CAPITOLO II.

Sollevazioni accadute nel Regno di Napoli, precedute da quelle di Sicilia, ch'ebbero opposti successi: quelle di Sicilia si placano: quelle di Napoli degenerano in aperte ribellioni.

Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più Autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura; altri con troppo sottili minuzie distraendo i Leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento ed il fine: noi perciò, seguendo gli Scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla loro giusta e natural positura.

De' due Regni d'Italia sottoposti alla Corona di Spagna, quello di Sicilia più quietamente soffriva la dominazione Spagnuola, perchè la terra bagnata dal sangue Franzese inspirasse in que' popoli col timore delle vendette, l'avversione a quel nome, ovvero, perchè non erano cotanto premuti ed oppressi, quanto l'opulenza di queste nostre province invitava gli Spagnuoli a praticare co' Napoletani. Non era nemmeno in alcuni de' nostri Baroni cotanto odiosa la Nazion Franzese, poichè alternato più volte il dominio di questo Regno tra le due Case d'Aragona e d'Angiò, restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni, e l'inclinazioni per ciò vacillanti; onde avveniva, che la Francia nutrisse sempre l'intelligenze con alcuni Baroni; ed i Ministri Spagnuoli, ora dissimulandole, ora punendole, proccuravano di regger con tal freno, che divisi gli animi, impoveriti i potenti, introdotti ne' beni e nelle dignità gli stranieri, non conoscessero i Popoli le forze loro, nè sapessero usarle.

Nell'animo de' Popoli alla Monarchia Spagnuola soggetti, era a questi tempi, per tedio di sì lunghe avversità, scaduto il credito del governo; ed il nome del Re, nella felicità e nella potenza già quasi adorato, restava vilipeso nelle disgrazie e per gli aggravj della guerra poco men che abborrito. Si considerava ancora, che essendo morto in età giovanile il Principe D. Baldassare, dal Re Filippo IV procreato colla defunta Regina Isabella Borbone figliuola d'Errico IV e sorella di Lodovico XIII, Re di Francia, era facile, che la Monarchia rimanesse priva d'eredi; onde i sudditi perderono quel conforto, ed insieme il rispetto, con cui l'attesa successione del figlio al padre, suole, o lusingare i malcontenti, o raffrenare gl'inquieti; e per ciò gli spiriti torbidi sopra ciò promoveano discorsi frequenti ed i più quieti con taciti riflessi deploravano la fortuna maligna, che ciecamente trasferirebbe que' nobilissimi Regni ad incerto dominio, tanto più duro, quanto più ignoto.

I Popoli non men dell'uno che dell'altro Regno si dolevano delle imposizioni rese pesanti dal bisogno non solo, ma dall'avarizia de' Vicerè, e de' Ministri, pe' quali erano stati ridotti a tale stato di miseria e di carestia, che non bastando la fertilità de' nostri campi, nè la Sicilia istessa, che si reputa il Regno fertile di Cerere, ed il granajo d'Italia, potendone esserne esente, si cominciò da per tutto a patirsene penuria. Certamente, che non mai con più chiare pruove si conobbe esser vero, che per stabilire gl'Imperj Dio suscita lo spirito degli Eroi; ma per abbattergli si serve de' più vili e scellerati, quanto che per questi successi.

In Sicilia cominciava la plebe a mormorare per la penuria, che sofferiva di frumenti; ma non curate le sue querele, anzi invece di rimediarvi, impicciolito il pane per nuovi aggravj, diede ella in furore, e dal furore passando all'armi, riempì la città di Palermo di confusione e di tumulti. Il Marchese de los Velez, che governava quel Regno, non ebbe in quel principio forze per reprimerla, nè consiglio per acquietarla; onde lasciando pigliar animo a quella vilissima plebe, vide arder i libri delle gabelle, scacciare gli esattori, levar da' luoghi pubblici l'armi, e fin da' bastioni l'artiglierie; ed udì gridarsi per tutto, che l'imposte s'abolissero, e che nel governo si concedesse al Popolo parte uguale a quella, che teneva la Nobiltà. Il Vicerè accordava ogni cosa, e molto più prometteva; ma il Popolo prima contento, poscia irritato traboccava ad eccessi maggiori ed a più impertinenti domande; o perchè la facilità d'ottenere gli suggerisse pensieri di più pretendere, o perchè non mancassero istigatori, che spargevano essere simulata l'indulgenza e pericolosa la pietà di Nazione, per natura severa e contro i delitti di Stato implacabile per istituto. Se dunque un giorno, accarezzata, deponeva l'armi, l'altro, furiosa, le ripigliava con maggiore strepito, dilatandosi il tumulto anche per lo Regno.

Mancava però un Capo, che con soda direzione regolasse la forza del volgo, il quale se cominciava con rumore, presto languiva, contento d'assaggiare la libertà con qualche insolenza. Ma la nobiltà, poco amata dal popolo, nemmen ella poteva fidarsi di tant'incostanza, e se pur alcuno volle applicar l'animo a servirsi dell'occasione, fu poi fuori di tempo. Tra l'istesso popolo, i più benestanti, esposti agli strazj de' più meschini, da' quali a capriccio venivan lor arse le Case, e saccheggiate le sostanze, sospiravano la quiete primiera. Alla plebe più vile s'univano i delinquenti, da' quali aperte le carceri si cercava franchigia de' debiti ed impunità de' delitti. Fu detto, che in una taverna gettassero alcuni le sorti di chi assumer dovesse la direzione della rivolta, e che toccasse a Giuseppe d'Alessi uno de' più abbietti. Costui molte cose ordinò, e molte n'eseguì d'importanti. Discacciò il Vicerè dal Palazzo, e lo costrinse ad imbarcarsi sopra le Galee del Porto; poi si compose con un trattato solenne, che al popolo concedeva tali privilegj ed esenzioni sì larghe, che anche in Repubblica libera sarebbero stati eccedenti; ma in fine mentre l'Alessi sta con guardie, e tratta con fasto, invidiato da tutti e resosi odioso a' suoi stessi, fu dal popolo ucciso. È però vero, che dal suo sangue di nuovo sorse la sedizione, perchè alcuni credendo, che dagli Spagnuoli gli fossero state tessute l'insidie, altri ambindo quel posto, fluttuarono grandemente le cose, e molto più furono agitate dappoi, che il Vicerè caduto infermo per afflizione d'animo, terminò la sua vita.

Lasciò los Velez il governo al Marchese di Monteallegro, che tutto tollerò per sostenere alla Spagna almeno l'immagine del comando, e guadagnar tempo, sino all'arrivo del Cardinal Trivulzio, che il Re gli avea destinato per successore. Giunto il Cardinale in Palermo mantenne in fede i Siciliani, ed acchetò i romori; tanto che portatosi poi a Messina D. Giovanni d'Austria coll'armata, confermò in quel Regno la quiete, e ridusse le cose in una total calma e tranquillità.

Ma nel Regno di Napoli, non avea tante fiamme il Vesuvio, quanti erano gl'incendj, ne' quali stava involto. In questo Regno, siccome da' precedenti libri si è veduto, avevano gli Spagnuoli riposti i mezzi principali della loro difesa, perchè fertile e ricco forniva danaro ed uomini ad ogni altra provincia assalita. Avrebbe la fecondità e l'opulenza supplito al bisogno, se l'avidità de' Ministri, sempre premendo, non avesse del tutto esauste ed espilate le ricchezze istesse della natura; ma in Ispagna essendo più stimato quel Vicerè, che sapeva ricavare più danaro, non v'era macchina, che non s'adoperasse, per aver il consenso della nobiltà e del popolo, ch'era necessario per deliberare l'imposte, e per cavarne la maggior somma che si potesse. Vendevansi le gabelle a chi più offeriva, e con ciò perpetuando il peso, s'aggravavano le estorsioni, perch'essendo i compratori stranieri, e per lo più Genovesi, avidi sol di guadagno, non era sorta di vessazione, che, trascurate le calamità de' miseri popoli, crudelmente non si praticasse. Non restava più, che imporre, e pur il bisogno cresceva: poichè tentato da' Franzesi Orbitello, ed occupato Portolongone, si richiedevano, e per supplire altrove e per difender il Regno, grandissime provvisioni.

Il Vicerè Duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del danaro, per porre in piedi nuove soldatesche, e mantenere in mare Armate, non essendo sufficienti le somme, che, senza impor nuovi dazj, pensava di ricavare dagli espedienti sopra accennati, venne alla risoluzione di convocare un Parlamento: dove avendo esposti li bisogni della Corona, e sopra tutto, che bisognava mantener eserciti armati per la vicinanza molesta de' Franzesi, annidati in Toscana, estorse un donativo d'un milione di ducati; ma per ridurlo in contanti era necessario venire all'abborrito rimedio delle gabelle. Con imprudente consiglio, scordatisi così presto di quel, ch'era accaduto sotto il governo del Conte di Benavente, fu proposta la gabella sopra i frutti, altre volte imposta e poi tolta, come gravosa per lo modo di praticarla, ed odiosa alla plebe, e più da lei sentita, quanto ch'ella nell'abbondanza del paese, e sotto clima caldo, non si nutre quasi d'altro alimento, massimamente nell'estate; ad ogni modo trovandosi tutte l'altre cose aggravate ad un segno, che non potevano sopportar maggior peso, vi diedero le Piazze l'assenso, ed il Vicerè abbracciò l'espediente. Ma pubblicato a pena, nel terzo dì di gennajo di quest'anno 1647, l'editto per l'esazione d'essa, che cominciò il Popolo a mormorare, e tumultuosamente ad unirsi, e sempre che usciva il Vicerè, circondavano il suo cocchio, ad alta voce gridando, che si levasse: s'udivano minacce tra' denti, si trovavano affissi molti cartelli, dove si esecrava la gabella, ed una notte fu bruciata la casa, posta in mezzo al Mercato, dove se ne faceva l'esazione.

Il Duca d'Arcos, temendo da tali insolenze disordini maggiori, fece trattar dalle Piazze l'abolizione della gabella, e cercare espedienti di soddisfare coloro, che avevano sopra di quella somministrato il denaro, con imposizione d'altre gabelle meno gravose; ma non si poteva rinvenir alcun mezzo, per le altre maggiori e più gravi difficoltà, che s'incontravano, volendo imporne altre nuove; onde tutte le assemblee riuscivano vane e senz'effetto; e tanto più crescevano i tumultuosi discorsi del popolo; nè mancavano malcontenti, che servivano di mantice per accender maggior fuoco, fra' quali il più istigatore era il Sacerdote Giulio Genuino, il quale avea a se tratti molti della sua condizione, e non men di lui d'ingegni torbidi e sediziosi. Fra la vil plebe era surto ancora un tal Tommaso Aniello, chiamato comunemente Masaniello, d'Amalfi, uomo vilissimo, che serviva ad un venditor di pesce a vender cartocci per riporvelo; giovane di primo pelo, ma vivace ed ardito, il quale, soprammodo crucciato dal pessimo trattamento, ch'era stato fatto da' Gabellieri alla moglie, trovata con una calza piena di farina in contrabbando, minacciava vendicarsene, e meditava di trovar occasione di suscitar in mezzo al Mercato qualche tumulto nel dì della festività del Carmine, solita celebrarsi nella metà del mese di luglio. A tal fine, col pretesto di doversi assalire un Castello di legno nel dì della festa, avea provveduto ad alcuni ragazzi di canne col denaro somministrato da Fr. Salvino Frate Carmelitano, il quale o per propria perfidia, o per suggestione de' malcontenti, era il principal istigatore e fomentatore al Masaniello di farsi Capo del meditato tumulto.

Ma non bisognò aspettare la metà di quel mese, perchè a' 7 di luglio un picciolo ed impensato accidente gli aprì la strada. Alcuni contadini della città di Pozzuoli, avendo la mattina di quel giorno portate alcune sporte di fichi al Mercato, erano sollecitati dagli esattori del dazio al pagamento; ed insorta contesa tra essi, ed i bottegai, che doveano comprarle, intorno a chi dovesse pagarlo; essendo accorso Andrea Nauclerio Eletto del Popolo a darne giudicio, decise, che conveniva si sborsasse da chi le portava dalla campagna: uno de' contadini, che non aveva danaro, versò con imprecazioni un cesto di fichi per terra, rabbiosamente calpestandoli. Accorsero molti a rapirli, con risa, altri con collera, ma tutti compatendo quel misero, ed odiando la cagione. Allo strepito essendo sopravvenuto Masaniello con altri ragazzi armati di canne, cominciarono tutti, da costui animati a saccheggiar il posto della gabella, scacciandone co' sassi i ministri. Da ciò accesi gli animi, ricevendo forza dall'unione e dal numero, svaligiarono tutti gli altri luoghi de' dazj; e guidati da cieco furore, senza saperne i motivi, nè discernere il fine, corsero al Palazzo del Vicerè con proteste d'ubbidienza al Re, ma con esclamazioni contro il mal governo.

Le guardie, deridendo quel puerile trasporto, non vi s'opposero, ed il Vicerè impaurito lo fomentò, esibendo prodigamente ogni grazia. Cresciuta con ciò la licenza, e cominciando i più risoluti a porre a sacco il Palazzo, egli tentò di salvarsi nel Castel Nuovo; ma trovato alzato il ponte, non sapendo per lo timore dove ridursi, corse in carrozza chiusa verso quello dell'Uovo: scoperto però dalla plebe, poco mancò, che non restasse oppresso, se non si fosse ricovrato nel Convento di S. Luigi, nè quivi tampoco sarebbe potuto giugnere, se per la breve strada non fosse andato gettando monete d'oro al popolo per trattenerlo, che non lo seguitasse. Di là fece sparger editti, che abolivano la nuova gabella delle frutta; ma ciò non ostante, il tumulto a guisa di un torrente che inondi cresceva, e suggerendo i più torbidi al volgo semplice varie cose, chiedevano ad alta voce, che si levassero tutte l'altre gabelle, e che si consegnasse al Popolo il privilegio di Carlo V. Quelli che lo dimandavano, sapevano meno degli altri dove fosse, e ciò che contenesse, perchè il dominio lungo degli Spagnuoli, e la sofferenza de' sudditi, abolita ogni memoria d'indulto, avea reso arbitrario ed assoluto il comando.

A tanta commozione essendo accorso il Cardinal Filomarino Arcivescovo, per quietar il tumulto, s'interpose col Vicerè: il quale trovandosi in quell'arduo procinto, in cui era pericolosa la severità e l'indulgenza, e se si negava ogni cosa, e se tutto si concedeva: credè in fine meglio consegnargli un foglio in cui prometteva quanto sapevan pretendere, con speranza, che sedato il romore, e sciolta l'unione di que' scalzi, tutto prestamente si rimettesse in buon ordine e quiete. Ma il contrario avveniva, perchè la maggior parte confusa da que' fantasmi di libertà, senza saper ciò che volesse, voleva più, onde il male peggiorava coi rimedj, e s'irritava co' lenitivi.

Scoppiò in oltre l'odio fierissimo, che la plebe contro la Nobiltà lungo tempo nutrito avea: onde i sollevati scorrendo per le strade, trucidarono alcuni Nobili, arsero le case d'altri, proscrissero i principali, e bramando di sterminarli tutti, stava la città in procinto d'andar a fuoco, ed a sangue. E pure il Popolo stolto credeva di mantenersi fedele al Re, e solo di correggere il cattivo governo, e risentirsi de' strazj patiti da' Nobili superbi e da' Ministri malvagi.

Masaniello lacero e seminudo, avendo per teatro un palco e per scettro la spada, con centocinquantamila uomini dietro, armati in varie foggie, ma tutte terribili, comandava con assoluto imperio ogni cosa. Egli Capo de' sollevati, anima del tumulto, suggeriva le pretensioni, imponeva silenzio, disponeva le mosse, e quasi che tenesse in mano il destino di tutti, trucidava co' cenni, ed incendiava co' sguardi; perchè dove egli inchinava, si recidevan le teste e si portavan le fiamme. Il Vicerè per tanto, per la mediazione del Cardinal Arcivescovo, fu indotto a dar in potere del Popolo istesso il privilegio richiesto, ed accordare un solenne trattato, in cui s'abolivano quelle gabelle, ch'erano state imposte dopo le grazie di Carlo V, e si proibiva d'imporne nell'avvenire altre nuove: si concedeva parità di voti al Popolo con la Nobiltà: si prometteva oblivion d'ogni cosa, e si permetteva, che ne' tre mesi, ne' quali si doveva attendere la confermazione del Re, stesse armata la plebe. Fu tutto ciò ratificato con solenne giuramento nella Chiesa del Carmine, onde si diede qualche breve respiro.

(Questa Capitolazione contenente 23 articoli e cinque altri aggiunti, fu per la mediazione del Cardinal Filomarino accordata ai 13 luglio 1647 tra 'l Vicerè e Masaniello, il quale intervenne come Capo del fedelissimo Popolo e si legge presso Lunig.)

Masaniello onorato dal Vicerè con eccessi, siccome sua moglie dalla Viceregina, gonfio di vanità cominciò ad agitarsegli la mente, e finalmente dalle vigilie e dal vino ridotto a delirare, fatto insopportabile a' suoi e contra tutti crudele, fu la mattina de' 16 di luglio da gente appostata nel Convento del Carmine ucciso, siccome fu fatto d'alcuni altri de' suoi confidenti, e dal vedersi, che la plebe non fu niente commossa dalla sua morte: anzi pareva, che godesse alla vista del teschio conficcato ad an palo, si credeva che fosse ogni cosa per ridursi in buon ordine e quiete.

Ma con dannosa imprudenza, strapazzati da' Nobili alcuni di que' della plebe, e con peggior consiglio il giorno susseguente essendosi diminuito il peso del pane, si risvegliò il tumulto con tanto furore, che disotterrato il cadavere dell'ucciso e preso il teschio, unendolo al busto, fu esposto con lumi accesi nella Chiesa del Carmine, nè sarebbe cessato il concorso del popolo e la curiosità di vederlo, se con solennissime e regali esequie, a guisa di Capitan Generale non fosse stato sepolto; ed immantenente fu occupato dal Popolo il torrione del Carmine, e presi altri siti opportuni per dominar il Porto, ed opporsi alle batterie de' Castelli.

Il Duca d'Arcos ritiratosi in Castel Nuovo, lo trovò sguarnito d'ogni cosa, e così erano tutti gli altri poichè per accudire a' bisogni lontani, avevano i Vicerè indebolito il freno della città, e la custodia del Regno. Mancava il denaro, niuno osava più esiger le rendite, e tutti con pari licenza ricusavano di pagare l'imposte. Le milizie erano già state spedite a Milano, ed alcuni pochi fanti chiamati dalle province, furono da' popolari per cammino battuti e sbandati. Dilatandosi poi per lo Regno la fama de' successi della città, siccom'erano per tutto universali le cagioni, così non furono dispari gli avvenimenti; poichè in ogni luogo, scosso il giogo delle gabelle, e sollevandosi il Popolo contra l'insolenza de' Baroni, si riempirono le province di tumulti e di stragi.

Fu perciò costretto il Vicerè a' 7 di settembre a giurare un altro accordo più indegno del primo.

(Questa seconda Capitolazione contenente 52 articoli è stata anche impressa da Lunig, e si legge Tom. 2 pag. 1374).

Ma il Popolo sempre temendo, ed il Duca niente dissimulando, non ebbe più lunghi periodi la calma. Passandosi adunque, come suole accadere, dal tumulto alla ribellione, dimandavano i popolari al Vicerè i Castelli, e non volendo egli dargli, si venne all'attacco. Egli è certo, che se allora quella gente infuriata avesse avuto un corpo di ben disciplinate milizie, ed un Capo sperimentato e fedele, avrebbe espugnati i Castelli, e quindi discacciati gli Spagnuoli dal Regno. Ma dal Popolo abborrendosi il nome di soccorso straniero, e coll'oggetto di libertà immaginaria tendendo a più misera servitù, fu scelto (essendosene scusato Carlo della Gatta) per Capitan Generale Francesco Toraldo Principe di Massa, che n'accettò il carico di concerto col Vicerè. Egli ritardando con apparenza di meglio assicurarsi gli attacchi, e con errori volontarj e mendicate dilazioni, guastando ogni cosa, non potè finalmente a tanti occhi occultare l'inganno: onde imputato d'intelligenza con gli Spagnuoli, con miserabile supplicio dalla plebe arrabbiata fu trucidato.

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