CAPITOLO IV.

Morte del Re Carlo II, leggi che ci lasciò; e ciò che a noi avvenne dopo sì grave ed inestimabil perdita.

I Franzesi per la disperata salute del Re Carlo, sempre più insistendo nella corte di Spagna presso que' Grandi, e sopra ogni altro presso del Cardinal Portocarrero Arcivescovo di Toledo, che sopra quel Re s'avea acquistato grand'opinione di probità e di prudenza, perchè, mancando senza prole, dichiarasse per successore ne' suoi Regni Filippo, secondo figliuolo del Delfino; esageravano non meno i diritti sopra quella monarchia del Delfino per le ragioni della Regina Maria Teresa d'Austria sua madre, e sorella primogenita del Re Carlo, che il loro proprio interesse. Sin dalla guerra mossa per la successione del Brabante, essi s'erano sforzati d'abbattere la di lei rinunzia stabilita con giuramento, ed ogni maggior fermezza e solennità; e sin d'allora aveano pubblicato un libro contenente settantaquattro ragioni per provar la nullità della medesima. Ma essendosi in quella occasione per contrario, con forti e vigorose scritture fatto vedere, quanto quelle fossero deboli e vane: essi aggiungevan ora, che molte di quelle risposte non potevan adattarsi al caso occorso, dove non già la rinunziante, che, trovavasi defunta, aspirava alla successione, ma il di lei figliuolo, al quale non si poteva per colei recar pregiudizio, venendo secondo le leggi chiamato alla successione per propria persona, ed al quale non poteva far ostacolo qualunque rinunzia, che da' suoi maggiori si trovasse fatta. Ma non perciò uscivano d'impaccio; poichè oltre alle pressanti ed amplissime clausole, che in quelle rinunzie s'erano apposte, appunto per render vano quest'asilo; non si dovean tali renunzie regolare secondo le vulgari conclusioni de' nostri Dottori, ma da fini più alti e sovrani, che s'ebbero, quando quelle si fecero: li quali furono la perpetua separazione di queste due monarchie; ed affinchè per qualunque accidente queste due corone non potessero mai congiungersi sopra un sol capo. Per iscansare quest'altro ostacolo, i Franzesi proposero, che tal dichiarazione dovesse farsi, non già in persona del Delfino, ma del Duca d'Angiò suo figliuolo, al qual'egli avrebbe cedute le sue ragioni. In cotal guisa s'evitava l'unione, e mancava il fine, per cui s'eran le rinunzie ricercate. Ma questo concerto, fra di essi cotanto ben ideato, ed aggiustato, non poteva togliere la ragione già acquistata all'Imperador Leopoldo, ed a' suoi figliuoli in vigor de' testamenti de' Re di Spagna, e delle rinunzie, al quale, oltre di non ostare il fine della sempre abborrita unione, ben egli con ceder le sue ragioni all'Arciduca Carlo suo secondo figliuolo, avrebbe ancora avuto più spedito modo di farlo; oltre che s'assumeva da' Franzesi per certo quel ch'era in quistione; poichè quest'appunto si negava, che al Delfino per l'incompatibilità delle corone, si fosse potuto acquistar giammai ragione alcuna, e per conseguenza, niente aveva che rinunziare al Duca d'Angiò suo figliuolo. Ciò, che dunque principalmente spinse gli Spagnuoli ad indurre quel Re, con sommo rincrescimento, a dichiarar per successore il Duca d'Angiò fu il timore, che facendosi altrimente, sarebbe venuto ad effetto il cotanto abborrito partaggio. Ponevano avanti gli occhi di quel piissimo Re le ruine e le calamità, che avrebbero dovuto inevitabilmente soffrire tanti suoi fedeli ed amati popoli, e che la sua pietà non avrebbe permesso d'esporgli a tanti disagi e pericoli. Ricordavangli la grandezza e generosità della nazione spagnuola, la quale sarebbe stata altamente percossa, ed al niente ridotta, se l'avesse lasciata esposta, facendo altrimente, agli oltraggi d'un Re cotanto formidabile e potente. Ma sopra ogni altro gli raccomandavano l'unione della sua monarchia; la quale ingrandita con tanta gloria da' suoi predecessori e ridotta in un'ampiezza, che non avea la simile il mondo, non dovea esporla ad esser così miseramente lacerata e divisa in pezzi, sicchè nelle future età di questa gran macchina appena ne rimanessero le ceneri. Ricordavangli, che il savio Re Ferdinando il Cattolico, ancorchè avesse potuto innalzare al trono, almeno de' regni proprj, e da lui acquistati colle forze d'Aragona, uno del suo casato, volle nondimeno chiamare alla successione di tutti Carlo d'Austria Fiamengo; perchè ben conosceva, che nella persona di quel potentissimo Principe e per quel ch'era, e per quel che dovea essere, poteano quei Regni mantenersi uniti formando una ben ampia monarchia, la quale avrebbe potuto lungamente durare, e non dissolversi con iscadimento della sua gloria, e dell'inclita nazione spagnuola.

Espugnato per tanto il Re ne' principj d'ottobre per queste insinuazioni suggeritegli, fra gli altri, con vigore dal Cardinal Portocarrero, aggravatosi il male, disperarono i Medici della sua salute: e postosi nella fine di quel mese in agonia, spirò il primo di novembre, giorno di Lunedì, di quest'anno 1700. Il martedì fu imbalsamato il suo cadavere, ed il mercoledì fu esposto nel regal palagio in quella medesima stanza dove nacque. Assisterono molti religiosi in una gran sala per li suffragj, dove in molti altari ivi eretti furon celebrati i sacrificj insino al venerdì, nel qual giorno furono celebrate tre messe solenni nelle cappelle regali e da poi una pontificale coll'assistenza di tutt'i Grandi. Fu da poi levato il cadavere e portato nell'Escuriale, accompagnato da tutti i Grandi, da quelli della regal casa e dalle quattro religioni mendicanti: dove se gli diede sepoltura con quelle solennità, che convenivano ad un così grande ed amato Re. Fu seppellito nell'istesso giorno e nell'istessa ora che veniva a compire 39 anni di sua vita. Cominciò egli a regnare da' 6 di novembre dell'anno 1675, nel qual dì finì i quattordici anni della sua età e la reggenza della Regina madre e della Giunta. Nel 1679, ai 30 d'agosto prese per moglie Maria Lovisa di Borbone, e costei morta a' 12 di febbrajo del 1689, prese nell'anno seguente Marianna di Neoburg: di niuna delle quali lasciò prole. Fra le sue virtù furono ammirabili la pietà e la religione: giammai se n'intese parola alcuna ingiuriosa: aveva una somma applicazione al dispaccio, privandosi sovente dell'ore del divertimento, per non mancare alla spedizione di quello: nè mai risolveva cosa, senza che precedesse il Consiglio de' suoi ministri, ed eseguiva i loro dettami con tanta esattezza, che anche le cose, ch'egli ardentemente desiderava, s'asteneva di farle, e sovente ne ordinava di molte, anche contro il proprio sentimento, sempre che così gli era da' suoi ministri consigliato, riputando, che in cotal guisa operando, non avea di che render conto a Dio dell'amministrazione de' suoi Regni. Fu sommamente divoto di Nostra Signora degli Angioli, ed ebbe speziale e costante venerazione al Santissimo Sagramento dell'Eucaristia, tal che non mancava d'assistere all'esposizioni delle quaranta ore circolari.

Lasciò pure a noi questo piissimo Principe alcune sue leggi; e nel 1675, primo anno del suo regnare dopo la Reggenza, ne stabilì una, colla quale comandò, che gli ufficj, senza il suo regale assenso, non potessero nè obbligarsi, nè vendersi, e conceduti in burgensatico, non si stendesse più oltre la concessione, che insino al quarto grado: comandò ancora, che dagl'inquisiti, prima che fossero convinti rei, non potesse esigersi cosa alcuna di giornate, o d'altro, ma aspettarsi la loro condanna: prescrisse i modi e le norme intorno alla fabbrica e lavori di seta, d'argento e d'oro, per toglier le frodi, le quali, come si disse, furono pubblicate dal Marchese del Carpio in tempo del suo governo; e diede vari provvedimenti, che sono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche, secondo l'ultima edizione.

Concedè pure questo clementissimo Re alla nostra città e Regno molti privilegj e grazie, così quelle cercate in tempo dell'ambasceria di D. Ettore Capecelatro, che ancorchè domandate vivente il Re Filippo IV, ebbero compimento nell'anno 1666 dopo la sua morte; come quelle domandate da D. Luigi Poderico, e da D. Francesco Caracciolo Marchese di Grottola ambasciadori inviati alla corte; ed altre, che si leggono nel II volume de' Privilegj e Capitoli impresso ultimamente nel trascorso anno 1719.

Giunse in Napoli la funesta novella della morte del Re Carlo II a' 20 di novembre di quest'anno 1700, e nell'istesso tempo l'avviso d'aver egli dichiarato per suo successore in tutt'i Regni della monarchia di Spagna Filippo Duca d'Angiò; ed il Duca di Medina Coeli per maggiormente accreditarne la fama, fece tosto imprimere e pubblicare due clausole, che diceansi essere estratte dal testamento del defunto Re, in una delle quali dichiaravasi la successione nella persona del Duca d'Angiò e nell'altra s'esprimeva la Giunta del Governo, ch'egli avea eretta sin tanto che il successore non si fosse portato in Ispagna, Capo della quale si faceva la Regina vedova e li governadori erano il Presidente, o Governadore del Consiglio di Castiglia, il Vicecancelliere, o Presidente d'Aragona, l'Arcivescovo di Toledo, l'Inquisitor Generale, un Grande, ed un Consigliere di Stato. Accompagnò il Medina quelle clausole con una lettera scrittagli dalla Regina e Governadori suddetti, per la quale se gli imponeva, ch'eseguisse ciò che quelle ordinavano e ciò che in simili casi solevasi praticare. I popoli attoniti e sorpresi a tanta novità, commossi dal dolore per la morte d'un Principe cotanto pio e religioso, piansero la comune sciagura per tanta perdita; ed il Medina imitando l'esempio degli altri Regni di Spagna, fece eseguire il comando, tal che senza commozione o scompiglio alcuno fu da noi riconosciuto quel Principe, che la Spagna ci aveva dato.

(Il Testamento del Re Carlo II contenente LIX Clausole, fra le quali le 14 e 15 contengono la successione dichiarata per Filippo d'Angiò leggesi impresso in più raccolte e Scrittori; presso Cassandro Tucelio in Actis Publicis Tom. 5 c. 5 pag. 299, presso Fabri Staats-Cantzeller. tom. 5 pag. 135, nella vita di Carlo III part. 1 p. 95 e nelle Mem. de la Guerre, tom. 2 pag. 253).

Ferirono questi inaspettati avvenimenti altamante l'animo, non meno dell'Imperador Leopoldo per lo gran torto, che pareagli essersi fatto alle sue ragioni, in manifestamento dalle quali fu dato poi alle stampe nel 1703 il libro intitolato: Defense du droit de la Maison d'Autriche à la succession d'Espagne ; che degli altri Principi concorsi nel meditato partaggio, i quali tenendosi delusi dalle arti del Re Franzese, e mal sicuri, se permettessero, che tanta potenza e tanti Regni s'unissero nella casa di Francia; e considerando, che tutto il timore della Spagna era di non vedere la loro monarchia divisa, fu risoluto d'impiegare tutte le lor forze, per metter in quel trono Carlo Arciduca d'Austria, figliuolo secondogenito di Leopoldo, al quale perciò, non meno il padre, che il fratello, cederono le loro ragioni: sicchè fu egli dichiarato Re di Spagna, e spinto a condursi in quei Regni per discacciar l'emulo dalla Sede. Gli Olandesi si dichiararono per l'Arciduca: il Re d'Inghilterra, quel di Portogallo, e poi il Duca di Savoja si unirono coll'Imperadore e fecero fra di lor lega per togliere dal possesso degli Stati di Spagna Filippo e riporvi l'Arciduca Carlo. Fu ciò cagione d'una sanguinosa e crudel guerra, fra gli Alleati e la Francia, la quale fu dichiarata l'anno 1701. Ed essendo da poi morto il Principe d'Oranges dichiarato Re d'Inghilterra, sotto il nome di Guglielmo III ch'era entrato in quell'Alleanza; la Regina Anna Stuarda secondogenita di Giacomo II che successe in quel reame, non pur confermò l'alleanza, ma con impegno maggiore impiegò le forze del suo Regno per mettere nel trono di Spagna il Re Carlo. Le sue flotte ve lo condussero: Catalogna fu presa, ed in Barcellona il nuovo Re collocò la sua Sede regia, il qual poi costrinse Filippo, colle forze imperiali, ed inglesi a lasciar la città di Madrid: e se la battaglia di Almanza guadagnata da' Franzesi il dì 25 d'aprile dell'anno 1707 non frastornava il bel disegno, la Spagna sarebbe passata interamente sotto il suo dominio. Non potè avere l'Imperador Leopoldo il piacere di veder così bene impiegate le sue armi, ed esser secondati i suoi voti da sì prosperi successi: era egli già morto, ed in suo luogo eletto nel 1705 Giuseppe I suo figliuolo.

Ma non meno in Fiandra, che in Italia ebbero a questi tempi le gloriose armi imperiali felici avvenimenti. Non pur si tolse l'assedio a Turino ma in un tratto fu occupato lo Stato di Milano, Mantova, e l'altre piazze della Lombardia; tal che i Franzesi furon costretti abbandonar l'Italia, e ritirarsi colle loro truppe in Francia. Aveano i Franzesi per soccorrere il Milanese lasciato voto il nostro Regno di loro truppe; onde s'ebbe opportunità di tentarne l'impresa con felicissimo successo. Per la natural affezione di questi popoli all'augustissima casa d'Austria, bastò al Conte Daun con un sol distaccamento dell'esercito imperiale, che l'Imperador Giuseppe teneva in Lombardia, entrar, senza esservi chi gli facesse opposizione, nel Regno, ed a' 7 di luglio di quest'anno 1707 felicemente impossessarsi, in nome del Re Carlo, della città di Napoli, gli Eletti della quale corsero insino ad Aversa a presentargli le chiavi. L'esempio della Metropoli fu tosto imitato dalle altre città del Regno: i castelli tutti si resero alle vittoriose insegne: Pescara parimente fu resa: sola Gaeta, dove eransi ritirati gli Spagnuoli, fece resistenza; ma in men di tre mesi, dopo breve assedio fu presa per assalto e saccheggiata. In breve con universal giubilo e contento furono ricevute le imperiali armi e senza commozione, senza scompiglio e senza que' disordini, che sogliono cagionare le mutazioni di nuovi dominj, il Regno tutto pacatamente ed in somma tranquillità passò sotto il dominio del Re Carlo, che teneva allora collocata la sua Sede regia in Barcellona.

Furono ritenute le medesime leggi, i medesimi magistrati, (sol mutandosi le persone di coloro, ch'eranvi dal suo emolo fra que' sette anni stati esaltati) li medesimi stili nelle segretarie all'uso di Spagna, ed i medesimi istituti. Gli Spagnuoli, che vollero rimanere, furono mantenuti ne' loro posti: furono ne' Tribunali conservate le alternative, ch'essi godevano nelle toghe: in breve, toltone i Vicerè di nazion tedesca, e gli ufficiali militari, che aveano il comando delle loro truppe, in niente fu alterata la politia del Regno.

Ricevette però non picciol vantaggio dall'aver fatto ritorno sotto il dominio di questa augustissima famiglia, per le tante concessioni e privilegi, che a larga mano, sopra tutti gli altri Re suoi predecessori, gli furon conceduti da un sì grato ed indulgentissimo Principe. Egli mosso dalla fedeltà e prontezza mostrata in quest'occasione, concedette alla città e Regno nuove grazie, e tutte considerabilissime, e quel ch'è più, la pronta esecuzione dell'antiche. Onorò la città, ed i suoi Eletti con nuovi e più speziosi titoli. Preferì i suoi nazionali nelle cariche, beneficj e negli uffizj, escludendone i forestieri. Con più sue regali cedole stabilì l'importante diritto dell'Exequatur Regium in tutte le Bolle, Brevi ed altre provvisioni, che ci vengono di Roma: vietò rigorosamente l'alienazione dei fondi delle entrate regali: sterminò affatto ogni vestigio d'Inquisizione: con suoi Regali editti comandò, che in tutt'i Beneficj, Vescovadi, Arcivescovadi, ed altre Prelature del Regno ne fossero affatto esclusi i forestieri, nè che in lor beneficio sopra quelli possano imporsi pensioni o altre gravezze; confermò tutti i privilegi e grazie concedute al Baronaggio, ed al Regno, da' Re suoi predecessori; tolse la Ruota del Cedulario: volle, che contro il suo Fisco militasse la prescrizion centenaria, anche nelle regalie, nelle cose giurisdizionali e nelle altre sue ragioni fiscali: stese la succession feudale a favor de' Baroni per tutto il quinto grado. Nè dee riputarsi picciol giovamento quello, che si ritrae dal venire ora il nostro Regno compreso nelle tregue, che si fanno dall'Imperio col Turco: e dal commerzio, al quale è inteso d'aprire colla Germania ne' nostri Porti, con scale franche; ciò, che dagli Spagnuoli non era da desiderare, non che da sperare. In fine concedè a noi tante rilevanti grazie, le quali non senza nostra confusione insieme e contento, leggiamo ora nel II volume delli Privilegi e Grazie fatto imprimere nell'anno 1719 dalla nostra città, perchè non meno si sappiano i suoi pregi, che la munificenza di un tanto Principe, de' quali gli è piaciuto di profusamente arricchirla.

Intanto fu provveduto il nostro Re Carlo III d'una non men savia, che avvenente Principessa per moglie Elisabetta Cristina di Wolffembutel, la quale da' suoi Stati, traversando la Germania e l'Italia, si condusse in Barcellona al suo sposo; nel qual tempo i progressi delle sue armi in Ispagna, sotto la condotta del Conte di Staremberg, fecero maravigliosi acquisti, penetrando co' suoi eserciti insino a Madrid; e se il Duca di Vandomo, al quale era stato conferito il comando delle truppe di Spagna, non si fosse valorosamente opposto all'esercito nostro, costringendolo a ritirarsi in Catalogna, la guerra di Spagna sarebbe allora gloriosamente finita. Gli Olandesi e gl'Inglesi dall'altra parte aveano interamente rotti i Franzesi in Fiandra, nella battaglia, che lor diedero vicino ad Oudenarde sopra la Schelda, la quale portò in conseguenza la presa di Lilla e di Gant; e poi l'anno seguente quella di Tournai e di Mons; tal che costrinsero Lodovico XIV a far proposizioni di pace, le quali, ancor che fossero svantaggiose alla Francia, nelle conferenze che si fecero in Gertruidemberg fra i Plenipotenziari della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda, non furono accettate.

Ma la morte accaduta in quest'anno 1711 a' 17 di aprile dell'Imperador Giuseppe, in età di 32 anni, otto mesi e ventitrè giorni, senza lasciar di se prole maschile, ruppe tutti i disegni, e fece mutar sembiante allo stato delle cose. Tutti i Principi d'Alemagna richiamavano il nostro Re all'Imperio, tal che, stando egli in Barcellona, fu dal comun lor consenso in Francfort eletto Imperadore, e Carlo VI sempre Augusto Imperador Romano fu universalmente acclamato. Gli convenne perciò, lasciando la Regina Elisabetta in Barcellona al Governo di Catalogna di ritornare in Alemagna e prender il possesso dell'Imperio. Ed intanto il Re di Francia, profittandosi di tal mutazione, e più per aver ridotta la Regina Anna d'Inghilterra con vari negoziati e lusinghe a' suoi voleri, promosse con maggior calore nuovi trattati di pace. Indusse da principio quella Regina ad acconsentire ad una sospension d'armi fra la Francia e l'Inghilterra, tal che fece ella ritirare le sue truppe, che avea in Fiandra, dall'esercito degli Olandesi; il qual essendo divenuto più debole a cagion di questa ritirata, fu assalito dall'esercito Franzese guidato dal Maresciallo di Villars, e stretto sì vivamente a Denain, che dopo una considerabil perdita, i Franzesi s'impadronirono del campo nemico, presero poi S. Amando e Marchienna, fecero levar l'assedio da Landrecì, e costrinsero la città di Dovay e quella di Quesnoy alla resa.

Questi vantaggi costrinsero gli Alleati ad ascoltare le proposizioni di pace; onde furono nominati dall'una e dall'altra parte i Plenipotenziarj, i quali portatisi in Utrech (dopo essersi a' 14 marzo, tra il nostro Imperadore ed il Re di Francia, accordato un armistizio per Italia e l'evacuazione della Catalogna e di Majorica) conchiusero la pace il dì 11 del mese di aprile dell'anno 1713 fra l'Inghilterra, l'Olanda, Portogallo, Savoja, Prussia, Francia e Spagna. Fu tra di loro stabilito, che col mezzo della rinunzia fatta da Filippo alla Corona di Francia, tanto per se, quanto per li suoi discendenti, e di quella del Duca d'Orleans alla Corona di Spagna, a Filippo rimanessero le Spagne e l'Indie. La Sicilia fu data al Duca di Savoja, al quale anche fu promessa la successione al Regno di Spagna, come pure a' suoi eredi, in caso venisse a mancare il ramo di Filippo. Il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano rimanesse al nostro Imperadore. Gli Elettori di Baviera e di Colonia furono restituiti nel possesso de' loro Elettorati. La Regina Anna fu riconosciuta Regina d'Inghilterra, e dopo la di lei morte il Principe d'Annover e suoi eredi. Che le fortificazioni di Doncherc dovessero demolirsi. Le Piazze della Fiandra spagnuola furono date in potere degli Olandesi, per essere restituite alla Casa d'Austria; e Lilla, ed Aire furono restituite al Re di Francia.

Il nostro Imperadore non volle ratificar questo trattato per non pregiudicare le sue ragioni sopra la Spagna, nè volle colla medesima trattar pace, per ciò ne fu fatto un altro particolare tra lui e la Francia, in Rastat il dì 6 di marzo del seguente anno 1714, col quale si confermarono le condizioni precedenti a riguardo di tutte le altre Potenze, ma non già di cedere le sue ragioni e titoli sopra quella monarchia, da poterle, quando che sia, sperimentar coll'armi. Fur per tanto questi trattati di pace eseguiti con ogni sincerità (toltone la Spagna) fra tutte le Potenze, che vi concorsero. Al Duca di Savoja fu data la Sicilia; se bene avendo poi la Spagna voluto romper questo trattato, con tentar d'occuparla di nuovo per se, questa mossa è stata cagione, che lo scambio, che poi se ne fece, sia riuscito in maggior vantaggio del nostro Monarca; poichè vindicata colle sue armi, dalle mani degli Spagnuoli, si diede al Duca in iscambio della Sicilia l'Isola di Sardegna, tal che la Sicilia rimane ora unita al nostro Regno, come prima, sotto un medesimo Principe.

(Gli articoli accordati nel campo vicino Palermo per l'evacuazione de' Spagnuoli dal Regno di Sicilia e di Sardegna a' 6 maggio del 1720 tra il Conte di Merus per l'Imperadore e tra il Marchese di Lede General comandante degli Spagnuoli, si leggono presso Lunig , siccome gli articoli accordati da' medesimi nel campo suddetto a' 8 dello stesso mese, riguardanti l'evacuazione del Regno di Sardegna, si leggono presso lo stesso pag. 1435. Per esecuzione de' quali, usciti da quella gli Spagnuoli, ne presero il possesso le truppe Cesaree, ed in vigore dell'Artic. II della quadruplice Alleanza, la maestà di Cesare per mezzo del Principe di Ottaiano suo plenipotenziario costituito a questo atto, diede il possesso del Regno col titolo di Re al Duca di Savoja, il quale dall'ora avanti deposto il titolo di Re di Sicilia, assunse quello di Re di Sardegna).

Fu evacuata la Catalogna, e l'Imperadrice Elisabetta ritornò in Alemagna, nell'imperial Sede di Vienna, a ricongiungersi col suo Augusto marito, di cui già gravida, diede poi alla luce un Principe; ma morte troppo acerba, crudele ed inesorabile a noi presto cel tolse, lasciandoci in amari lutti e pianti.

Fu per tanto per lo governo di questi Regni di Spagna, che rimanevano all'Imperador Carlo, eretto in Vienna un supremo Consiglio, composto non men di Consiglieri di toga, che di Stato, e nel quale non v'hanno parte alcuna Ministri tedeschi. A questo dal nostro Regno si manda un Reggente, come già praticavasi sotto il governo degli Spagnuoli di mandarsi in Madrid. Si serbano per ciò i medesimi istituti e le segretarie rimangono ancora all'uso di Spagna: in quella lingua vengon dettate le regali cedole ed i dispacci, ed i Ministri spagnuoli, che seguirono il nostro Augustissimo Principe ritengono in quel Consiglio la lor parte, di cui ora è Capo e presidente l'Arcivescovo di Valenza, che sopra tutti gli altri è distinto nella fedeltà e zelo del servigio del suo Signore.

Si credette, che per la competenza e contrasto fra questi due Principi Carlo e Filippo, ciascun de' quali per se dimandava istantemente al Pontefice Clemente XI l'investitura del Regno di Napoli, dovesse con tal opportunità cancellarsi quest'uso; poichè essendo stato sempre costante quel Pontefice a negarla all'imperador Leopoldo, che giustamente la dimandava per l'Arciduca Carlo suo secondo figliuolo, ripugnava ancora (per ostentar neutralità) di darla al Re Lodovico di Francia, il quale, non men che Leopoldo, istantemente la chiedea per lo Duca d'Angiò suo nipote.

(Tutti gli atti e pubbliche scritture uscite per l'occasione di questa investitura, che dimandavasi al Papa da' Principi rivali, e le relazioni della ridicola pretensione, che da ciascuno si faceva del cavallo bianco, che non accettato si lasciava andar ramingo e scapolo per Roma, furono unite ed impresse da Cassandro Tucelo Tom. I. cap. 6, dove si leggono le Allegazioni di Ulrico Obrecto, e le contrarie di Rolando de Duvinck.)

Per questa competenza in tutto il Pontificato di Clemente, che fu molto lungo, non si curò più da competitori dimandarla, tal che si credea, che l'ultima investitura dovess'esser quella, che Carlo II prese nell'anno 1666 dal Pontefice Alessandro VII. Per una consimile occasione si tolse l'investitura del Regno di Sicilia; poichè negando sempre i Pontefici romani di darla al Re Pietro d'Aragona, ed a' suoi successori Re Aragonesi, per non offendere Carlo I d'Angiò, ed i suoi successori Re Angioini; gli Aragonesi da poi, riflettendo, che niente di male per ciò loro era avvenuto, nè più di ciò ch'essi aveano in quel Regno loro si dava, se non un poco di carta con quattro parole scritte, siccome solea dire il Re Carlo III di Durazzo al Pontefice Urbano VI, non si curarono più di cercarla; onde, siccome per certa usanza si trovava ivi introdotta, così per contrario uso rimase quella affatto abolita; tal che da poi nè il Re Alfonso I di Aragona, nè Ferdinando il Cattolico, nè gli altri Re dell'augustissima Casa Austriaca giammai la dimandarono, e rimase solo per lo Regno di Napoli.

Parimente i Pontefici romani per un tempo s'arrogarono la podestà di dar l'investitura del Regno di Sardegna, siccome in effetto Bonifacio VIII la diede a Giacomo Re d'Aragona; ma poi que' Re non si sognarono più di cercarla. E ne' Regni d'Aragona medesima e di Valenza pur pretesero lo stesso, siccome fece Martino IV, che privò di quelli Regni Pietro Re d'Aragona, e ne diede l'investitura a Carlo di Valois figliuolo di Filippo Re di Francia. Ma sono ormai scorsi cinque secoli, che gl'istessi romani Pontefici hanno lasciato tali pensieri e tali pretensioni. Lo pretesero ancora nel Regno d'Inghilterra, siccome si praticò in tempo di Re Giovanni, il quale volle riceverne l'investitura e l'incoronazione dal Papa, che vi mandò per tal effetto Pandolfo suo Legato appostolico ad incoronarlo. Ma da poi gli altri Re d'Inghilterra non si sognarono in conto veruno cercarne più investitura, nè fu più praticata. Il medesimo tentarono nel Regno di Scozia a tempo d'Odoardo I, che refutò il Regno alla Chiesa romana. Ma gl'Inglesi niente di ciò curando, fecero sentire al Papa, che non s'impacciasse con gli Scoti, ch'erano sudditi e vassalli del Re d'Inghilterra. Sono per ultimo note le intraprese de' romani Pontefici sopra l'Impero romano germanico, che veniva da loro connumerato tra' feudi della Chiesa romana, e che per ciò fosse della lor potestà eleggere gl'Imperadori. Ma da poi fu tolta ogni soggezione, ed ora la potestà d'eleggere è rimasa assolutamente presso i Principi Elettori, con essersi anche tolta quella cerimonia d'andarsi a coronare in Roma per mano del Pontefice. Così secondo le opportunità, che le si presentarono, tolsero i savj Principi da' loro reami queste soggezioni, le quali introdotte ne' tempi dell'ignoranza, siccome per abuso s'erano in quelli stabilite, così per contrario uso furono abolite.

Con tutto ciò essendo a' 19 marzo dell'anno 1721 morto Papa Clemente XI, in età di 72 anni, dopo un lungo Pontificato d'anni, poco men che ventuno, ed essendo stato eletto in suo luogo nel mese di maggio del medesimo anno il Cardinal Conti col nome d'Innocenzio XIII che ora con somma lode di prudenza e bontà regge la Sede appostolica, non ha costui fatto passar un anno del suo Pontificato, ch'essendone stato richiesto dal nostro Imperadore (per fini forse più alti e prudenti, che a noi cotanto umili e bassi, non lece indagare) glie n'ha conceduta l'investitura, con avergliene in maggio del passato anno 1722 spedita Bolla, nella quale, non altramente che fece Lione X coll'Imperador Carlo V, fu duopo dispensare alla legge dell'antiche investiture, le quali proibivano a' Re di Napoli d'essere Imperadori, o Re di Romani, e s'intendevano decaduti dal Regno, accettando la Corona imperiale; siccome si è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria.

(La Bolla colla quale Leone X dispensò l'Imperador Carlo V da questa legge, spedita a' 3 giugno dell'anno 1521 si legge presso Lunig tom. 2 pag. 1343.)

(Il Cardinale Althann, che si trovava allora in Roma Legato di Cesare, nel dì 9 giugno del medesimo anno 1722, diede in nome dell'Imperadore, come Re di Napoli, il giuramento di fedeltà avanti una generale congregazione di Cardinali, ed al Tribunale della Camera papale, presenti li suoi Protonotarj, ricevendo dal Papa l'investitura. Da poi a' 28 del medesimo mese nella vigilia di San Pietro, giorno da antichissimo tempo statuito a questa prestazione, il Colonna, come Gran Contestabile del Regno presentò il cavallo bianco, ed il solito censo, con solenne celebrità e gran pompa, per render gli altrui trionfi più maestosi e splendidi. La relazione di questa solenne funzione con le ristucchevoli cerimonie usate, non si dimenticò Struvio inserirla nella giunta del suo Corpus Hist. Germ. tom. 2 period. 10 sect. 13 de Carolo VI §. 47 nellapag 4112).

Ma il decorso del tempo, e gli avvenimenti dell'anno 1734 han fatto chiaramente conoscere quanto ai nostri tempi riesca a' Re di Napoli inutile il cercare, ed ottenere tali vane Investiture, e che queste celebrità e pompe di presentarsi ogni anno per tributo il censo di settemila ducati d'oro, ed il cavallo bianco, siano tutte spese perdute, che si potrebbero impiegare a miglior uso. Che profitto ricavonne L'Imperador Carlo VI di averla ottenuta da Innocenzio XIII? se non quello di avere Clemente XII successore, non già impedita, ma agevolata l'impresa all'Infante di Spagna Don Carlo inviato dal Re Filippo V suo Padre ad occupar il Regno, e discacciarne il legittimo possessore. Niente gli valse l'investitura d'Innocenzio. Niente que' giusti e legittimi titoli che ne avea, non solo per le ragioni di succedere al Re Carlo II, ma in vigore di più istromenti di pace stipulati e firmati con giuramento fra l'Imperadore ed il Re Filippo, così nella pace stabilita in Vienna nell'anno 1725 in esecuzione della pace di Londra del 1718, e ratificata con tanti altri reiterati atti ne' susseguenti tempi, come nelle altre convenzioni seguite prima e dopo la pace di Siviglia, per le quali i Regni di Napoli e di Sicilia per titolo di transazione irrevocabile si cedevano dal Re di Spagna perpetualmente all'Imperador Carlo; siccome questi all'incontro cedeva le sue pretensioni sopra tutta la Spagna e l'Indie al Re Filippo. Non s'incontrerà certamente nelle istorie esempio più chiaro e manifesto, che ad un principe, alla legittimità del possesso siansi accoppiati tanti giusti e validi titoli, quanto che a riguardo di questi due Regni all'Imperador Carlo. E pure il Vicario di Cristo, che dee zelar cotanto per la giustizia, che dee esclamare, increpare, maledire, ed opporsi agl'invasori, tanto è lontano che ciò abbia fatto, che al contrario agevolò l'impresa, somministrò alle truppe nel passaggio ogni agio ed abbondanza di vettovaglie e di viveri, ed animava i Popoli alla resa. Come colui, che si pretende padron diretto di questo Regno, riputandolo vero Feudo della Sede, anzi della Camera Appostolica, e che i Re dopo esserne stati investiti siano veri suoi Feudatarii, non si oppone all'invasore? e le leggi Feudali istesse esclamano, che di sua natura il feudo essendo da altrui invaso, porti seco l'indispensabil obbligo al padron diretto di difendere il Feudatario, opporsi all'invasore e far tutto ciò che possa per impedire l'invasione. A che dunque giovano oggi queste varie, ed inutili investiture? Almanco a' tempi antichi gl'Investiti erano sicuri, che i Pontefici si armavano a lor difesa; e quando non potevano far altro scomunicavano gli aggressori, interdicevano i loro Stati e scagliavano anatemi terribili contro i fautori e tutti coloro che gli prestavan ajuto e soccorso. Che non fecero li Pontefici romani contro Re Pietro d'Aragona, quando occupò il Regno di Sicilia, togliendolo al Re Carlo I d'Angiò, che n'avea avuta Investitura da Papa Clemente IV per se e suoi discendenti? che non fecero i successori di Clemente, morto Re Pietro, contro Re Giacomo suo figliuolo, e contro Re Federico fratello di Giacomo?

In tempo del famoso scisma, quando in Napoli si conoscevano, secondo le fazioni, due Re e due Pontefici, ciascun Papa difendeva contro l'altro il da lui investito, e si pugnava ferocemente fra di loro, come pro aris, et focis; ed i libri di quest'Istoria Civile sono pieni di contenzioni e brighe nate per occasioni simili.

Ma al presente i Papi riposatamente vogliono attendere il successo delle armi, e tutti soccorrono al vincitore, e discacciano il vinto. Quando nel mese di aprile dell'anno 1734 l'Infante Don Carlo entrò colle sue truppe nel Regno, ed i Napoletani se gli resero; poichè in sue mani non erano ancora passate le piazze di Gaeta, Capua, Pescara; ed i Castelli della Puglia, e di Calabria; ed erano ancora nel Regno Milizie Alemanne; sopraggiunto il mese di giugno, dovendosi nella vigilia de' SS. Apostoli Pietro e Paolo pagar il censo, e presentar il cavallo bianco con la usata celebrità e pompa, Clemente XII escluse l'Infante e ricevè dall'Imperadore, siccome per lo passato, il censo e la Chinea; ma nel mese di giugno del seguente anno 1735 essendosi già rese quelle Piazze e tutti i Castelli all'Infante D. Carlo, e dissipate le truppe Alemanne, allora la Corte di Roma mutò stile, ed il Papa ricusò di ricevere nel dì stabilito il censo e la Chinea dall'Imperadore, con tutto che dal Principe di S. Croce destinato dal medesimo per suo Ambasciador estraordinario a questo atto, si fosse offerto di pagar il censo e di presentar la Chinea; anzi la Camera Appostolica non volle ammetterlo nè meno a farne deposito; e ciò perchè il Papa gliel'avea proibito, dando fuori un suo motu proprio, col quale comandava de plenitudine potestatis Pontificiae, che in quell'anno si fosse prolungata e differita la presentazione e pagamento per il tempo e tempi a nostro arbitrio, come sono le sue parole, sicchè si prolungasse non solo il deposito, e pagamento delli ducati 7000 d'oro, ma anche la solenne funzione del Cavallo Bianco, o sia Chinea. E quel ch'è da notare, nel motu proprio dichiara il Papa tal ricognizione doverseli pel supremo e diretto dominio, che noi e questa S. Sede abbiamo sopra il Regno dell'una e dell'altra Sicilia: chiamandolo Regno nostro.

Ma merita assai maggiore ponderazione che si contrastava per parte dell'Imperadore la soggezione, ed in tutte le maniere d'un Regno del quale egli era assoluto Signore e vero Monarca, voleva esserne Feudatario, e vassallo della S. Sede; poichè il Cardinal Cienfuegos ministro Plenipotenziario dell'Imperadore nella Corte di Roma, avendone avuta special commessione da Cesare per suo imperial dispaccio de' 18 giugno, mandatogli per espresso, altamente a' 28 del suddetto mese protestò contro il motu proprio del Papa, come manifestamente ingiurioso a S. C. M. e lesivo de' suoi diritti, e come quello, che andava a violare a dirittura la fede del patto reciproco, che sempre esiste fra il Padron diretto, ed il Feudatario: soggiungendo e rinfacciando al Papa, che non ammettendosi la presentazione della Chinea ed il pagamento del censo nel giorno convenuto senz'alcuna delle solite legittime cause, la Santità vostra autorizza la ingiusta occupazione del Feudo, mettendosi dalla parte dell'usurpatore, a cui è stata anche facilitata l'impresa, quando più tosto ragion voleva, che il Feudatario fosse ajutato dal Padrone diretto nella difesa del Feudo. Soggiunge in oltre che essendo l'Imperadore l'unico legittimo Feudatario investito dalla S. Sede .... quantunque con la forza sia stato spogliato del Feudo, ritiene però sempre l'animo di ricuperarlo. Si protesta adunque col Papa e suoi ministri camerali di nullità e d'ingiustizia contro la suddetta dilazione, la quale, come sono le sue parole, espressamente e legalmente disapprovata da S. M. non possa, nè debba in qualunque tempo ed occasione allegarsi in suo danno e pregiudizio de' suoi diritti; ma che anzi si debbo riputare e considerare, si reputi e consideri sempre come voluta da V. S. senz'alcuna delle solite legittime necessarie cause, e non ammessa, nè approvata, ma bensì espressamente disapprovata e rigettata da S. M. la quale in effetto ha instato con tutto il vigore, e non cessa d'insistere affinchè si riceva il pagamento del censo, e la presentazione della Chinea al tempo prescritto e convenuto nelle Investiture; protestandosi altresì che affine di far conoscere e manifestare la nullità, e la ingiustizia di una tal dilazione, ed insieme l'aggravio e la violenza, che soffre S. M. come Feudatario della S. Sede, si servirà di tutti i mezzi leciti, che dalla naturale difesa e dalle leggi si prescrivono, affine di preservare il suo diritto legittimamente acquistato, e vendicare le sue ragioni.

Queste querele e proteste firmate a' 28 giugno dal Cardinale furono per mezzo di pubblico Notaro presentate e notificate a' Ministri Camerali, i quali le riceverono colle solite clausole forensi sic et in quantum; ma nell'istesso tempo ordinarono per lor Decreto: in omnibus esse servandum Motum proprium Sanctissimi.

Chi crederebbe, che il fascino nelle menti umane possa giungere a tanto, che ama e si contrasta la propria soggezione e servitù, essendo assoluti e liberi? che nulla tutto ciò giovando per discacciar l'invasore, ma tutto il presidio essendo riposto nelle armi, si voglia profonder denaro in cose vane ed inutili, e non più tosto impiegarlo ad accrescer truppe e milizie, che sono i più efficaci mezzi per vendicar i torti e le offese? A ragione adunque potrebbesi esclamare:

O miseras hominum mentes, o pectora coeca.

Qualibus in tenebris vitae .....

Degitur hoc aevi!

Share on Twitter Share on Facebook