CAPITOLO VII.

Del breve Governo di D. Giovanni Alfonso Enriquez Almirante di Castiglia.

Giunto l'Ammiraglio in Napoli, e preso il possesso della sua carica a' 7 maggio di quest'anno 1644, non tardò guari ad accorgersi in che stato lagrimevole era il Regno ridotto: vide le miserie estreme dei sudditi gravati di tante imposizioni e gabelle: esausti tutti i fonti, e l'Erario Regale tutto voto. Ma le sue maggiori afflizioni erano, che non solamente non vedeva mezzi convenienti a potervi rimediare, ma che tuttavia più crescendo i bisogni per nuove cagioni, nè cessando i Ministri della Corte di Spagna, avvezzi a ricevere somme immense da' suoi predecessori, di cercar nuovi donativi di milioni, l'avean posto in agitazioni tali, che cominciava già a confondersi.

Pure in questi principj non sgomentandosi in tutto, colla sua prudenza e vigilanza suppliva, come si poteva meglio, a' nuovi bisogni, che occorrevano. Ancorchè per la pace fatta da Papa Urbano fin dal mese di marzo di quest'anno col Duca di Parma, colla scambievole restituzione de' luoghi presi, si fosse spento quel fuoco, che s'era acceso in Italia per l'occupazione e demolizione di Castro, appartenente al Duca; con tutto ciò non aveano i Barberini lasciate l'arme, nè licenziati i quattromila pedoni, co' dodicimila cavalli, che tenevano in piedi sotto il Duca di Buglione; ed essendosi gravemente infermato il Papa in questo mese di luglio, il nostro Vicerè, prima che spirasse, fece fare in Roma premurose istanze, che i nepoti del Papa deponessero l'armi, ed offerì ancora al Collegio de' Cardinali la sua persona e le forze del Regno per la libertà del futuro Conclave; onde essendo seguita già la morte d'Urbano a' 29 dell'istesso mese di luglio, non tardò di spingere a' confini del Regno le soldatesche; ma fattosi disarmare dal Concistoro il Prefetto di Roma, e seguita l'elezione a' 15 di settembre in persona di Giovambattista Cardinal Pamfilio, che si fece chiamare Innocenzio X si richiamarono le milizie a' quartieri.

Cessati questi timori, ne sopraggiunsero altri assai più gravi; poichè queste milizie istesse bisognò poco da poi sostenerle contra i Turchi, i quali con un'armata di quarantasei galee sotto il comando di Bechir Capitan Bassà s'eran presentati a vista d'Otranto. Gli Spagnuoli divulgavano, che questa mossa fosse per suggestione de' Franzesi, per tener distratte le forze del Regno: altri dicevano, che fosse principio di più alto disegno de' Turchi, per iscoprire la disposizione nella difesa delle marine d'Italia: che che ne sia, ancor che da' venti spinte ne' lidi della Velona, non avessero apportato altro male ad Otranto, che il terrore suscitato dalle rimembranze delle passate invasioni; nulladimeno ritornaron da poi nel Golfo di Taranto, dove saccheggiarono la Rocca Imperiale, e ridussero in ischiavitù quasi ducento persone, che con esso lor ne portarono. E da poi nel seguente anno avendo investiti i lidi della Calabria, vi saccheggiarono alcune Terre.

La ricca preda, che fecero da poi i Maltesi all'Eunuco Zanbul Agà nel suo viaggio per la Mecca (origine, che fu della guerra di Candia) pose in timore i Maltesi minacciati dal Turco d'invader Malta; onde il Gran Maestro di quella Religione invocando gli ajuti de' Principi vicini, fece premurose istanze a' Vicerè di Napoli e di Sicilia, perchè volessero prontamente soccorrerlo: tanto che all'Ammiraglio fu duopo spedirgli quattro vascelli, due de' quali carichi di munizioni così da guerra, come da bocca, e gli altri due di soldatesche Spagnuole ed Italiane; ma svanito il timore dell'invasione di quell'Isola, per essersi gittati i Turchi sopra il Regno di Candia, furono rimandate dal Gran Maestro le soldatesche speditegli dal Vicerè, ma non già le munizioni da guerra e le vettovaglie.

Ma questi soccorsi s'avrebber potuto con non molta difficoltà tollerare: altri maggiori se ne richiedevano per altre guerre e particolarmente per quella di Catalogna, che teneva angustiata la Spagna: bisognò dunque spedir da Napoli ottocento cavalli e quattromila pedoni sopra ventisei navi per quella volta, sotto il comando del Generale D. Melchior Borgia: soccorso quanto valido, altrettanto ruinoso al Regno, che 'l finì d'impoverire. Pure con tutto ciò non cessavano i Ministri della Corte di Spagna premere l'Ammiraglio con nuove dimande di donativi di milioni, per accorrere a' bisogni grandi della Corona, ne' quali per la mala condotta degli Spagnuoli si vedeva posta; ma non erano minori le miserie de' sudditi per tante gravezze, che sopportavano, e quando credeva il Vicerè di potergli alleggerire, non già maggiormente aggravargli di nuove imposte, fu costretto per soddisfare a tante e sì continue istanze, di sollecitare le Piazze della Città per l'unione d'un nuovo donativo. Fu conchiuso di farlo per la somma d'un milione; e perchè non vi era altro modo di poterlo con altre gravezze riscuotere dai sudditi, se non sopra le pigioni delle case di Napoli, fu risoluto di prender i nomi da' Cittadini pigionali per quest'effetto e tassargli; ma quando ciò volle mettersi in pratica, si vide una sollevazion universale e ne' borghi di S. Antonio e di Loreto molti della plebe cominciarono a tumultuare; tanto che il Vicerè, prevedendo disordini maggiori, fece sospendere l'esazione. Avvisati di ciò i Ministri di Spagna, ascrivendo questa sospensione a debolezza dell'Ammiraglio, acremente lo ripresero, e col solito fasto ed alterigia gli comandarono la continuazione dell'esazione; ma questo savio Ministro, che più da presso conosceva le pessime disposizioni, ch'erano nella città e nel Regno, con molta costanza stette fermo nella sospensione e scrisse al Re, pregandolo a volerlo rimovere dal Governo, ed a non voler permettere, che volendo cotanto premere un così prezioso cristallo, venisse a rompersi nelle sue mani.

I Ministri Spagnuoli deridendo la timidità dell'Ammiraglio, non diedero orecchio alle sue domande, anzi non lasciavano in Corte di biasimarlo, e di trattarlo da uomo di poco spirito, inabile a governare un Convento di Frati, non che un Regno tanto importante, come quello di Napoli. Ma fermo l'Ammiraglio nel suo proponimento, affermando di voler servire, non tradire il suo Re, rinovò le preghiere, perchè lo lasciassero partire, e gli Spagnuoli di buon animo indussero finalmente il Re a rimoverlo, ed a comandargli, che si portasse in Roma a render in suo nome ubbidienza al nuovo Pontefice; e credendo, che D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos, come più forte e risoluto potesse riparare alla debolezza, ch'essi imputavano all'Ammiraglio, lo destinarono per suo successore: di che il Duca soleva di poi cotanto dolersi, che s'erano a lui riserbate tutte le sciagure, e ch'egli era venuto a portare le pene delle colpe degli altri Vicerè suoi predecessori.

L'Ammiraglio intesa la risoluzione della Corte, giunto che fu il Duca d'Arcos nel Regno partissi da Napoli nel mese di aprile di quest'anno 1646, ed entrò in Roma a' 25 del medesimo mese, ed a' 28, adempiè la sua commissione col Pontefice; indi, dopo aver fatto un giro per Italia, si ricondusse in Corte ad esercitar la carica di Maggiordomo della Casa Regale, dove poco da poi, infermatosi di mal d'orina, trapassò a' 6 di febbrajo del nuovo anno 1647.

Nel breve tempo del suo Governo, che durò meno di due anni, ci lasciò pure da venti Prammatiche tutte savie e prudenti; attese all'esterminio de' banditi e scorridori di campagna; invigilò perchè non si fraudassero le gabelle e le dogane, vietando a' Monasterj, ed altri luoghi pii la vendita del vino a minuto: vietò la fabbrica, ed asportazion delle armi; e diede altri savj provvedimenti, che sono additati nella tante volte mentovata Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche. Ma quello, che nel principio del suo governo gli acquistò maggior plauso, fu l'aver tolto molti abusi, che s'erano introdotti nel precedente dal Medina, infra i quali era scandaloso quello introdotto nel Tribunale della Vicaria per lo gran numero de' Giudici, che vi avea creati, più tosto per soddisfare alle importune raccomandazioni de' parenti della Viceregina D. Anna sua moglie, in quel tempo molto potenti in Palazzo, che per rimunerazion di merito. L'Ammiraglio, lasciato un competente numero a reggere quel Tribunale, mandò gli altri a scrivere nelle Regie Udienze delle Province.

A lui parimente si deve d'essersi tolte le molte brighe con gli Ecclesiastici intorno al ceremoniale, e di essersi allontanate le funzioni Regali dal Duomo, con farle celebrare nelle Chiese Regali, o sottoposte all'immediata protezione del Re. Per la morte accaduta in ottobre dell'anno 1644 della Regina di Spagna Isabella Borbone, ordinò l'Ammiraglio, che se le celebrassero solenni esequie nel Duomo, siccome prima praticavasi; ed avendo ivi fatto innalzare un superbissimo Mausoleo, mentre dovea cominciarsi la funzione, insorse il Cardinal Filamarino Arcivescovo, e pretese, che si dovesse dare il piumaccio a tutti i Vescovi che vi doveano intervenire; ma i Ministri Regj riputando ciò una novità, non vollero acconsentirvi a patto veruno; e dall'altro canto ostinandosi il Cardinale, venne in risoluzione il Vicerè di far disfare il Mausoleo drizzato nel Duomo, e farlo trasportare nella Regal Chiesa di S. Chiara, siccome fu fatto; dove essendosi innalzato ed adornato d'iscrizioni ed elogi composti per la maggior parte da' Gesuiti, e spezialmente dal P. Giulio Recupito di quella Compagnia, furono celebrati i funerali alla defunta Regina a' 21 marzo del seguente anno 1645, recitandovi l'orazione in idioma spagnuolo il P. Antonio Errera della medesima Compagnia; onde da questo tempo in poi le altre consimili funzioni si sono celebrate nella stessa Chiesa, siccome fu fatto ne' funerali di Filippo IV, ed a tempi men a noi lontani, nell'esequie dell'altra Regina di Spagna Borbone, moglie che fu del Re Carlo II e degli altri Regali, come diremo.

Il Duca d'Arcos, avendo preso il governo del Regno, contra il credere de' Ministri di Spagna trovò le cose in istato pur troppo lagrimevole; ed il suo infortunio portò, che le tante cagioni cumulate da' suoi predecessori, avessero da partorire in tempo suo quegli calamitosi effetti e quegli infausti successi che si diranno; il racconto de' quali, per la loro grandezza e novità, fa di mestieri, che si porti nel seguente libro di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOSESTO.

STORIA CIVILE

DEL

REGNO DI NAPOLI

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