CAPITOLO IV.

Stato della nostra Giurisprudenza nel Regno di Filippo III e IV e de' Giureconsulti ed altri Letterati che vi fiorirono.

La Giurisprudenza presso di noi, così ne' Tribunali, come nelle Cattedre, non prese a questi tempi nuove forme, ma continuò, siccome per lo passato, ad esser maneggiata da' Professori nel Foro con modi inculti, e da' Cattedratici all'usanza delle altre Scuole, senza che l'erudizione vi avesse ancora posto piede. Ma il numero de' Professori fu assai maggiore e molto più degli Scrittori, i quali compilarono a questi tempi tanti trattati, consigli, allegazioni, ed altre opere legali, che se ne potrebbe formare una mezza libreria. Il lor numero crebbe tanto, che delle loro opere, che diedero alla luce, non se ne può ora tener più conto, essendo infinite; onde saremo contenti di nominarne alcuni i più famosi, che dieder saggio per le opere lasciateci, quanto in Giurisprudenza intendessero; e se bene ve ne fiorissero altri di non inferior dottrina, anzi a molti di costoro superiori, conoscendo nondimeno di quante parti sia di mestieri esser fornito colui, che intende dar fuori li parti del suo ingegno, forse con miglior consiglio stimarono di non esporre le loro fatiche alla pubblica luce del Mondo.

È veramente cosa da notare, che con tutto che il Regno si fosse veduto per tante rivolte, per tante calamità e disordini, così miseramente travagliato, ed involto in tante sciagure; ad ogni modo il numero dei nostri Professori non solamente non si vide scemare, ma tanto più crescere e moltiplicarsi. Ma non parrà ciò cosa strana a chi considera, che per questo istesso, che le cose furono in rivolta, che i disordini crebbero, che i vizj, le malizie e le frodi abbondarono, perciò doveano crescere i Professori e' Curiali, de' quali allora si avea maggior bisogno. Dove sono molte infermità è di mestieri, che vi siano molti medici, così corrotta la disciplina, è duopo, che si ricorra alle leggi, ed a' Professori di quelle, per far argine a più gravi disordini, come si possa il meglio.

Fra tanti merita il primo luogo Scipione Rovito. Nacque egli in Tortorella picciola terra della provincia di Basilicata; e venuto in Napoli, essendo di tenue fortuna, visse quivi in umilissimo stato, esercitandosi ne' nostri Tribunali da Procuratore: ma essendo uomo di molta fatica nello studio legale, puntuale e d'integrità di costumi, cominciò a poco a poco a difender qualche causa; e diede poscia in luce i suoi primi Commentarj sopra le Prammatiche, ne' quali non isdegnò, in que' principi, di ponere il nome della sua Patria, come che poi nella seconda edizione si chiamasse Napoletano. Preso per ciò qualche nome, si pose in riga d'Avvocato, e patrocinò molte cause de' primi Signori del Regno, come si vede da' suoi Consigli, e fece per conseguenza nobil acquisto di fama e di ricchezze. Fiorirono ancora a' suoi tempi tre altri celebri Avvocati, Gio Battista Migliore (quegli che, come altrove si disse, fu mandato in Roma dal Cardinal Zapatta Vicerè al Pontefice Gregorio XV per affari di Giurisdizione). Ferrante Brancia, nobile di Surrento, che morì vecchio Reggente, e Camillo Villuno , li quali insieme con Scipione Rovito nell'anno 1612 dal Conte di Lemos, successore del Conte di Benavente, furon fatti Consiglieri, unicamente per la lor dottrina e merito, senza che n'avessero avuta alcuna antecedente notizia. Nel tempo, che il Rovito fu Consigliere, acquistò fama non men di dotto, che di savio e prudente; onde come si è veduto ne' precedenti libri, non v'era affare di momento, che a lui non si commettesse. Passò poi Presidente in Camera, e dopo alquanti anni nel 1630 fu promosso alla suprema dignità di Reggente, esercitata da lui con fama forse di soverchia austerità; e Pietro Lasena, che fu suo amicissimo, attestava al famoso Camillo Pellegrino, da chi l'intese Francesco d'Andrea, che nella morale affettava esser seguace della dottrina degli Stoici; ancorchè il rigore che usava con altri, nol seppe praticare nella casa sua, poichè benchè avesse più figliuoli, non ebbe motivo per la troppo indulgente educazione di molto rallegrarsi d'avergli avuti. Di lui, oltre i Commentarj sopra le nostre Prammatiche ed i suoi Consigli, si leggono ancora le Decisioni, che furono impresse in Napoli l'anno 1633, e finalmente grave già d'anni, e travagliato di molte infermità, rendè lo spirito nel mese di giugno dell'anno 1638, e giace sepolto nella casa Professa de' PP. Gesuiti di questa città.

Non fu per indefessa applicazione a lui disuguale Carlo Tappia, il quale, per le elaboratissime opere, che ci lasciò, spezialmente per quella del Codice Filippino, merita essere annoverato fra' primi Giureconsulti, che fiorissero a questi tempi. Fu egli figliuolo d'Egidio Tappia Presidente di Camera, e dopo aver girato, come Auditore, per varie province del Regno, fatto poi Giudice di Vicaria, fu nell'anno 1597 creato Consigliere. Nel 1612 passò in Madrid Reggente nel supremo Consiglio d'Italia, e finalmente nel 1625, tornò in Napoli Reggente di Cancelleria, dove per molti anni esercitò il posto, e morì poi Decano del Collaterale a 17 gennajo dell'anno 1644, essendo stato sepolto nella Cappella sua gentilizia, posta nella Chiesa di S. Giacomo degli Spagnuoli. Oltre il suo Codice, e le Decisioni, ci lasciò molte altre sue operette, delle quali il Toppi fece catalogo. Fu uomo, per la sua canizie, e per una somma gravità in tutte le cose, tenuto in gran venerazione da nostri Vicerè, e da tutti gli Ordini del Regno; e per la sua instancabile applicazione, senza che gli si vedesse prender mai un'ora di riposo, acquistò nome di Ministro laborioso, ancorchè in dottrina avesse molti che lo superavano.

Celebri ancor furono Marcantonio de Ponte, che ascese anche per la sua dottrina al grado di Presidente del Consiglio. Pietrantonio Ursino, profondo Giureconsulto, come lo dimostra il suo trattato: De successione Feudorum, ancor egli Presidente; ed Andrea Marchese.

Rilusse ancora a questi tempi Gianfrancesco Sanfelice del Sedile di Montagna, il quale, dopo avere nelle Audienze Provinciali, e nella Gran Corte della Vicaria dato saggio de' suoi talenti, fu nell'anno 1619 creato Consigliere. Da poi nel 1640, ascese alla suprema dignità di Reggente; ma si rese assai più famoso per le opere da lui date alla luce, come delle Decisioni , comprese in due volumi e della Pratica Giudiciaria, che si diede poi alle stampe nell'anno 1647. La sua vita non fu che una indefessa applicazione a governar la città nelle cose criminali, e fu insigne per l'innocenza de' costumi, e per l'integrità della vita, non discompagnata dalla dottrina, come lo dimostrano i suoi tomi delle Decisioni. Fu severissimo nel castigare i delitti, ma con tal tranquillità, che quando condannava rei, pareva che gli assolvesse; nè fu meno ammirabile per l'indicibil pazienza, con la quale ascoltava tutte le differenze che succedevano in Napoli, anche tra povere donnicciuole, e tra persone d'infima plebe, e per l'equità nel determinarle: sicchè la sua vita potea dirsi un continuo esercizio di amministrare a tutti indifferentemente giustizia. Fu anche Provicecancelliere del Collegio de' Dottori, il quale ufficio non isdegnò d'esercitarlo anche fatto Reggente, mentre il Vicecancelliere era il Duca di Caivano Segretario del Regno.

Non men celebre fu Ettorre Capecelatro Cavaliere del Seggio di Capuana, il quale datosi all'avvocazione, vi fece notabili progressi. Da' due volumi, che ci lasciò delle sue Consultazioni, si vede, che alla di lui difesa furono appoggiate cause di grandissima importanza: ed ancorchè non avesse avuta molta felicità nell'orare, suppliva al difetto dell'eloquenza con la dottrina e colla fatica. Fu poi nel 1631 creato Consigliere, esercitando il posto con pari decoro ed integrità. Trasportato poi dal desiderio di divenir Reggente, non ebbe riparo di portarsi in Ispagna con titolo d'Ambasciadore della città, contro il voto della sua medesima Piazza, ad istanza del Duca di Medina Vicerè, per opporlo al Duca di S. Giovanni, andatovi poco prima col medesimo titolo, per rappresentare in nome della Nobiltà alcuni aggravj pretesi essersi inferiti a quella dal Vicerè. L'occasione fu, ch'essendo, siccome si è veduto ne' precedenti libri, comparsa l'armata di Francia ne' nostri mari, il Duca di Medina, per maggior difesa, diede l'armi al Popolo sotto i suoi Capi popolari, con governo independente dalla Nobiltà. Pretesero le Piazze Nobili, che ciò fosse contro l'antico stile: onde destinarono Ambasciadore in Ispagna il Duca di S. Giovanni in nome della città per gravarsene; ma il Popolo pretese, che le Piazze Nobili non potessero rappresentar città quando si trattava d'una particolar differenza tra la Nobiltà ed il Popolo; onde il Duca di Medina, non avendo fatto ricevere in Ispagna il Duca di S. Giovanni come Ambasciadore, proccurò dal Popolo, e dall'altre tre minori Piazze, che si mandasse un altro Ambasciadore per altri negozj universali della città, e che s'eleggesse il Capecelatro, ancorchè le Piazze di Capuana e di Nido vi dissentissero, dicendo non riconoscere altro Ambasciadore, che il Duca di S. Giovanni. Andò per tanto il Consigliere in Ispagna, ed avendo ivi con felice esito terminati i suoi affari, se ne ritornò in Napoli colla mercede del titolo di Marchese del Torello, e l'altra della prima piazza di Reggente, che fosse vacata, della quale anticipatamente glie ne fu data dal Vicerè la possessione, con titolo di Proreggente, e dalla Corte fu dichiarato Reggente sopranumerario; e finalmente fu dichiarata la piazza ordinaria, da poi che s'aggiunse la terza piazza spagnuola ad istanza della Corona di Aragona. Sopravvisse nel posto molti anni, e mandato due volte in Foggia dal Conte d'Onnatte per rimettere in piedi le rendite di quella Dogana, che per le passate revoluzioni stavano non mediocremente turbate, fu fama, che cumulasse gran contante. Morì egli a' 10 d'agosto dell'anno 1654, ed oltre averci lasciati i volumi delle sue Consultazioni, ch'e' dedicò al Re Filippo IV, ci diede ancora le sue Decisioni, che ora colle addizioni di Michelangelo Gizzio, girano attorno per le mani de' nostri Professori.

Fiorì ancora a questi medesimi tempi Fabio Capece Galeota del Seggio di Capuana. Costui, applicatosi all'avvocazione, riuscì assai celebre per dottrina, e per efficacia nel rappresentare: fu assai dotto nelle materie legali, come lo dimostrano le sue Controversie, ed i suoi Responsi Fiscali; onde per la sua dottrina fatto Giudice di Vicaria, passò tosto Consigliere del Consiglio di S. Chiara. Fu da poi eletto per Avvocato Fiscale del Regal Patrimonio nel Tribunal della Regia Camera, dove poi fu Presidente; indi fu innalzato alla suprema dignità di Reggente del supremo Consiglio d'Italia, e ritornato di Spagna con titolo di Duca della Regina, sedè per breve tempo nel nostro Consiglio Collaterale; poichè mandato dal Vicerè in Foggia, per riordinare quella Dogana, morì quivi ai 15 dicembre dell'anno 1645, e fu depositato il suo cadavere nella Chiesa de' PP. Domenicani di quel luogo. Mentre fu Avvocato diede alle stampe un assai dotto Responso per lo Duca di Gravina sopra la successione del Principato di Bisignano; ed essendo Consigliere, e poi Avvocato Fiscale, diede alla luce il trattato: De officiorum, ac regalium prohibita sine Principis authoritate commutatione, et alienatione. Nel tempo, che fu Presidente di Camera diede fuori le Controversie, dove si veggono trattate cause arduissime, che furon agitate, non meno ne' nostri supremi Tribunali, che nel supremo Consiglio d'Italia, che egli divise in due tomi stampati in Napoli nel 1636. Li Responsi Fiscali, che e' compilò per difesa de' diritti del Patrimonio Regale, essendo Avvocato Fiscale, furon da lui dati alle stampe in Napoli nel 1645, anno della sua morte. Oltre a ciò avendosi egli, mentr'era Avvocato, presa in moglie l'erede di Camillo de' Medici celebre Avvocato de' suoi tempi, come si vede da' suoi Consigli, tanto che meritò, ancorchè fosse di Gragnano, d'esser dichiarato dal Gran Duca di Toscana della sua Famiglia, con una Commenda della sua Religione di S. Stefano: ebbe la cura di raccorre i di lui Consigli in un giusto volume, ed avendovi fatte alcune Addizioni, con aggiungervi ancora la vita di Camillo, lo fece dare alle stampe in Napoli l'anno 1633, dedicandolo a Ferdinando II de' Medici Gran Duca di Toscana.

Fa di mestieri, che qui della meritata lode non si defraudino i famosi Marciani, dotti e profondi nostri Giureconsulti. Marcello Marciano rilusse nel nostro Foro non men essendo Avvocato, che Consigliere. Nell'avvocazione meritò i primi onori, e fece per ciò acquisti di molte ricchezze. Fu riputato non men dotto che grande Oratore, come lo dimostrano i suoi Consigli. Ma innalzato poi alla dignità di Consigliere a' 3 di novembre dell'anno 1623, fu esercitato da lui il posto con integrità e soddisfazione indicibile. Ci lasciò egli due volumi di suoi sublimi Consigli, ma molto più se gli dee per aver di se lasciato Gianfrancesco di lui figliuolo.

Riuscì Gianfrancesco Marciano non men dotto del padre e nel Foro, ebbe grido di famoso avvocato, come lo dimostrano i due tomi delle sue Controversie, che ci lasciò; e se bene non avesse avuto nel patrocinar le cause molta eloquenza, nello scrivere fu molto profondo e dotto. Fu creato Consigliere a' 10 maggio dell'anno 1645, e dopo avere con molto applauso esercitata per dieci anni tal carica, fu innalzato alla dignità di Reggente nel 1655, benchè sopraggiunto poco da poi dalla morte non godesse del Reggentato, che le congratulazioni degli amici.

Lasciò pure costui un altro Marcello, erede non men delle virtù che delle speranze paterne, il quale, imitando le vestigia de' suoi maggiori, si diede ne' suoi primi anni all'avvocazione, nella quale non gli mancò alcuna di quelle parti, che ricercansi per riuscir grande in tal professione: ebbe egli gran capacità, gran dottrina e ardire e grande erudizione, ed in età assai giovanile gran maturità di giudizio. Fu egli, proccurandoselo, fatto assai giovane Giudice di Vicaria dal Conte di Castrillo: poco da poi dal Conte di Pennaranda fu fatto Consigliere, e dal medesimo fu poi mandato in Camera per Avvocato Fiscale, donde nei principj del Governo di D. Pietro d'Aragona, andò Reggente in Ispagna, e quivi di là a non molto se ne morì. Lasciò figliuoli di assai poca età, ma il di lui primogenito Francesco non interruppe il corso; poichè imitando ancor egli i suoi antenati, riuscì famoso Avvocato, poi Giudice, ed indi fatto Consigliere giunse pure al Reggentato, ma per fatalità di questa Casa, ancor egli passato in Ispagna, di là a poco ivi traspassò: tal che essendo questa casa per lo spazio poco men di cento anni stata Senatoria, rimane ora chiusa ed estinta.

Fiorirono ancora non men per dottrina, che per li posti che occuparono, altri insigni Giureconsulti. Francesco Merlino, ancorchè non gli paresse avviarsi per la strada dell'avvocazione, ma per quella degli Ufficj, riuscì dotto Ministro, e si rese presso noi celebre, non men per le cariche che sostenne, che per le opere che ci lasciò. Fu egli un privato gentiluomo di Sulmona, di famiglia però nobile ed antica in quella città: sua madre fu figliuola del Marchese di Paglieta Pignatelli e di Beatrice Tappia, sorella della madre del Reggente Tappia, per la quale si professava egli di lui nepote, e per ostentazione del quarto materno s intitolò sempre Merlino Pignatelli. Col favore del Reggente Tappia suo zio, stimò non aver bisogno dell'Avvocazione per avanzarsi; onde andato prima Auditore in Salerno, e fatto poi Giudice di Vicaria, e poi Commessario di Campagna, in brevissimo tempo fu creato Consigliere. Per essere stato creatura del Conte di Monterey, fu poco grato al Duca di Medina, onde per la medesima ragione portossi in tutti i posti con somma lode di valore, integrità e dottrina; onde, che a suoi due tomi delle Controversie, tra moderni Scrittori del Regno, comunemente si dà il primo luogo. Fu da poi eletto Reggente supremo del Consiglio d'Italia, e tornato di Spagna, fu nell'anno 1648 decorato della dignità di Presidente del S. C. esercitata da lui con molto decoro e gravità. Morì egli pochi anni da poi nel sesto dì di settembre dell'anno 1650, e fu seppellito nella sua Cappella dentro la Chiesa de' Padri Gesuiti della lor Casa professa.

Essendo stato creato il Reggente Merlino Presidente del S. C. fu eletto in suo luogo per Reggente in Ispagna Giancamillo Cacace, che si trovava allora Presidente di Camera. Era egli un famoso Avvocato de' suoi tempi, assai celebre per la dottrina e per l'arte del dire, il qual soleva pregiarsi, che mentr'era Avvocato non vi era stato Signore nel Regno che non fosse venuto a prender consulta in casa sua. Il di lui padre fu di Castell'a Mare e d'ordinarj natali; ma venuto in Napoli, ed acquistate mediocri ricchezze, furon quelle poi da lui eccessivamente accresciute col guadagno dell'Avvocazione, e con una somma parsimonia. Fu da poi fatto Avvocato Fiscale di Camera, e poi Presidente; ed eletto Reggente per Ispagna, per un indicibil abborrimento, ch'ebbe a viaggiar per mare, rinunziò il posto, ed in suo luogo fu eletto il Reggente Tommaso Brandolino; ma di là a pochi anni fu eletto di nuovo Reggente per Napoli, concedutosi ciò per suoi meriti, senz'obbligazione d'andare in Ispagna. Fu di genio assai tetro, ed abborrì sempre l'ammogliarsi; onde poco appresso essendo morto, e non avendo chi lasciar erede delle sue facoltà, fondò di sua roba un Monastero di donne povere, detto dei Miracoli, che a tempo de' nostri maggiori si chiamava pure il Monastero di Cacace.

Rilussero ancora i Consiglieri Filippo Pascale, patrizio Cosentino, famoso Avvocato e celebre pe 'l suo trattato: De viribus patriae potestatis. Ma sopra costui s'innalzaron per dottrine Scipione Teodoro, ancor egli rinomato Avvocato e celebrato per le sue Allegazioni, che ci lasciò. Tommaso Carlevalio per le opere impresse, e sopra tutto pe 'l suo trattato De Judiciis, si distinse parimente infra gli altri; e molti ve ne furon ancora, che per mezzo delle stampe lasciaron a' posteri memoria del lor nome, e quanto valessero nella profession legale. Ma oscurò tutti costoro il celebre Orazio Montano, per profondità di sapere, per eleganza e per somma perizia di ragione, non men civile che feudale.

Chiuda per ultimo la schiera Donat'Antonio de Marinis. Nacque egli in Giungano picciola Terra del Regno in Principato citra, e venuto in Napoli, assai sottilmente menando la vita, si diede con molta applicazione agli studj legali, dove vi fece notabili progressi, e non avendo avuta abilità alcuna nell'arringare in Ruota si diede a scrivere in alcune cause, donde compilò poi il primo Tomo delle sue Resoluzioni. Coll'integrità de' costumi, e con una sua maniera libera e lontana da ogni affettazione, si rendè grato a tutti gli Avvocati più principali de' suoi tempi, sicchè in tutte le cause era chiamato a collegiare; onde cresciuto d'opinione, cominciò ancor egli a difendere qualche causa, e diede in luce il II Tomo delle Resoluzioni. Fiorivano a' suoi tempi molti rinomati Avvocati, come Raimo di Ponte, Francesco Rocco, Francesco Maria Prato, Antonio Fiorillo, Ortensio Pepe, Ascanio Raetano, Paolo Giannettasio e Giovan Battista Odierna, li quali dal Conte di Castrillo a' 15 di maggio del 1654 volendo riordinare il Tribunal della Vicaria, furon fatti Giudici, e con essi anche il Marinis, li quali poi tutti passarono a posti supremi. Donat'Antonio nell'anno 1656 fu creato Presidente della Regia Camera, dove con somma integrità ed indefessa applicazione esercitò il posto insino all'anno 1661, nel qual tempo diede fuori i due volumi delle Decisioni del Reggente Revertero, che correndo M. S. per le mani d'alcuni, egli le accorciò e fecevi sue Addizioni, le quali insieme con gli Arresti, ovvero Decreti generali della Regia Camera, fece imprimere in Lione l'anno 1662. Raccolse ancora molte Allegazioni, così sue, come degli altri Avvocati suoi coetanei, o che fiorirono prima di lui, le quali per opera sua furon poi date alle stampe. Essendo Presidente di Camera e Vicecancelliere del Collegio de' Dottori fu nominato, nel 1661, Reggente nel Supremo Consiglio d'Italia e portatosi in Ispagna, ritornò poi in Napoli Reggente del nostro Collaterale a' 25 di febbrajo dell'anno 1665. Visse egli celibe e con somma parsimonia, tanto che potè cumulare qualche contante. Ma se mentre fu Avvocato seppe resistere agl'impulsi della natura, fatto Ministro, sconoscendo i suoi e la patria, non seppe star saldo al vento della vanità; poichè gli entrò in testa, d'esser egli disceso da' Marini di Genova, raccogliendo scritture dell'archivio, che a tal effetto gli eran somministrate dall'Archivario Vincenti, e venuto a morte a' 26 d'aprile del 1666 in età di 67 anni, immemore della patria e de' suoi, lasciò erede di tutti i suoi beni, che consistevano in contanti ed in una buona libreria, i Padri Scalzi di S. Teresa sopra i Regj Studj, per ambizione che gli rizzassero una statua di marmo, come fecero nella lor chiesa.

I. L'Avvocazione in Napoli si vide a questi tempi in maggior splendore e dignità.

Per le cagioni ne' precedenti libri accennate, essendosi questa Città per la sua ampiezza e magnificenza e per lo gran numero di suoi Nobili e Cittadini resa uguale alle maggiori Città del Mondo, e divenuta Capo e Metropoli d'un non men grande, che nobilissimo Regno, pieno d'un maraviglioso numero di Baroni, di Principi, di Duchi, di Marchesi e di Conti; e tenendovi ancora in quello interessi considerabili molti altri Principi Sovrani, e le Corone istesse d'Europa, come il Re di Polonia, Savoja, Neomburgh, Toscana, Modena, Parma, ed altri; e dove tutte le cause si giudicano dal Consiglio di S. Chiara, maggiore anche, per questo riguardo, del Parlamento di Parigi, che non tiene alcuna autorità sopra gli altri Parlamenti del Regno di Francia: l'Avvocazione presso di noi crebbe in somma stima, e riputazione. E maggiore si vide a questi tempi, quando per le tante rivoluzioni, calamità e disordini accaduti, fu veduto il Regno tutto pieno di liti, e si suscitarono cause di Stati grandissimi e d'eredità opulentissime; onde gli Avvocati crebbero assai più di stima per lo bisogno, che se n'avea nella difesa delle cause, nel consigliare i loro testamenti, i contratti, e di regolare le loro case, dipendendo da' loro consigli le facoltà, non men dei signori, che de' privati, ed anche de' principi sovrani, per gl'interessi che vi tengono. Quindi grandemente si offesero quando nel 1629 il Duca d'Alcalà Vicerè voleva obbligargli ad esporsi ad esame, e si risolsero concordemente d'astenersi più tosto da esercizio cotanto nobile, che sottoporsi ad una tal vergognosa censura. Antonio Caracciolo, famoso Avvocato di que' tempi, sostenne nel Collateral Consiglio le costoro ragioni; e di fatto, per non ricevere quest'oltraggio, s'astennero d'andare più a' Tribunali; e Giovan Vincenzo Macedonio, fermo nella sua deliberazione, contentossi di non far più l'Avvocato, per non si sottomettere a questa censura. Quindi è, che tuttavia i primi Baroni del Regno cercan d'avergli benevoli, ed in qualunque occasione, che loro si presenta, fanno per li loro Avvocati ciò, che non farebbero per se medesimi: trattano con loro con sommo rispetto, nè solamente danno loro il primo luogo nelle loro carrozze, ma frequentano le loro Case, e si sentono favoriti, qualora in concorso d'altri sono preferiti nell'udienze.

Rilussero ancora più gli Avvocati in questi tempi, perchè pian piano andavansi dirozzando di quella prima ruvidezza; e quando prima, per avvezzarsi a parlar bene, il loro studio era solamente posto nelle orazioni del Cieco d'Adria, essendosi nel principio di questo secolo, cioè nel 1611 aperta in Napoli l'Accademia degli Oziosi cominciavano ad avvezzarsi meglio nell'arte dell'eloquenza, con andarsi sempre più la nostra natia favella depurando dall'antica rozzezza; e se bene, come suole accadere in tutte le arti, in questi principj i nostri Avvocati non acquistarono gran fama di Oratori, e pure, secondo la testimonianza, che a noi ne rendè l'eloquentissimo Francesco d'Andrea, fiorirono a' questi principj tre famosi Avvocati, insigni per la fama d'eloquenza. Antonio Caracciolo, che fu poi Reggente, era comunemente chiamato fiume d'eloquenza, essendo dotato d'una vena naturale, ed abbondante, che accompagnata da non affettata modestia e da una gratissima maniera di rappresentare, rapiva gli animi di chi l'ascoltava. Giovanni Camillo Cacace, pur egli, come si è detto, innalzato poi al Reggentato, non dovea niente alla natura, ma tutto all'arte, ed essendo per natura timido, prese animo di darsi all'Avvocazione da due orazioni, che fece nella Accademia degli Oziosi con molto plauso: onde poi anche nelle cause si premeditava il discorso a mente con eloquenza più regolata che abbondante, ma con maggior dottrina, ed argomenti più efficaci del Caracciolo. Octavio Vitagliano (che poco curando il Ministerio, co' denari guadagnati coll'Avvocazione fondò la Casa de Duchi dell'Oratino) fu come un mezzo tra il Caracciolo e Cacace: ebbe discorso vigoroso e naturale, ma non avea nè la dolcezza del primo, nè tutta la dottrina del secondo.

Ne' tempi che seguirono, narra l'istesso Francesco d'Andrea, che essendo egli giovane, ebbe occasione d'ammirare D. Diego Moles padre del Reggente Duca di Parete: avea egli nobile aspetto, gratissima voce, e si spiegava nobilissimamente, e senz'affettazione: ardeva dove bisognava: le parole erano anche scelte e proprie; ed in somma, egli dice, che non sapeva altro, che desiderarvi: Pietro Caravita, pur famoso Avvocato di questi tempi, ch'era emolo del Moles e lo superava in dottrina, ma di lunga inferiore nell'arte del dire, non d'altro il censurava, che dell'impararsi a mente il discorso: ciò che se era vero, tanto maggiore era il suo artificio, poichè non se gli conosceva, e pareva, che le parole se gli suggerissero nel medesimo tempo che le diceva. Comunemente però era stimato più facondo Gerolamo di Filippo, Fiscal di Camera e poi Reggente, il quale aveva una affluenza naturale, accompagnata ancora dall'arte, ed una maniera più dolce ed affabile; ma secondo il giudicio, che ne dà l'Andrea, poco imprimeva, ed era affatto privo di que' requisiti tanto necessarj ad un perfetto Oratore: il suo discorso era più pieno di parole, che di cose, tal che il Conte di Pennaranda soleva di lui dire, mentr'era Avvocato Fiscale in Camera, che avea molti pampani, e poca uva; onde di forza, e di efficacia nel dire non poteva paragonarsi col Moles.

Fiorirono ancora a questi tempi Giulio Caracciolo, di cui l'Andrea dice, che avea anche un discorso aggiustato, tal che pareva premeditato; non avea però molta facondia, ma suppliva col decoro e con certo contegno di cavaliere; e per la qualità della nascita prese gran nome tra la Nobiltà; ma morto quasi nel principio della sua carriera, fu più famoso per quel che si stimava che avrebbe fatto, che per quel che fece. Bartolommeo di Franco acquistò pur nome di grande Avvocato, ma solo nelle cause de' rei avea una maniera sua propria, colla quale parlava le tre e le quattro ore, senza però dispiacere; fu più famoso però per le minuzie, che osservava ne' processi, e per li difetti, che apparivano intorno l'ordine giudiciario, che per rappresentar bene la giustizia, che il più delle volte non avea; tal che il Consigliere Arias de Mesa soleva dire, ch'egli avrebbegli data una cattedra primaria de Ordine Judiciorum con duemila ducati di salario l'anno per istruire gli Avvocati e Proccuratori; ma gli avrebbe impedito l'uso dell'Avvocazione. Francesco Maria Prato credea essere un grand'Oratore; ma a giudicio dell'Andrea e di tutti gli altri, non potea riporsi nè anche tra' mediocri: avea egli una maniera affettata, ed un accento Leccese, che più tosto lo rendea ridicolo, benchè non gli mancasse dottrina, per quant'era necessario all'uso del Foro e dell'orare. Si pregiava di parlar Spagnuolo; onde due cause celebri, che si trattarono in Collaterale in presenza del Vicerè Duca d'Arcos, le parlò in lingua spagnuola: ciò che non s'era fatto da nessun altro prima, com'egli se ne pregia in uno de' suoi volumacci dati alle stampe; ma le perdè tutte due, ed una fu quella della Congregazione di S. Ivone, che la guadagnò l'Andrea, essendo ancor giovane d'età di 22 anni, contro i PP. Gesuiti, che volevano aprirne un'altra del medesimo istituto nella Casa professa, della quale il Reggente Capecelatro nel suo secondo tomo ne porta la decisione. Paolo Malangone pur presso il volgo s'acquistò fama d'un grand Oratore, per un suo discorsetto pulitino rappresentato con grata e piacevole voce, ma nudo affatto d'ogni dottrina, anche della più comunale; onde non si ravvisava in lui cosa, che non fosse sotto assai la mediocrità, non consistendo l'eloquenza nelle sole parole, ma assai più nel vigore e nella robustezza delle ragioni. Fabio Crivelli avea pure una vena abbondantissima, sicchè parlava le tre e le quattro ore senza stancarsi, e per far pompa della sua abilità solea ripetere tutto ciò che s'era detto dall'Avversario e spesso con maggior giro di parole, per poi doverlo confutare.

Più di costoro rilusse in questi medesimi tempi il famoso Giuseppe di Rosa, poi Consigliere, celebre per le sue dotte, e profonde opere legali, che ci lasciò. Alla molta sua dottrina accoppiò ancora il pregio di spiegar senza pampani e con proprietà di parole i suoi sensi; ma perchè gli spiegava in maniera, che pareva che più tosto insegnasse, che orasse, perciò comunemente fu reputato più dotto, ch'eloquente.

Ma sopra tutti costoro s'innalzò poi a questi medesimi tempi l'incomparabile Francesco d'Andrea, lume maggiore della gloria de' nostri Tribunali, al qual dobbiamo non solo d'aver egli restituita in quelli la vera arte d'orare; ma molto più, per avere nel nostro Foro introdotta l'erudizione, ed il disputar gli articoli legali secondo i veri principj della Giurisprudenza, e secondo l'interpetrazione de' più eruditi Giureconsulti, de' quali presso noi rara era la fama ed il nome, applicando la loro dottrina all'uso del Foro, ed alle nostre controversie forensi. Egli fu il primo, che facesse risuonare nelle Ruote del nostro S. C. il nome di Cujaccio, e degli altri Eruditi. Egli tolse ancora la barbarie nello scrivere; ed egli fu il primo, che cominciasse a dettare le allegazioni in culto stile, imitando i più purgati Scrittori, ed a disputar gli articoli, non già secondo lo vulgari maniere, ma da limpidissimi fonti delle leggi derivando le conclusioni, le adattava al caso, valendosi delle interpetrazioni di Cujaccio, e degli altri eruditi, non discompagnandole dalle comuni tradizioni de' Dottori, come si vede dalle sue prime allegazioni, che tra l'opere del Moccia, e del Consigliere Staibano, furono impresse.

Dal suo esempio furon poi mossi gli altri a trattar le cose istesse del nostro Foro con più pulitezza e candore: onde Marcello Marciano nipote del primo Marcello, e figliuolo del Reggente Gianfrancesco, che fu dal Conte di Castrillo fatto Giudice di Vicaria e dal Conte di Pennaranda creato Consigliere, e dal medesimo passato poi in Camera Avvocato Fiscale, donde nel principio del governo di D. Pietro Antonio d'Aragona andò Reggente in Ispagna: nel tempo che fu Fiscale distese alcune allegazioni, intitolate Exercitationes Fiscales, con molta pulitezza e candore; e nell'ozio, che ebbe nella Corte di Madrid, perfezionò alcuni altri trattati legali, come quello De Incendiariis, dove vengono, secondo il metodo tenuto dagli altri eruditi, interpetrate molte difficili, ed oscure leggi, che su questa materia s'adducono: siccome fece nell'altro intitolato De Indiciis delictorum; ma in nessun altro mostrò quanto sopra questi studj si fosse avanzato, quanto in quello, che intitolò de Prejudiciis, che dalla morte prevenuto non potè condurlo a fine, nel quale superò Giacomo Revardo, che prima di lui avea trattato del medesimo soggetto. Ma non avendo avuto egli il piacere di veder in sua vita perfezionate queste sue opere, essendo a' 28 ottobre 1670 morto in Ispagna, furono da poi date alla luce in Napoli da Gianfrancesco Marciano suo figliuolo nell'anno 1680, nel qual tempo il Consigliere Gennaro d'Andrea, poi Reggente, (il quale seguitando l'esempio del suo gran fratello Francesco, sopra molti si distinse ancora nello scrivere, per l'eleganza e pulitezza dello stile, come lo dimostrano le sue allegazioni) volle a quest'edizione far precedere una sua epistola al Lettore, nella quale commendando la dottrina e l'eleganza dello stile, non ebbe difficoltà di dire, che se morte non avesse interrotto il bel disegno, ed avesse dato tempo all'Autore di por l'ultima mano a queste, ed altre insigni sue opere, che meditava, Napoli non avrebbe che invidiare a' più famosi Giureconsulti dell'altre città d'Europa. nè la Savoja si compiacerebbe tanto del suo Fabro, nè la Francia del suo cotanto rinomato Cujaccio.

Nè noi a questo insigne Giureconsulto Francesco d'Andrea dobbiamo solamente d'aver egli ne' nostri Tribunali introdotta l'erudizione, l'arte dell'orare ed il vero modo di disputar gli articoli legali e dello scrivere pulitamente, ma anche molto gli devono i Cattedratici, per aver egli pure nella nostra Università degli Studj proccurato, che la Giurisprudenza e l'altre scienze s'insegnassero con miglior metodo e dottrina di quello, che s'era praticato prima, secondo l'uso comunale e senz'alcuna erudizione. Alessandro Turamino, di cui si è favellato ne' precedenti libri avea lasciato un suo discepolo, che lo superò intorno al modo d'insegnare e d'interpretar le leggi: costui fu Giannandrea di Paolo, uomo eruditissimo ed oratore eccellente, da cui l'Andrea che gli fu discepolo si pregiava aver appresa la vera maniera d'intender le leggi per li loro principj, e di saper distinguere le vere opinioni de' nostri Dottori dalle false. Fin che visse, dice egli, nelli nostri studj fiorì il vero modo di insegnare e d'interpretare le leggi. Emmanuel Roderigo Navarro fiorì pure a questi tempi nella nostra Università occupando la Cattedra Primaria Vespertina di legge civile; e dopo lui, il cotanto famoso presso di noi Giulio Capone. Ma per contrario Giandomenico Coscia Lettor Calabrese che ne' medesimi tempi s'avea presso il volgo acquistata gran fama, e teneva un infinito numero di scolari, reggendo la Cattedra primaria mattutina de' Canoni, e ch'ebbe gran contese di precedenza col Navarro, avea avvilito il mestiere: costui goffo al segno maggiore, e privo d'ogni erudizione, insegnava scipitamente la legge a' nostri giovani. Tal che, morto Giannandrea di Paolo, era presso noi quasi ch'estinto il vero modo d'insegnare.

Ma restituiti da poi, come si disse, i pubblici Studj dal Conte d'Onnatte, il nostro Andrea proccurò, che ritrovandosi in quelli occupar la Cattedra delle Istituzioni D. Giambatista Cacace , il quale per essere stato discepolo di Giannandrea di Paolo, insegnava quei primi elementi con maniera diversa dagli altri, con metodo ed erudizione, e secondo il modo tenuto dagli autori eruditi; ed insegnando parimente costui in questa Università la Rettorica con molto profitto degli ascoltatori, per essere versato nella lingua latina, e non meno in verso, che in prosa: proccurò l'Andrea per l'opinione, che a questi tempi s'avea acquistata, di accreditarlo maggiormente, e predicar il suo valore, e mandovvi da lui ad apprender le Istituzioni e la Rettorica Gennaro suo fratello, dal cui esempio mossi gli altri, fur poste in piedi due Cattedre ne' nostri Studj, quella delle Istituzioni e della Rettorica, concorrendovi gran numero di scolari ad apprenderle.

Parimente egli rimise in questa Università la cattedra di Matematica, e quel che fu più, proccurò, che l'occupasse Tommaso Cornelio famoso Filosofo e Medico di que' tempi, il quale insegnandola secondo il metodo tenuto da' migliori e più valenti Matematici, fece sì, che unita la sua opera a quella di M. Aurelio Severino, ancor egli famoso Filosofo e Medico di questi tempi, e Lettore primario de' nostri Studj (delle cui opere il Nicodemo tessè lunghi cataloghi), presso di noi pian piano cominciasser i nostri giovani ad aver buon gusto delle buone lettere, e della Filosofia, e della Medicina, e cominciassero a deporre gli antichi pregiudicj delle Scuole.

Nè contento questo insigne Giureconsulto di tutto ciò, per l'amicizia ch'e' si proccurò di que' pochi veri letterati, che fiorivano a' suoi tempi, d'Ottavio di Felice, vecchio assai erudito, e che avea consumata quasi tutta la sua vita nello studio della lingua greca e della morale d'Aristotele: di D. Camillo Colonna, uomo eruditissimo, di sublime intendimento, e gran Filosofo: del cotanto appresso noi rinomato Camillo Pellegrino, e d'alcuni pochi altri: avea egli assai più distese queste cognizioni, e proccurato, per mezzo della sua eloquenza, diffonderle in altri; ed essendo a questi tempi, come si è detto, opportunamente venuto in Napoli Tommaso Cornelio, a cui Napoli deve tutto ciò, che ora si sa di più verisimile nella Filosofia e nella Medicina, l'Andrea fu il primo che abbracciasse quella maniera da colui proposta di filosofare, ed il Cornelio per mezzo suo fece venire in Napoli l'opere di Renato delle Carte, di cui sino a quel tempo n'era stato presso noi incognito il nome; tal ch'essendosi restituita nel medesimo tempo l'Accademia degli Oziosi sotto il Governo del Duca di San Giovanni, dov'esercitavansi gli Accademici in recitarvi varie lezioni, egli fra l'altre ne recitò due, che per la novità diede molto che dire, nell'una delle quali dimostrò su quali deboli fondamenti s'appoggiasse la volgar Filosofia delle Scuole, e nell'altra quanto dovesse per conseguenza esser preferita la novella maniera di filosofare. E quantunque essendo poc'anni da poi soppravvenuto il contagio, bisognasse tralasciare tutti questi studj, nulladimanco quello poi cessato, e restituite le cose allo stato primiero, si ripigliaron da lui con maggior fervore e con maggior successo: poichè cresciuto assai più in opinione ed autorità, ebbe molti, che lo seguirono, tanto che poi, col correr degli anni, si videro presso noi introdotte e stabilite le buone lettere in tutte le discipline, nella maniera, che sarà narrata ne' seguenti libri di quest'Istoria.

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