CAPITOLO I.

Del Governo di D. Gaspare de Haro Marchese del Carpio: sue virtù: sua morte, e leggi che ci lasciò.

Prese ch'ebbe il Marchese nel mese di gennajo di quest'anno 1683 le redini del governo, per la sua probità e prudenza, e per la conoscenza, che avea acquistata delle cose del Regno in tempo della sua Ambasceria di Roma, si avvide tosto, che la dissolutezza, ed i disordini procedevano non già, che il Regno avesse bisogno di provvide, e salutari leggi, perchè potesse governarsi con rettitudine; nè che fin allora non fossero stati da' suoi predecessori conosciuti i mali, e che non avessero proccurato di darvi rimedio: conobbe che le loro ordinazioni non potevano essere più savie e prudenti, e s'avvide che i più saggi facitor delle leggi, dopo i Romani, fossero gli Spagnuoli. Ma nell'istesso tempo considerava, che la troppa facilità praticata in dispensarle, e la molta indulgenza usata nell'esecuzione delle pene prescritte, avea corrotta la disciplina, e posto in disordine lo Stato. Vide aver sì bene i suoi predecessori posto ogni studio per darvi rimedio; ma nell'elezione de' mezzi essere stati, o ingannati o trascurati. Per ciò avendosi fisso nel pensiere di regolar la sua condotta con una costante e ferma deliberazione di seguitar rigorosamente le norme d'una incorrotta, ed inflessibile giustizia, cominciò a far valere (perchè non rimanessero inutili) le leggi, e le ordinazioni già stabilite; e perchè si conoscesse la premura, ch'egli avea, acciocchè con effetto fossero osservate, aggiunse egli nuove, e più rigorose pene.

Conobbe nel principio del suo governo la frequenza de' delitti, così nella città, come nel Regno, principalmente derivare dell'asportazione dell'armi da fuoco, e da tante altre sorte d'armi offensive inventate, delle quali, come per usanza, ciascuno era fornito e cinto. Vi erano molte leggi, che severamente ne proibivano l'asportazione; ma la facilità che s'usava in concederne licenza, non pur dal Vicerè, ma da altri magistrati, li quali s'arrogavano tal potestà e l'indulgenza usata nell'esecuzione delle pene, rendevan inutili le proibizioni. A questo fine in febbrajo di quest'anno ne' principj del suo governo, promulgò severa Prammatica, per la quale, oltre di rinovar l'antiche, tolse a tutti la facoltà di dar licenza per la loro asportazione, e stabilì severe pene agli trasgressori, le quali erano irremissibilmente fatte eseguire. Conoscendo parimente, che non meno dall'asportazione delle armi, che dalla moltitudine e copia delle persone oziose, vagabonde e disutili, delle quali eran ripiene Napoli e l'altre città e terre del Regno, procedevano i tanti furti, omicidj, assassinamenti, ed altri delitti; la sua vigilanza fu, non solo di rinovar le antiche e nuove leggi ordinanti, che tutti sgombrassero del Regno, ma aggiungendo nuovi rigori, faceva eseguir la Legge, imponendone a' magistrati con molta premura l'adempimento e l'esecuzione. Tal che in breve tempo si videro nella città e nel Regno tolte due principalissime cagioni di tanti delitti e disordini.

Vide la frode e l'inganno aver preso gran piede in tutte le arti, ed in quelle particolarmente dove era molto più dannosa e pregiudiziale, cioè negli Orafi, ed Argentieri, e ne' Tessitori di drappo d'oro e di seta. Pose perciò egli tutta la sua vigilanza in estirparla; ed a tal fine fece pubblicare più ordinanze, prescritte dal Re Carlo II per toglier le loro frodi, le quali volle che inviolabilmente s'osservassero, e tassò egli li prezzi de' drappi di seta; e contro gli Orafi, ed Argentieri diede egli varj provvedimenti per ovviare alle loro frodi, ed inganni. Scorgendo, che non meno la città, che il Regno languivano nelle miserie, per li perniziosi abusi introdotti nella ricchezza delle vesti, nel numero de' servidori, e negli altri lussi, con severa legge proibì l'eccessivo numero dei servidori, le vesti ricamate, e i drappi d'oro e d'argento: vietando parimente, che questo metallo non si consumasse nelle sedie da mano, nelle carrozze, nei calessi, insino nelle selle di cavalli.

Attese non meno alla riforma de' nostri Tribunali, e con somma vigilanza proccurò estirparne gli abusi, e le corruttele. Avendo il visitator Carati dopo la visita de' nostri Tribunali, fatta una piena rappresentazione al Re de' molti abusi introdotti in quelli, e particolarmente nel Consiglio di S. Chiara, de' quali ne fece un lungo catalogo: il Re dandovi sopra ciascheduno dovuta provvidenza con sua regal carta spedita in Madrid a' 18 di settembre del 1684, incaricò al Marchese, che ponesse ogni studio in fargli abolire; ond'egli a' 19 d'aprile del seguente anno 1685, ne comandò una precisa esecuzione e nell'istesso tempo tolse anche i molti abusi introdotti nella Corte della Bagliva di Napoli, prescrivendole molti regolamenti per sua miglior riforma.

Ma ciò, che presso di noi rese degno d'immortal gloria questo savio Ministro, fu d'aver data la total quiete al Regno per due azioni veramente illustri, di aver abolita la vecchia, e formata la nuova Moneta; e d'aver affatto sterminati gli sbanditi dalle nostre province. Dalli precedenti libri si è veduto quanto in ciò si fossero travagliati in vano i suoi predecessori, perchè non seppero mai trovar i mezzi più proprj ed efficaci per ridurre a glorioso fine imprese sì dure e malagevoli. Considerando egli perciò la loro arduità, ed all'incontro quanto non men a se gloria, che allo Stato indicibile bene e tranquillità sarebbe per apportare, dirizzò tutti i suoi talenti a trovar mezzi convenevoli per ridurle a fine.

Formò pertanto una nuova Giunta di prudenti, e ben esperti Ministri, dove doveano esaminarsi con la maggior vigilanza, ed accorgimento tutti i più proporzionati mezzi per la fabbrica d'una nuova Moneta, che fosse di bontà e di peso, e che restituisse il giusto prezzo alle merci, il sollievo a' Cittadini, ed a' Negozianti forastieri l'antica opinione e stima della moneta del Regno. Non faceva mestieri pensare all'abolizione dell'antica, se non si cominciasse a pensar sopra gli espedienti per la fabbrica della nuova; ma perchè ciò era un affare di somma importanza, e che per maturamente risolversi richiedeva tempo e molto scrutinio: perciò, affinchè in tanto che si pensava al rimedio, il male non s'avanzasse, con rigorosi editti pubblicati a' 29 di maggio 1683, primo anno del suo governo, rinovò l'antiche Prammatiche contro coloro, che introducevano nel Regno monete false, contro gli orafi, argentieri, ed altre persone, che ardissero di fondere qualsisia sorta di moneta, aggiungendo alle già stabilite pene, altre più gravi, e severe. Da poi, considerandosi, che per supplire al danno, che per necessità dovea cagionare l'abolizione della vecchia, e la formazione della nuova moneta fosse altrettanto indispensabile doversi pensare donde tal danno dovesse supplirsi; dopo varj scrutinj e rigorosi esaminamenti fatti in più sessioni avute nella giunta, riflettendosi, che per ottener la tranquillità d'un sì florido Regno, fosse perdita molto leggiera di venire all'imposizione di qualche peso, o picciolo gravame a' sudditi: fu pertanto risoluto, che s'imponessero in perpetuo grana quindici per ogni tomolo di sale più del prezzo, che a que' tempi si vendeva, da pagarsi da tutti e qualsivoglia persone, senz'eccezione alcuna ed anche un'annata di tutte le rendite, tanto de' forastieri, quanto de' Napoletani e regnicoli abitanti fuori del Regno con casa e famiglia, senz'eccezione di persona, di stato, o grado, da esigersi però in tre anni. Tutte le Piazze così Nobili, come quella del Popolo, concorsero di buon animo a questa deliberazione, e dal Regio Collateral Consiglio nel mese di luglio ne fu interposto solenne e pubblico decreto. Ciò che dal Tribunal della Regia Camera fu tosto mandato in esecuzione con ispedire per la città e province del Regno gli opportuni ordini per la distribuzione e riscuotimento.

Fu da poi immantinente posta mano alla fabbrica della nuova moneta, e fur prescritti dal Vicerè molti regolamenti intorno alle fonderie, agli artefici, agli affinatori, a' tiratori d'oro, a' mercanti, agli orefici, argentieri e bancherotti; e dati vari provvedimenti, perchè le frodi e gl'inganni, in opera che per se richiedeva tutta la buona fede, non vi avesser parte alcuna. Furono dal 1683 insino all'ultimo anno del suo governo, fabbricate quattro sorte di monete nuove di argento, tutte d'una stessa bontà intrinseca. La I chiamata ducatone, (alla quale si era dato valore di grana cento) avea da una parte impressa l'effigie del Re, e dall'altra uno scettro coronato e due globi col motto: Unus non sufficit. La II detta mezzo ducatone, il cui valore era di grana cinquanta, avea pure da una parte l'effigie del Re, e dall'altra la figura della Vittoria sopra un globo, tenendo in una mano lo scudo con le arme regali d'Aragona e di Sicilia, e nell'altra una palma. La III il cui valore era di grana venti, da una parte avea lo scudo dell'armi regali, e dalla altra un globo, in cui è descritto il sito geografico del Regno di Napoli, ornato da due cornocopj indicanti la giustizia e l'abbondanza. La IV il cui valore ascrittole era di grana diece, da una parte ha l'effigie del Re, e dall'altra un lione sedente col motto: majestate securus.

(Queste quattro monete nella maniera qui descritta furono impresse dal Vergara tra le monete del Regno di Napoli Tav 54.)

Ma mentre si proseguiva questa grand'opera, scorgendosi che per essersi data a questa nuova moneta tal valore, sebbene soddisfacesse al desiderio del Vicerè, che proccurava, che la moneta di questo Regno per bontà intrinseca, non meno riuscisse di sollievo a' Cittadini, con tutto ciò non s'arrivava a supplire al danno, che dovea cagionare l'abolizione dell'antica e formazione della nuova, e di più essendosi considerato ancora, che per essere alterato il prezzo dell'argento, da poi che s'era cominciata la fabbrica della nuova moneta, ne sarebbe succeduto, che poteva venir quella in breve tempo distrutta o con liquefarsi, o con mandarsi fuori del Regno per contenere maggior valore intrinseco di quello, che se l'era dato; si pensò perciò di alterarla di un grano sopra ogni diece, più di quello erasi stabilito.

Si proponevano difficoltà dalle Piazze intorno a tal alterazione, riputandola dannosa e pregiudiziale al Regno: tal che ne fu differita per allora la pubblicazione. E mentre si stava, nell'anno 1687, dibattendo sopra questo affare, ecco che s'inferma il Vicerè, ed in novembre da importuna morte è a noi tolto. Morì al piacere del suo immortal nome, e senza che avesse potuto godere de' frutti di questa sua gloriosa impresa, lasciò al suo successore questo vanto. Il Conte di S. Stefano, che gli successe, per non trascurare sì opportuna occasione, che ne' principi del suo governo potea recargli gran fama, avidamente la ricevè; e senza altro maggior dibattimento, non curando le difficoltà proposte dalle Piazze, approvò la premeditata alterazione dello monete già coniate, e prestamente, nel 1688, ne fabbricò tre altre spezie, con dare all'una il nome di tarì, che avea da una parte l'effigie del Re e dall'altra le sue semplici arme regali, col valore di grana venti: all'altra di carlino, che avea pure la medesima impronta, con aggiungervi solo alle Regali arme l'insegna del Tosone, col valore di grana diece; ed all'ultima di grana otto, coll'istessa effigie del Re da una parte, e dall'altra la Croce quadra con raggi a quatro angoli; ed a' 11 dicembre del medesimo anno 1688, per mezzo d'una sua Prammatica, ordinò la pubblicazione della nuova e l'abolizione della vecchia ed il di lor scambiamento, e diede intorno a ciò varj regolamenti, non meno per la città, che per le province del Regno, siccome diremo, quando del suo governo ci accaderà di ragionare.

Ma se il Marchese del Carpio non potè aver il piacere di veder compita quest'opera, l'ebbe pur troppo nell'altra gloriosa intrapresa del totale esterminio de' banditi. Egli, fra tanti che a ciò si accinsero, vide co' suoi propri occhi purgato il Regno di tali masnade e restituito nell'antica tranquillità. Per estirparli affatto, dopo aver nel primo anno del suo governo conceduto un pieno indulto a tutti gl'inquisiti e fuorgiudicati, purchè attendessero alla persecuzione tanto de' loro Capi e comitive, quanto dell'altre squadre che scorrevano la campagna, si pose con ogni studio a disporre i mezzi per lo total loro esterminio; gli spedì contro milizie, ordinò l'abbattimento di tutte le torri, o case dove solevan annidarsi: ed ove trovò resistenza, vi fece condurre l'artiglierie e batterli con ostinato e risoluto animo di distruggerli affatto: pose grosse taglie per premio di coloro, che non potendo vivi, gli portassero le loro teste, e con questi risoluti ed efficaci mezzi purgò molte province del Regno di tal peste. Rimanevano però le due province d'Apruzzo assai contaminate, nelle quali questi ribaldi, disprezzando non meno gl'inviti fattigli di perdono, purchè si riducessero ad emendarsi, che li rigori praticati con li contumaci; più pertinaci, che mai, non tralasciavano le rapine, gl'incendj, i ricatti, i saccheggiamenti, ed altre enormi scelleratezze. Applicò egli pertanto i suoi pensieri per estirparli ancora da queste province, affinchè tutto il Regno si riducesse in riposo e tranquillità. A questo fine pubblicò a' 12 giugno dell'anno 1684 una severa Prammatica contenente più capi, nelli quali non meno a' presidi, che a' sindici delle comunità di ciascheduna città o terra rigorosamente s'incaricava di scoprirli, perseguitarli, e minacciò severe pene contro coloro, che vivi li nascondessero, ed anche morti li seppellissero.

Ma quello, che più d'ogni altro produsse il total loro esterminio, fu l'avere questo savio Ministro con rigorosi ed efficaci mezzi, proccurato d'avvilire e recar terrore a' loro protettori, ricettatori e corrispondenti. La maggior parte erano sostenuti da diversi Baroni, ed altre persone potenti, li quali proccuravan ricetto e vitto, e per mezzo o di lettere o ambasciate, avvisavanli degli aguati e insidie, che gli eran tese. Per ciò fulminò contro costoro severa legge, per la quale, oltre di rinovar l'antiche pene, aggiunse dell'altre più terribili, nelle quali volle, che si comprendessero tutti coloro, che tenessero con banditi qualsisia corrispondenza, egli assistessero con ajuto e favore o con vittovaglie, o loro scrivessero avvisi o raccomandazioni, ancorchè stassero fuori del Regno, e sotto il dominio d'altro Principe. Anzi, concorrendo nella protezione o ricettazione qualità tale che alterasse il delitto, come, se cotali ricettatori partecipassero dei furti e de' ricatti, o fossero mediatori e gli ajutassero ne' loro delitti, ovvero provvedesser loro d'armi, di polvere e di altri arnesi per armare, acciocchè si potessero mantenere in campagna, o pure loro facessero commettere violenze: in tali casi rimise all'arbitrio del Giudice, di stendere le pene imposte, insino alla pena di morte naturale: favorendo ancora in ciò le pruove, con ammettere la testimonianza di due banditi e le pruove di due testimonj, ancorchè singolari, perchè s'avessero per pienamente convinti. Questi rigori fecero da dovero pensare a' loro protettori di abbandonarli affatto, li quali scorgendo, che le pene erano inviolabilmente eseguite, senz'ammettersi scusa alcuna, nè avendo luogo la grazia o il favore, fece sì che tutti si ritraessero da proteggerli. Quando questi ribaldi si videro senza ricovero, si costernarono in guisa, che tutti, o colla fuga cercarono scampo, o rimessi cercarono perdono, o finalmente presi portarono i condegni castighi delle loro scelleragini. Così furono estirpati affatto dal Regno con total esterminio, tal che di essi non ne rimase alcun vestigio. E riuscì l'impresa così felice e gloriosa, che presso di noi se ne perdè affatto la semenza: tal che quella quiete, che da poi il Regno ha goduto e gode nella sicurtà dei viaggi, de' traffichi e del commerzio, tutta si deve all'incomparabile vigilanza e provvidenza di questo savio e glorioso ministro, la cui memoria per ciò rimarrà presso noi sempre eterna ed immortale.

Molto ancora gli dobbiamo per averci tolto un altro pernizioso e scandaloso male, che radicatosi non men in Napoli, che nell'altre città del Regno, cagionava infiniti disordini ed oppressioni. Alcuni potenti nutrendo ne' loro palagi molti scherani ed uomini di male affare, incutevan timore a' più deboli, minacciandoli, sovente sfregiandoli, ed in mille guise oltraggiandoli e con imperio estorquendo da essi tutto ciò che lor veniva in mente: favorivano gli uomini più rei, nè vi era faccenda nella quale non s'intrigassero, non forzassero i più deboli di fare a lor voglia. Sforzavano i padri di famiglia a collocare in matrimonio le lor figliuole con chi ad essi piaceva: n'impedivano degli altri da essi non graditi: in brieve avean ridotti i cittadini in una miserabile servitù. Estirpò questo eroe con gran vigore sin dalle radici sì pernizioso malore: punì severamente gli scherani, li dissipò tutti, ed a' loro protettori con severe pene portò tal terrore, che se n'estinse affatto ogni abuso: tal che non si videro da poi, nè soverchierie, nè imperj, ed il timor della giustizia fu per tutti eguale.

Ma ciò, che maggiormente fece conoscere, che in questo Ministro s'accoppiavano tutte le virtù più commendabili, fu che nell'istesso tempo, ch'era terribile contro gl'imperiosi ed ingiusti, era tutto umano e placido con gli uomini da bene e con i deboli. La sua pietà era ammirabile: sovveniva con inudita carità i poveri e dall'ingiuria della fortuna oppressi; invigilava per se medesimo perchè non si soverchiassero i deboli e gl'impotenti: ebbe per inimica mortale la sordidezza: molto più la cupidigia delle ricchezze. Era sobrio, ed in tutte le cose parco e moderato; ma nell'istesso tempo magnanimo e grande.

Conoscendo, che per tener soddisfatto il Popolo, bisognava lautamente provvederlo di quelle due cose che ardentemente desidera, Panem et Circenses, egli applicò i suoi talenti a tener in abbondanza la città di ogni sorte di viveri, tal che non vi fu Vicerè, che fosse cotanto amato ed adorato quanto lui dal Popolo: gioiva questi e tutto ubbriacato d'allegrezza e di contento gli correva dietro per le pubbliche strade, ed innalzando insino al cielo le sue lodi ed encomj, lo chiamavan con tenerezza affettuoso padre e signore.

Negli spettacoli fu imitatore della magnificenza degli antichi Romani: non ne vide Napoli più magnifichi e stupendi. Ne rimangono ancora a noi le memorie, che nè la lunghezza del tempo, nè l'invidia l'emulazione le potrà cancellare. I suoi successori, che mossi dal suo esempio vollero imitarlo, riuscirono al paragone secondi e molto inferiori. Ma o sia, che morte per suo costante tenore soglia furarne i migliori: o veramente che il fatto sinistro di questo reame con consenta, che lungamente perseveri nella felicità e contenti; nel meglio del suo glorioso corso, venne a noi pur troppo intempestivamente rapito. Infermatosi egli di febbre lenta, diede in prima a' Medici speranza di potersene riavere, ma aggravatosi il male, ancorchè con lentezza, lo condusse finalmente alla morte nel dì 15 di novembre di quest'anno 1687. Fu amaramente pianto da tutti gli ordini, ed assai più dal Popolo, che non poteva darsi pace, nè conforto per una sì grave ed irreparabil perdita. Oltre i savi provvedimenti sinora rapportati, ce ne lasciò ancor degli altri, che vengono additati nella tante volte rammentata Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche. Morte crudele tolse a noi di lui altri monumenti, ed altre insigni memorie, che si doveano sperare dalla sua magnanimità ed ammirabile sapienza. Il suo cadavere con superba e militar pompa fu condotto nella chiesa del Carmine, ove gli furon celebrate magnifiche esequie. Ed intanto rimaso il vedovo Regno senza il suo rettore, corse da Roma il G. Contestabile del Regno D. Lorenzo Colonna a prenderne il Governo, infino che dal Re non si fosse provveduto di successore. Ma poco tempo durò la costui amministrazione; poichè essendosi dalla Corte di Spagna destinato per successore il Conte di S. Stefano, che si trovava Vicerè nella vicina Sicilia, tosto egli si portò in Napoli, e ne prese immantenente il governo, di cui saremo ora a ragionare.

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