola, col cavo delle sue piccole mani appassionate. Bisogna fermare il lento defluire della vena stillante. Bisogna non sentire più l’eterna misura di un tempo che passa, che passa, che passa, la pena del cuore, l’irreparabile!

Invano, invano, Speranza raccoglie nel cavo delle sue mani che si fanno di marmo la vena opalina. Invano, Tic-tac-tic-tac. Le stille ricadono, cadono a mille, più mille, più una, più mille. Fino a quando? Chi lo sa? Chi lo sa? Speranza è ancora la sù, tutta folle, le mani di marmo nel marmo, alla fonte del tempo che stilla. Ho finito. Tic-tac-tic-tac.

Un attimo di silenzio.

Mi pare silenzio perchè sono saturo del frastuono di questo galoppo instancabile. Fino a quando? Chi sa?

— Ohè colombi! È finita – dice il misogino acre.

Un colpo di tosse.

— È finita? Te lo dicevo io, cattivo, che non avremmo sentito la fine? Però, come è commovente....

Il viveur, quando potè, disse qualche cosa anche lui....

— Sì, molto commovente.

* * *

Ma chi mi ha gettato quì dentro? Padrone! Padrone! Apritemi, sono stanco, sono spossato, mi voglio riposare! E fin che sono quì dentro non posso. Sì, la colpa è mia, è mia. Non avrei dovuto pensare... Non avrei dovuto muovere nulla, ma ormai, come faccio, come faccio che sono tanto stanco? E chi ferma queste macchine infernali, che vanno senza posa?

Finalmente: il Padrone. Non lo vedo in volto. Mi volta le spalle nell’ombra. Non importa. Forse mi ha sentito. Certo ha avuto compassione di me. Grazie, grazie.

Fa un cenno.

Uno schianto che mi spezza il cervello.

Che è? Le macchine infrante cadono a terra, esauste. Mi pare di precipitare in un abisso di silenzio e se non vedessi ancora quel raggio di sole che taglia la tenebra, penserei alla morte. Dal cumulo di rottami all’improvviso salgono a volo miriadi di molle spirali: s’avvitano in sè stesse, nell’aria con una velocità vorticosa e salgono lentamente stridendo ronzando, gemendo; nella zona del raggio di sole, s’arroventano in mille colori e così, come aureole incandescenti e vibranti, salgono, salgono, a risolversi, forse, nel cielo.

Sono solo, ancora. Protendo le mani per aggrapparmi alla luce...

* * *

Sempre così le storie degli uomini: finiscono in un goffo tentativo di scalata all’infinito su per un raggio di sole.

E poi dicono che non c’è più Religione.....

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