CAPITOLO V.

Inquisizione costantemente da' Napoletani rifiutata; e per quali cagioni.

Ragionevolmente alcuni si maravigliano, onde sia nato, che i Napoletani uomini reputati cotanto pii e religiosi, che talora non sapendo tener la via di mezzo, sono traboccati nella superstizione e in soverchia credulità, abbiano poi avuto sempre in orrore il Tribunal dell'Inquisizione? Come avendo potuto sofferir tanti gravamenti ed abusi introdotti nel Regno dalla Corte di Roma, non sofferir quest'altro, che lor si proponeva sotto onesti e salutari colori, di conservar intatta e sincera la loro antica religione, non farla contaminare da' novelli errori ed eresie, le quali sarebbero state cagione d'eterna ed irreparabile lor perdizione? Ne' Pontificati d'Alessandro VI, di Giulio II, di Lione X e di Clemente VII aveano tollerati gli abusi trascorsi in quella Corte nell'ultima estremità. Roma coll'autorità dell'indulgenze, con la larghezza delle dispense, con gli spogli, colle riserve, colle espettative, con volere l'annate de' beneficj, che si conferivano, e con le spese, che nella spedizione d'essi si facevano negli Ufficj tanto multiplicati di quella Corte, non attendeva ad altro, che ad esigere con quest'arte somme immense di denari, non meno dal nostro regno, che da tutta la Cristianità. Vedevano imposte spese e gravose decime a' Cleri, a' Monasteri ed a tutti gli Ecclesiastici del Regno per tirar denaro in Roma, e si sofferivano. Le elezioni de' Prelati, la collazione della maggior parte delle dignità e beneficj tanto maggiori, quanto minori, insino all'infime Arcipreture e Canonicati, s'erano involate al Clero ed al Popolo ed alli proprj Ordinarj, ed erano tutte passate in Roma. Ciò che pure sarebbe stato comportabile se in quelle si fosse avuta cura maggiore della salute dell'anime, e le cose Ecclesiastiche fossero governate rettamente; ma si vedeva il contrario, poichè molti beneficj incompatibili si conferivano in una persona medesima, nè avendo rispetto alcuno a' meriti degli uomini, si distribuivano per favori, o in persone incapaci per l'età, o in uomini vacui al tutto di dottrina e di lettere, e quel ch'era peggio, spesso in persone di perditissimi costumi. I beneficj del regno, che secondo le disposizioni de' Canoni, non potevano conferirsi se non a' nazionali, erano a costoro tolti e conferiti a' peregrini e forastieri. Ne' Tribunali Ecclesiastici non erano curate le tante sorprese sopra la giurisdizione del Re, e li tanti abusi e corruttele, onde con tasse intollerabili erano angariati i poveri litiganti. Si tolleravano gli acquisti immensi dei stabili delle Chiese e Monasterj, ancorchè vedessero, che il tutto dovea ridondare in loro povertà e miseria. Le violenze, che lor si facevano in obbligarli a forza a vendere le proprie case per render quelle vie più magnifiche, e sovente anche perchè non le mancassero ampj Portici e Logge. Non dava loro su gli occhi, che immuni ed esenti gli Ecclesiastici da qualunque peso, rimanessero essi soli a sopportare i pesi pubblici e del Re. Tante ed altre molte gravezze, che qui si tralasciano, si poterono ben tollerare dai Napoletani; come poi del nuovo giogo dell'Inquisizione poteron avere tanta abbominazione, che sino il nome loro dava orrore, deve certamente far maravigliare ogni uno: e ciò che era più stupore, l'abborrimento fu tale, che tramandato per lungo corso d'anni da padre in figlio come per successione, si è nei loro animi cotanto radicato, che nè il corso di più secoli, nè la contraria inclinazione d'alcuni de' loro Re, nè le macchinazioni ed accortezze della Corte di Roma, l'han potuto svellere: tanto che ora col favore d'un più benigno Giove fatto più forte e grande, non teme le scosse di qualunque più impetuoso vento.

Cotanto beneficio, chi 'l crederebbe? noi lo dobbiamo principalmente agli Spagnuoli, ed in secondo luogo alla Corte istessa di Roma; ed affinchè ciò più chiaramente s'intenda, è di mestieri, che epilogando ciò che nel XIX libro di quest'Istoria si disse intorno alla sua origine, si vegga come dopo gli Angioini si fosse fra noi praticata l'Inquisizione, insino ai tempi di Ferdinando il Cattolico, nel cui regno, per le cagioni che diremo, cominciossi ad avere in orrore ed abborrimento, il che poi si ridusse al colmo nell'Imperio di Carlo V e di Filippo II suo successore, con esser continuato poi sino al presente.

Dapoi che l'Imperador Federigo II per quella sua terribile Costituzione Inconsutilem pubblicata per sterminare i Patareni e gli Arnaldisti, e tanti altri Eretici insorti in quel tempo contra la Chiesa, per li depravati e corrotti costumi degli Ecclesiastici, ebbe date l'ultime pruove del suo rigore per estirparli affatto; alcuni di essi pertinaci ne' loro errori, per non abbandonarli, ricorsero, chi alla protezione di qualche Principe, e chi affettando una pura vita Appostolica, simulando virtù e costanza, niente curando morti e prigionie, si risolsero di soffrire qualunque strazj e tormenti, ed eziandio le morti più crudeli, costoro per tal cagione amarono essere chiamati Patareni, riputandosi perciò somiglianti a' Martiri dell'antica Chiesa. Multiplicossi il lor numero, e non vi fu città d'Italia, che non ne restasse infetta. Gli altri, fra' quali i più considerabili furono gli Albigesi, per un'altra via più si disseminarono, poichè essendo favoreggiati dal Conte di Tolosa e da altre persone di stima, avevano sparsa la loro dottrina in molte province della Francia.

Sursero opportunamente in questi medesimi tempi a favor della Chiesa Romana que' due grandi uomini, Domenico e Francesco, i quali per la loro santità resisi chiari da per tutto, fondarono, come si disse, le Religioni de' Predicatori e de' Frati Minori: ed in vero assai opportuni ci vennero per resistere a sì contrarj venti, onde la Navicella di Pietro era combattuta: ma tennero diverse strade. Francesco per opporsi a' Patareni volle col suo esempio mostrare qual fosse la vera vita Appostolica, ed il vero imitare Cristo, fondando la sua Religione in una rigida povertà, nell'umiltà e ne' puri ed incorrotti costumi: acciocchè coll'esempio e coll'opere riducesse i traviati in via.

Domenico di Nazione Spagnuola e del nobil legnaggio de' Gusmani, fu rivolto co' suoi Frati ad abbattere gli altri, e principalmente gli Albigesi; contra i quali, armato di forte zelo disputò, orò, declamò e colle sue prediche e concioni cercava convincerli dei loro errori, e far accorta la gente a non lasciarsi ingannare. Ma poco giovando con quegli ostinati le dispute e le prediche, stimò più opportuno mozzo per estirparli, di ricorrere (come aveano fatto i contrarj) agli ajuti de' Principi; e creato dal Pontefice Innocenzio III, Inquisitor generale contra di loro, ricorse agli ajuti del Conte di Monteforte e di molti altri Signori Spagnuoli, Tedeschi e Franzesi; questi uniti con gran numero di Prelati, e molte truppe, presero contra di loro la Croce, e così crocesignati scorrevano le province per distruggerli, e scorrendo per la Narbona e per altri luoghi, molti ne vinsero e distrussero. Nè di ciò contento Domenico venne in Roma, e nel Concilio, che si tenne in Laterano, in più sessioni orò contra gli Albigesi, e fece condannar per eretica la loro dottrina.

Da questo principio nacque poi il costume, che nelle province pacate, ove gli Eretici non erano a turme, tanto che fosse bisogno di crociate, sospettandosi in qualche Città esservi eretici, si mandassero dal Papa gl'Inquisitori; e poichè in Roma era piaciuta più l'opera di Domenico, che di Francesco, fu dato quest'ufficio principalmente a' Domenicani, i quali uniti col Magistrato secolare inquisivano degli errori, e coloro, che erano convinti, essi gli sentenziavano con dichiararli Eretici: e dopo questo gli davano al braccio del Magistrato secolare per fargli ardere, o in altro modo punire.

Nel Regno degli Svevi, Federigo II e Manfredi non permisero, che da Roma venissero Inquisitori; ma siccome fu rapportato nel riferito libro XIX si valeva, intorno alla conoscenza del diritto, de' Prelati del regno, e per ciò che riguardava la conoscenza del fatto e della condannagione, de' suoi ordinari Magistrati.

Gli Angioini, come ligi de' Pontefici Romani, ammisero nel regno Inquisitori di Roma, li quali, ancorchè non vi tenessero Tribunal fermo, scorrevano, come ivi fu veduto, le nostre province, favoriti da que' Re, da' quali anche venivan loro somministrate le spese.

Gli Aragonesi cominciarono poi a scemar loro tanto favore, nè, se non molto di rado gli ammettevano, ed ammessi volevano essere informati minutamente d'ogni cosa, nè si permetteva ad essi, senza espressa licenza del Principe ed assistenza di Magistrato secolare, far esecuzione di fatto.

E quantunque ne' primi anni del regno di Ferdinando il Cattolico, cercassero di stabilirsi meglio, e sottrarsi da tanta soggezione e dependenza: nulladimeno i Napoletani, per fortificarsi contra ogni sospetto, indussero il G. Capitano ad assentire alle loro domande; in guisa, che volendo prendere la possessione del regno in nome di Ferdinando suo Re, da cui avea avuta pienissima autorità, promise loro, che nel regno non ci sarebbe giammai stata, nè Inquisizione, nè Inquisitore; onde il G. Capitano vi procedeva con molta oculatezza, sempre intento a reprimere le sorprese, che Roma, quando le veniva in acconcio, non tralasciava di fare. A questo fine nel 1505 scrisse al M. Foces, che avendogli il Vescovo di Bertinoro Commessario Appostolico ed Inquisitore fatta istanza da parte del Papa, che si carcerassero alcune donne indiziate d'eresia, le quali fuggite da Benevento s'erano ricovrate a Manfredonia per passare in Turchia, proccurasse con diligenza averle in mano, e carcerate che le avesse, ne desse a lui avviso, per ordinargli poi quel che doveva eseguire. Parimente il Conte di Ripacorsa nel 1507 scrisse a Fra Vincenzo di Ferrandina, rampognandolo, come erasi portato in Barletta a far inquisizione contra alcune persone, senza sua saputa, e senz'aver mostrato sua commessione: gl'incarica pertanto, che s'astenesse di procedere, e venga da esso a mostrargliela, altrimente non senza sua ignominia avrebbevi dati forti provvedimenti.

Questo, a' primi tempi di Ferdinando il Cattolico, fu lo stile praticato nel Regno contra gl'indiziati e sospetti d'eresia, la cui inquisizione non dava spavento, perchè questi Commessarj non aveano Tribunal fermo: le loro commessioni doveano portarsi al Consiglio Regio, nè potevan eseguirsi senza il Placito Regio; scorrevano assai di rado le province, ed il tutto si faceva col permesso del Re e coll'assistenza, consiglio e favore de' Magistrati secolari, e senza molto strepito e rumore. S'aggiungeva, che in Italia e più nel nostro regno erano estinte le reliquie degli antichi Patareni: non v'era sospetto alcuno di nuova dottrina contraria a quella della Chiesa Romana; tanto che l'Inquisizione di Roma per non star oziosa, avea cominciato ad attribuire a quel Tribunale alcuni delitti che non meritavano un Tribunale estraordinario, e che potevan ben come prima esser corretti da Tribunali ordinari. Per lo più gl'Inquisitori si raggiravano sopra le bestemmie, che per tirarle al loro Tribunale, le qualificavano per ereticali, ancorchè profferite, o per cattivo abito o per iracondia o per ubbriachezza o finalmente per sciocchezza ed ignoranza. Così colui, che volendo lodar un buon vino diceva che lo berrebbe Cristo, non iscappava dalle loro mani: chi assordato da loro fastidiosi ed importuni suoni, impaziente malediceva le campane, non era fuor di pericolo: chi declamando contra i corrotti costumi del Clero, de' Preti e de' Monaci gli scherniva, derideva o malediceva: e perchè la materia non mancasse, vi arrolarono i sortilegi, le invocazioni de' demonj e mille altre sciocchezze di vili femminette, le quali erano adoperate più per imposturar la gente, o per vil guadagno, che per difetto di credenza. Vi arrolarono anche i delitti di fragilità: così la bigamia, le notturne assemblee ove sotto il manto di religione, si commettevano mille laidezze ed altri eccessi, più per fragilità commessi che per non credere, si qualificavano a questo fine per ereticali. In breve non vi era molto che fare per la correzione de' dogmi e de' falsi credenti, ma tutte le loro occupazioni erano per la correzione de' costumi e della disciplina. Cotanto a questi tempi il Tribunal dell'Inquisizione erasi reso affatto inutile, onde non potea aversene in Napoli, nè altrove timore o bisogno alcuno.

Ma quanto in Italia queste cose erano in quiete, altrettanto nella Spagna si sentivano strepitose e piene d'orrore. Ferdinando il Cattolico, dopo aver discacciati i Mori e conquistato il regno di Granata per purgar la Spagna d'ogni reliquia di Mori e d'Ebrei e per estirparli affatto, avea ivi fatto ergere un Tribunal spaventoso d'Inquisizione e amministrato dai Frati Domenicani, ove sotto zelo di religione, si posero in opra le più crudeli ed orribili prigionie, esilj, morti e confiscazioni di beni, e quel che più dava orrore, erano i modi tragici, i lugubri apparati, le tante croci, le spaventose invettive, imprecazioni e scongiuri, e le pire accese, ove dovea il reo brugiarsi, in guisa che non tanto la morte, quanto l'orribil apparato di quella spaventava. Indiziato alcuno, ancorchè con leggieri sospetti, si poneva in tenebrose carceri, ove da niun veduto, in pane ed acqua per più mesi era trattenuto, e sovente senza sapersene la cagione. Nelle difese non se gli dava nota de' testimonj, se mai gli fossero sospetti, nè s'ammettevano discolpe; i beni tosto eran sequestrati; e se secondo le severe leggi del Tribunale, veniva taluno convinto ovvero per non poter soffrire gli acerbi tormenti, confessava ciò, che mai fece, era condennato ad ardere nelle vive fiamme. Altri indiziati, a perpetui esilj eran condennati, ed eran tutti spogliati de' loro beni; e condennati, o essi se restavano in vita, o i loro eredi, ad una perpetua infamia ed estrema mendicità.

Questo terribile e spaventoso modo di procedere dell'Inquisizione di Spagna contra i Mori e gli Ebrei, rapportato alla notizia degli Italiani e de' nostri Napoletani, fece concepire loro un orrore grandissimo dell'Inquisizione. Avvenne che, col sospetto ch'ebbe Ferdinando, che in Napoli e nel regno si fossero (per isfuggire dalle sue mani) ricovrati molti Mori ed Ebrei, per estirparli in ogni parte ove capitassero pensasse di porre anche in Napoli un Tribunal conforme dipendente da quello di Spagna: e se deve prestarsi fede ad alcune lettere di Ferdinando del 1504, rapportate da Lodovico Paramo, par che al medesimo, rivocando i patti e le capitolazioni accordate dal G. Capitano a' Napoletani, quando in suo nome prese il possesso del regno, fosse venuto in pensiero d'introdurre fra Noi l'Inquisizione suddetta; ma quando i Napoletani intesero il proponimento del Re, spaventati de' mali e ruine che poteva recar loro un sì fiero Tribunale, se lo ricevessero, costantemente si risolsero di resistere, anche con perdita della loro vita e robe alla volontà del Re; al quale avendo insinuato che in Napoli, e nel regno cotanto pio e religioso non vi era di ciò bisogno, e che ben per pochi Mori ed Ebrei, che vi s'erano ricovrati, potevan prendersi per discacciarli altri espedienti; finalmente gli protestarono, che in conto alcuno avrebbero un tal nuovo Tribunale ricevuto; ed avendo Ferdinando, non ben accertato della loro ostinazione, voluto a questo fine mandare di Spagna in Napoli alcuni Inquisitori, furono malamente ricevuti e poi ignominiosamente dal regno discacciati.

Ferdinando reso certo della loro ostinata deliberazione, per non entrare in maggiori brighe con pericolo di perdere il Regno, lasciò l'impresa, e contentandosi di promulgar contra gli Ebrei una Prammatica si quietò; anzi promise a' Napoletani, che per l'avvenire non avrebbe mai permesso, che si fosse posta Inquisizione, siccome lo testificano due gravissimi Scrittori, Zurita, e Mariana. Ciò che fu ancora approvato dal Papa; onde in tutto il tempo, che visse e regnò Ferdinando, fra noi non s'udì pur ricordare il nome d'Inquisizione. I Napoletani rimasero quanto soddisfattissimi, altrettanto spaventati di quel Tribunale, ed ebbero ne' loro animi tanto orror di quello che essi morti lo tramandarono, come per eredità, ai loro discendenti; e quindi avvenne, che d'allora in poi odiavano anche il nome di esso, e n'ebbero sempre abborrimento.

§. I. Inquisizione di nuovo tentata, ma costantemente rifiutata sotto l'Imperador Carlo V.

Ma insorta dapoi nell'Imperio di Carlo V la nuova eresia di Martino Lutero, si diede, da questo principio, occasione a nuovi sospetti e nuovi attentati. Cominciarono nell'anno 1520 in Alemagna nella provincia di Sassonia a disseminarsi dottrine nuove, prima contra l'autorità del Papa, dapoi contra la Chiesa istessa Romana. A suscitarle nuovamente in Germania avea data occasione l'autorità della Sede Appostolica, usata troppo licenziosamente da Lione X, il quale, seguitando il consiglio del Cardinal Santiquattro, avea sparso per tutto il Mondo, senza distinzione di tempi e di luoghi, indulgenze amplissime, non solo per potere giovare con esse i vivi, ma con facoltà di potere, oltra questo, liberar anche l'anime de' defunti dal Purgatorio; le quali perchè era notorio, che si concedevano solamente per estorquere denari, ed essendo esercitate imprudentemente da' Commessarj deputati a quest'esazione, la più parte de' quali comprava dalla Corte la facoltà di dispensarle, avea concitato in molti luoghi indignazione e scandalo, e spezialmente nella Germania, dove a molti di questi Commessarj s'era veduta vendere per poco prezzo, e giocarsi su l'Osterie la facoltà di liberare l'anime dal Purgatorio. Ma il motivo, onde nella Germania, e non altrove, cominciassero prima queste nuove dottrine, fu perchè avendo Lione donato a Maddalena sua sorella l'emolumento e l'esazione delle indulgenze della Sassonia e di quel braccio di Germania, che di là cammina sino al mare, costei, acciò che il dono del Pontefice le rendesse buon frutto, diede la cura di mandar a predicare l'Indulgenze e dell'esazione del denaro al Vescovo Aremboldo ministro degno di questa commessione, che l'esercitava con grande avarizia ed estorsione, poichè diede facoltà di pubblicarle a chi più offeriva di cavare maggior quantità di denari; ed ancor che nella Sassonia fosse costume che, quando da' Pontefici si mandavano l'Indulgenze, erano per lo più adoperati i Frati Agostiniani per pubblicarle, non vollero i Questori ministri del'Arenboldo valersi di loro, da' quali, come usati a quest'ufficio, non aspettavano cosa straordinaria e che gli potesse fruttar più del solito; ma le inviarono a' Frati dell'Ordine di S. Domenico. Da costoro, nel pubblicar l'Indulgenze, furono delle molte novità, che diedero scandalo, perocchè essi, per invogliare più la gente, ne amplificavano il valore più del solito.

Queste cose eccitarono Martin Lutero Frate dell'Ordine degli Eremitani a parlar prima contra essi Questori, riprendendo i nuovi eccessi; poi provocato da loro, e venutosi in dispute sopra il soggetto dell'Indulgenze, cosa non ben esaminata ne' precedenti secoli; vedendo, che i suoi emoli non si valevano d'altra ragione per difenderle e sostenerle che dell'autorità Pontificia; cominciò a disprezzare queste concessioni, ed a tassare in esse l'autorità del Pontefice; e continuando il calore delle dispute, quanto più la potestà Papale era dagli altri innalzata, tanto più da lui era abbassata. E multiplicandogli, in causa favorevole agli orecchi de' Popoli, il numero grande degli auditori, cominciò poi più apertamente a negare l'autorità del Pontefice.

In breve tempo videsi maravigliosamente disseminata la sua dottrina e favorita; onde trasportato poi dall'aura popolare e dal favore del Duca di Sassonia, non solo fu troppo immoderato contra la potestà de' Pontefici, ed autorità della Chiesa Romana; ma trascorrendo ancora negli errori de' Boemi, cominciò in progresso di tempo a levare le Immagini dalle Chiese, ed a spogliare i luoghi Ecclesiastici de' beni, e permettere a' Monaci ed alle Monache professe il matrimonio, corroborando questa opinione non solo con autorità e con argomenti, ma eziandio con l'esempio di se medesimo. Negava il Purgatorio, e perciò non doversi pregare per li morti; negava la potestà del Papa distendersi fuora del vescovato di Roma; ed ogni altro Vescovo avere nella Diocesi sua quella medesima autorità, che avea il Papa nella Romana: disprezzava tutte le cose determinate ne' Concilj, tutte le cose scritte da' Dottori della Chiesa, tutte le leggi Canoniche, ed i decreti de' Pontefici, riducendosi solo al Testamento vecchio, al libro degli Evangelj, agli Atti degli Appostoli, ed a tutto quello, che si comprende sotto il nome del Testamento nuovo, ed all'Epistole di S. Paolo; ma dando a tutte queste nuovi e sospetti sensi, e non più udite interpretazioni.

Nè si contenne in questi soli termini la follia di costui, e de' seguaci suoi, ma seguitata da quasi tutta la Germania, trascorrendo ogni giorno in più detestabili e perniziosi errori, penetrò a ferire i Sacramenti della Chiesa, disprezzare i digiuni, le penitenze e le confessioni; scorrendo poi alcuni de' suoi Settatori (ma divenuti già in qualche parte discordanti dall'autorità sua) a fare diaboliche invenzioni sopra l'Eucaristia: le quali cose avendo tutte per fondamento la reprovazione dell'autorità de' Concilj e de' Sacri Dottori, diedero adito ad ogni nuova e perversa invenzione o interpretazione.

Si vide perciò in molti luoghi, eziandio fuori della Germania, ampliata questa dottrina, la quale liberando gli uomini da molti precetti, li riduceva ad un modo di vita assai libero ed arbitrario. Negli Svizzeri, Ulrico Zuinglio Canonico di Zurich, avendola abbracciata, colle sue prediche l'avea disseminata per que' Cantoni, e da molti ascoltato, avendo acquistato gran credito, faceva prodigiosi progressi.

E mentre i Principi d'Europa tutti stavano occupati alla guerra, le cose della Religione andavano alterandosi in diversi altri luoghi; dove per pubblico decreto de' Magistrati, e dove per sedizione popolare. In Berna, fattosi un solenne convento e de' suoi Dottori e dei forastieri, ed udita una disputa di più giorni, fu ricevuta la dottrina conforme a quella di Zurich. Ed in Basilea, per sedizione popolare, furono ruinate ed abbruciate tutte le Immagini, e stabilita la nuova religione. L'esempio di Berna fu seguitato a Genevra, Costanza, ed altri luoghi convicini; ed in Argentina, fatta una pubblica disputa, per pubblico decreto fu proibita la Messa.

Cominciava per tanto questo pestifero veleno a diffondersi, ancorchè occultamente, anche in Italia, non meno che apertamente erasi disseminato in Francia; poichè in Italia, vedendosi tanta corruttela de' costumi nell'Ordine Ecclesiastico e nella Corte di Roma, credevano molti, che fossero tante calamità per esecuzione d'una sentenza Divina vendicatrice di tanti abusi, onde molte persone e accostavano alla riforma: e nelle case private, in diverse Città, massime in Faenza, Terra del Papa, si predicava contra la Chiesa Romana, e cresceva ogni giorno il numero de' Luterani, i quali si facevan chiamare Evangelici.

Giovò non poco allo spargimento di questa nuova dottrina nell'altre parti, l'erudizione di Filippo Melantone, fedele discepolo di Lutero, il quale vedendo che l'eloquenza e il credito d'una scelta erudizione a se chiamava gran numero di seguaci, impiegò ogni suo talento e tutte le sue belle lettere per mettere in ridicolo i Teologi scolastici; e facendosi ammirare dagl'ignoranti, dava lor facilmente ad intendere che i Dottori Cattolici non più sapevano di Religione, che di belle lettere: prese con queste arti molti, ed in Italia alcuni Predicatori più insigni di que' tempi, che si dilettavano d'eloquenza e che aveano tanto quanto di buon gusto nelle lettere.

Scorgendo intanto l'Imperador Carlo V che non pure nella Germania, ma anche in Italia era penetrata la dottrina di Lutero, trovandosi in Napoli nel 1536 a' 4 febbrajo fece pubblicare in questa città un rigoroso editto, da pubblicarsi ancora per tutti li Regni suoi, che niuno avesse pratica o commercio con persona infetta, o sospetta d'eresia Luterana, sotto pena della vita e di perdere la roba; e prima di partire raccomandò al Toledo, che sopra tutto invigilasse a non farla penetrare nel regno commesso al suo governo.

Ma donde si credeva sperar salute, s'ebbe il male: era in que' tempi assai rinomato in Italia e per fama di gran Oratore assai celebre Bernardino Occhino da Siena, Frate Cappuccino, il quale sopra tutti gli altri del suo tempo erasi reso famoso sì per la sua dottrina, ed eloquenza e per l'asperità della vita, come anche per un suo nuovo modo di predicare l'Evangelio, non con dispute scolastiche, ed altre stravaganze, come gli altri fin al suo tempo facevano, ma con ispirito e veemenza e con fervore mirabile; onde s'avea acquistato gran credito non solo appresso il Popolo, ma anche presso i più grandi Principi d'Italia. Egli avea però in secreto ricevuta la dottrina di Lutero, e la andava occultamente disseminando, ma la copriva con accortezza tale, che non potea aversene niun sospetto. Dalla di lui fama tratti i Napoletani, proccurarono che nella Quaresima di quell'anno 1536 venisse a predicare a Napoli; egli ci venne con soddisfazione grandissima della Città, ch'ebbe il gusto, trovandovisi allora l'Imperadore, di farlo anche ascoltare da sì gran principe. Predicò egli a S. Giovanni Maggiore con tanto plauso ed ammirazione, che avea sbancati tutti gli altri Predicatori; poichè a gara tutta la Città correva alle Prediche di lui; e narra Gregorio Rosso testimonio di veduta, che in que' giorni di Quaresima, che l'Imperadore si trattenne in Napoli (poichè partì dentro di quella) andava spesso a sentirlo in S. Giovanni Maggiore con molto suo diletto; imperocchè, com'e' dice, predicava con ispirito, e devozione grande, che facea piagnere le pietre.

Partito l'Imperadore da Napoli, proseguì egli le sue prediche, nelle quali con destrezza mirabile andava spargendo alcuni semi di Luteranismo, che non se ne potevano accorgere, se non i dotti, e que' di buon giudicio. Il Vicerè Toledo, che come Spagnuolo favoriva molto i Religiosi Scolastici, a quali non troppo piaceva questo nuovo modo di predicare l'Evangelio, essendo da costoro avvisato, che Fra Bernardino di nascosto nelle sue prediche seminava l'eresia Luterana, diede carico al Vicario di Napoli, acciò destramente s'informasse della verità, e provvedesse. Il Vicario dubbioso, per mettersi in sicuro, era venuto a fargli ordine, che non predicasse più, se prima in pulpito non dichiarasse chiaramente la sua opinione intorno a quegli errori, che gli venivan opposti; ma il Frate, come che dotto ed eloquente, si difese così gagliardamente, che fu lasciato finire di predicare in quella Quaresima: e non solo della sua dottrina finì ogni sospetto, ma acquistò maggior credito e molti seguaci, che istruiti della sua dottrina, partito che fu egli da Napoli, in sua vece la insegnavano nascostamente ad altri.

Ma tre anni da poi, avendo lasciato di se un desiderio grandissimo, fu di nuovo, con molta istanza dei Napoletani, richiamato a predicare nel Duomo di Napoli, dove venuto, fu nel dire più alto e misterioso, e per quanto i giudiziosi s'accorsero, era più cauto, usando parole ambigue, per potersi difendere in caso fosse attaccato. Il nuovo modo di predicare su la Scrittura, diede occasione a molti di disputare sopra di quella, di studiare l'Evangelio, di disputare sopra la Giustificazione, la Fede e le opere; sopra la Potestà Pontificia, il Purgatorio, e questioni simili, le quali prima eran sol trattate da' Teologi grandi fra di loro e nelle loro Scuole. Ma ora, rese per le sue prediche popolari, erano trattate anche da' laici, e talora da uomini di poca dottrina, e di nessune lettere insino i più vili artigiani erano venuti a questa licenza di parlare e di discorrere dell'epistole di S. Paolo e de' passi difficili di quelle, e quel che fu peggio egli partendosene lasciò in Napoli alcuni suoi fedeli discepoli, e la sua cattiva dottrina sparsa ne' petti di molti; siccome avea fatto in ogni altra parte d'Italia, dove avea predicato.

Erano allora in Napoli alcuni Teologi e predicatori parimente insigni d'altre religioni, alcuni de' quali, molto favoriti dal Vicerè Toledo, non si lasciarono contaminare dalla dottrina di costui, anzi la contrada dicevano, e con somma vigilanza proccuravano farne accorti gli altri, perchè la detestassero. Fra gli altri fioriva a questi tempi Frat'Angelo di Napoli Riformato di San Francesco, molto versato nella Teologia e nella dottrina Platonica, ma sopra tutto Oratore eloquentissimo. Costui era favorito molto dal Toledo, che lo elesse per suo Confessore, e l'avrebbe innalzato a maggiori dignità, se la morte non avesse interrotti i suoi disegni; fecegli però ergere nel Monastero della Croce, ove dimorava, una degna Sepoltura con elogio, che ancora ivi si legge. Risplendeva ancora più luminoso il P. Fra Girolamo Seripando dell'Ordine di S. Agostino nobile del Seggio di Capuana, uomo dottissimo, di probità di vita, nelle prediche mirabile, e sopra tutto dotato di somma saviezza e prudenza, tanto che nel Capitolo generale celebrato in Napoli l'anno 1539 fu creato Generale della sua Religione; ed avuto in somma stima dal Toledo, per la sua interposizione fu assunto all'Arcivescovado di Salerno, e poi fatto Cardinale da Pio IV. Romano Pontefice. Questi fu che morendo, memore della sua Patria, lasciò la sua gran Biblioteca adornata di famosi, e di più peregrini, e rari Codici M. S. al Convento di S. Giovanni a Carbonaia, ch'era uno de' maggiori pregi di questa città; ora già posta a sacco da' Monaci stessi, che ne tenevano cura: ed ultimamente (con molto dispiacere de' buoni) da chi men dovea. Rilussero ancora Frate Ambrogio di Bagnoli dell'Ordine de' Predicatori, Oratore insigne, poi Vescovo di Nardò, di cui nella Chiesa dello Spirito Santo si vede ancora la sua Statua di marmo con elogio; Fra Teofilo di Napoli disputante massimo e parimente Oratore eloquentissimo, che recitò l'orazion funebre per la morte dell'Imperadrice accaduta in quell'anno: Fra Agostino di Trivigi, e molti altri, che disputando, orando ed insegnando, e favoriti dal Toledo, erano tutti intesi a non far allignare le nuove dottrine, che occultamente serpeggiavano; ma svellerle tosto, prima che mettessero più profonde radici.

Dall'altra parte non mancavano chi con molta accortezza, e sotto manto d'agnelli, così disputando, come insegnando, cercavan stabilirle in Napoli. Avevano alcuni, con nuovo istituto, cominciato a leggere pubblicamente l'Epistole di S. Paolo, nella sposizione delle quali insinuavano la nuova dottrina. Fra gli altri, che in ciò si erano resi celebri, furono Giovanni Montalcino dell'ordine de' Minori di S. Francesco, Lorenzo Romano Siciliano, Apostata de' PP. Agostiniani, e Pietro Martire Vermiglio, Prete e Canonico Regolare, Fiorentino e di cui il Tuano nelle sue Istorie non si dimenticò tesserne elogio.

Fra Giovanni, non pur esponendo quelle Epistole, ma disputando più giorni continui col P. Teofilo di Napoli suo competitore ed emolo, malmenandolo con motti acuti e mordaci, erasi reso sospetto già d'eresia, siccome l'evento poi chiaramente lo dimostrò; perchè alcuni anni appresso, arrestato in Roma, e convinto, fu giustiziato. Pietro Martire, assai più famoso, esponeva con molta eloquenza e dottrina l'Epistole di S. Paolo in Napoli, in S. Pietro ad Ara, dove ebbe tanto credito e concorso di gente, che chi non v'andava, era riputato mal Cristiano. Costui avea a se tirati molti, fra' quali un certo Catalano chiamato D. Giovanni Valdes ch'era anche stretto amico di Fr. Bernardino da Siena; ma la vigilanza del Vicerè, e più de' di lui emoli, che non lasciavano di fare minuto scrutinio sopra i suoi detti, frastornarono i suoi progressi; poichè un giorno, spiegando quel passo di S. Paolo: Si quis autem superaedificat, etc. ancorchè con accortezza, e con molte proteste e riserve lo sponesse, diede però gran sospetto, ch'egli non ben sentisse del Purgatorio. Di che avertito il Toledo, gli fece proibire la lezione, donde avvenne, ch'egli vedendo, che in Italia non poteva promettersi gran cose; finalmente sentendo, che in Roma se gli preparavano aguati, fuggì d'Italia, e ricovrossi fra' Luterani in Argentina, ove riuscì in quella dottrina cotanto celebre, quanto il Mondo sa. Lorenzo Romano fermossi nel Regno, prima in Caserta, e disseminò occultamente gli errori di Zuinglio in quella Città e nelle Terre circostanti; da poi andò in Germania, donde maggiormente istrutto ritornò in Napoli nel 1549, e si pose quivi celatamente ad insegnare a molti gentiluomini la Logica di Melantone; sponeva i Salmi e l'Epistola di S. Paolo, ed un libro a que' tempi dato fuori, intitolato: Beneficio di Cristo. Fu però poco da poi scoverto; ed essendo stato citato dagl'Inquisitori, fuggì via; ma da poi venne nel 1512 spontaneamente a presentarsi in Roma al Cardinal Teatino, al quale confessò i suoi errori e gli palesò ancora, com'egli in Napoli e nel Regno avea molti discepoli, fra' quali erano persone eminenti e molte Dame Nobili e Titolate, le quali professavano lettere umane, ed essendo stato condennato a pubblica abjura nella Cattedrale di Napoli e di Caserta, gli fu imposto, che, fatto questo, ritornasse in Roma per ricevere altre penitenze.

In Napoli con tutto ciò, non ostante la vigilanza del Toledo e le diligenze, che s'usavano contra costoro, non cessava il timore, che non venisse contaminata da' seguaci loro, li quali con molta accortezza e con molta riserba nutrivano la lor dottrina. Non mancavano di capitarvi molti altri Predicatori, i quali tentavano ancora di seminar nel Regno li medesimi errori, abbracciati da molti, chi per ignoranza, chi per malizia; onde aveano cominciato già a far loro congregazioni e Consulte, e Capo di costoro era il Valdes Spagnuolo, il quale faceva professione di ben intendere e spiegar la Scrittura, dando a sentire d'essere in ciò illuminato dallo Spirito Santo; e ne avea per ciò tirati molti al suo partito, onde la cosa era giunta a tale, che oltre avere il veleno penetrato nei petti d'alcuni Nobili, era arrivato sino ad attaccar le Dame; e si credette, che la cotanto famosa Vittoria Colonna vedova del Marchese di Pescara e Giulia Gonzaga, per la strettezza, che tenevano col Valdes, fossero state anche contaminate da' suoi errori.

Stando le cose della Religione in questo stato in Napoli, verso l'anno 1541 e 42 venne nuova, che il P. Occhino erasi manifestamente svelato per la parte de' Luterani, fuggito d'Italia, e ricovrato in Genevra s'era a coloro unito: questa rebellione dell'Occhino portò così in Napoli, come in tutta Italia sommo dispiacere: perchè creduto universalmente per uomo da bene e di sana dottrina, ora che vedevano il contrario, cominciarono a dubitare; non le sue prediche avessero apportato più tosto danno, che utile: ed accrebbe il sospetto contra i suoi discepoli, che avea in Napoli ed in tutta Italia lasciati; a' quali, perchè stassero fermi nella sua dottrina, non avea tralasciato, già fatto ribelle, di scrivere alcune Omelie volgari, che per mezzo d'una sua epistola dedicò alla sua Italia, nelle quali manifestava, che per l'addietro avea predicato in Italia Cristo mascherato, ma che ora non potendolo predicare a viva voce nudo, come il Padre ce lo mandò, e come nudo stette in Croce, lo faceva per opera della penna, con quelli suoi scritti; de' quali furono veduti per Italia e Napoli correre, per le mani di molti, più esemplari.

In questo medesimo tempo uscirono in istampa, senza nome d'Autore, alcuni libri, uno de' quali avea titolo: Il Seminario della Scrittura e l'altro: Il Beneficio di Cristo; e si videro comparire ancora alcune Opere di Filippo Melantone e d'Erasmo. Nel principio, per molti mesi, non se ne tenne conto, e correvano senza proibizione per le mani di molti: ma poi fatto avvertito il Vicerè del danno che facevano, gli fece proibir tutti, ed ordinò, che fossero pubblicamente bruciati; e fattone un fascio dal P. Ambrogio da Bagnoli, furono al cospetto del Popolo fatti bruciare avanti la porta maggiore dell'Arcivescovado, con bandi tremendissimi contra coloro, che forse tenessero queste ed altre opere sospette, o che le leggessero, o in qualunque modo proccurassero. Questo rigore fece quietar le cose in maniera, che non s'intese più che simili libri fossero ritenuti, e se pure da alcuni si parlava della Scrittura, era con più modestia e rispetto di prima.

A questo fine il Vicerè Toledo fece poi ai 11 ottobre dell'anno 1544 pubblicar Prammatica, colla quale ordinò, che i libri di Teologia e di Sagra Scrittura, che si trovassero stampati da venticinque anni, non si ristampassero: e gli stampati non potessero tenersi, nè vendersi, se prima non saranno mostrati al Cappellan Maggiore, il quale dovea vedere eziandio quali potessero mandarsi alla luce. Parimente proibì tutti i libri di Teologia e di Sacra Scrittura, che fossero stampati senza nome di Autore e tutti quelli, i cui Autori non fossero stati approvati.

Questo timore, che in Napoli non penetrassero gli errori della Germania, e la vigilanza per ciò usata dal Toledo, fece aver anche per sospetta ogni erudizione; e fu la cagione, perchè, presso noi, le lettere non facessero que' progressi e quegli avanzi, che in questi tempi facevano in Francia, ed in altre parti, così per la Giurisprudenza, come per l'altre facoltà. Erano rimasi solo i vestigj dell'Accademia del Pontano, ed alcuni pochi sostenitori di quella: pure con tutto ciò non mancava il buon volere, e se per questi sospetti non fossero stati dal Toledo impediti, molti nobili spiriti non avrebbero mancato di favorire le lettere, con ergere nuove Accademie, come aveano già cominciato: poichè nell'anno 1546 i Nobili del Seggio di Nido, ad esempio di ciò che si faceva in Siena, e nell'altre città d'Italia, trattarono d'ergere in Napoli un'Accademia di Poesia latina e volgare, di Rettorica e di Filosofia e d'Astrologia, siccome in una ben ornata stanza, al piano del Cortile di S. Angelo a Nido, l'ersero sotto il nome de' Sireni, e ne fecero Principe Placido di Sangro: e gli Accademici infra gli altri, furono il Marchese della Terza, il Conte di Montella, Trojano Cavaniglia, il celebre Antonio Epicuro, Antonio Grisone, Mario Galeota, Giovan-Francesco Brancaleone famoso Medico e Filosofo ed Orator eloquentissimo, ed altri amatori delle buone lettere. Ad imitazione di Nido eresse il Seggio Capuano un altra Accademia, sotto il nome degli Ardenti. E ne fu anche istituita un'altra nel Cortile dell'Annunziata sotto il nome degli Incogniti. Ma queste, nate appena, rimasero estinte; poichè il Toledo le fece da' Reggenti del Collaterale proibire, non piacendo allora, che, sotto pretesto di studio di lettere, si facessero ragunanze e continue unioni d'uomini letterati. Accelerò la proibizione, l'istituto preso, che ciascuno degli Accademici dovesse ivi recitare una lezione, sopra la quale (ancorchè il soggetto fosse o di Filosofia, o di Rettorica) venendosi poi a disputare, sovente s'usciva dal soggetto, e si veniva alle quistioni di Teologia e di Scrittura. Furono per ciò l'Accademie proibite tutte e tolte via.

Quindi è avvenuto, che nel mezzo di questo secolo e nel suo decorso non possiamo mostrar tanti Letterati, quanti nel principio e nel fine del precedente furono da noi annoverati: de' Filosofi, e Medici un solo Agostino Nifo, ed in Calabria, Antonio e Bernardino Telisio, li quali per ciò non valsero far argine a' Scolastici e discreditar Aristotele lor Maestro: de' Poeti solamente fu veduto qualche numero, da non paragonarsi però a quello del secolo precedente.

Quindi ancora avvenne, che avendosi per sospetta ogni erudizione, i nostri Giureconsulti non poterono imitare l'esempio di Francia, dove la Giurisprudenza nelle Cattedre era insegnata con maggior purità e nettezza: ma da' nostri fu lo studio di quella proseguito nella medesima forma che prima. Ed essendosi cotanto i Tribunali innalzati, crebbe il numero de' Professori, li quali non diedero alcun sospetto, perchè tutti intesi a' guadagni del Foro, furono lontani da ogni erudizione e dallo studio delle lettere umane.

Questo era lo stato delle cose nel 1546. Pareva che colla vigilanza continua del Vicerè, per tanti provvedimenti dati, non vi fosse bisogno di altro per toglier ogni timore d'introduzione di nuova dottrina contraria alla antica Religione; ma il Vicerè per le cose precedute, come d'affare così grave e rilevante, avea dato intanto all'Imperador Carlo V relazione distinta di quanto era occorso intorno a ciò in Napoli, mostrando che bisognava seriamente provvedere d'efficaci rimedj per mali sì gravi e pericolosi. L'Imperadore, che co' suoi proprj occhi vedeva que' disordini e le revoluzioni cagionate in Germania per questa nuova dottrina, stimò necessario (per non vedere gli altri suoi Stati dipendenti dalla Monarchia di Spagna nel medesimo disordine) che si dovesse seriamente pensare ad un efficace rimedio; e reputando il più opportuno, per riparare al male, non poter esser altro, che in quelli far erigere un Tribunal d'Inquisizione all'uso di Spagna, affinchè i popoli atterriti, pensassero a vivere come prima, scrisse al Vicerè, che ponesse ogni suo studio in proccurare d'introdurre in Napoli l'Inquisizione all'uso di Spagna. Usasse però ogni industria ed accortezza d'introdurla senza alterazione de' Popoli, ma con modi soavi, covrendo con fino artificio il suo disegno. Avea Cesare fatta esperienza, quanto pericoloso fosse sforzare in ciò i Popoli; poichè avendo tentato di mettere a quell'uso l'Inquisizione in Fiandra, la vide in breve tempo tutta sconvolta e quasichè disabitata; imperciocchè molti avendo orrore di sì rigido Tribunale, lasciando le paterne case, si contentavano più tosto fuggire, ed andar altrove raminghi, tanto che fu egli obbligato levarlo e che più non se ne parlasse. Il Vicerè, prima di ricevere queste insinuazioni da Cesare, avea già da molto tempo pensato da se stesso a questo rimedio; ma sapendo, che l'Inquisizione era stata ai Napoletani sempre d'orrore ed odiosa, e che, nè Ferdinando il Cattolico, nè altri Vicerè, che più volte l'avean tentato, mai eran stati bastanti a metterlo in opera, rispose perciò all'Imperadore, che l'impresa era molto ardua, ma con tuttociò avrebbe egli usata ogni industria e poste in opera le più sottili arti, e come se nè da Cesare nè da lui procedesse, avrebbe proccurato spingere e tirar avanti il disegno nella maniera più accorta e cauta, che si potesse.

In questi medesimi tempi il Pontefice Paolo III, vedendo ancor egli, che in Italia andava serpendo il male, rinvigorì dall'altra il Tribunal dell'Inquisizione di Roma; e con intelligenza di Cesare mandò Commessarj dell'Inquisizione Romana per tutte le Province d'Italia, i quali però erano ricevuti con condizione, che dovessero procedere per via ordinaria, con manifestazione de' testimonj e, sopra tutto, senza la confiscazione de' beni.

Il Toledo reputando, che col fare apparire non da lui, ma da Roma, venir tentata l'impresa, e che sotto questo manto avrebbe coperto il suo disegno, proccurò col Cardinal Borgia, uno degl'Inquisitori di Roma suo parente, che, siccome erasi fatto nell'altre Province d'Italia, si mandasse in Napoli un Commessario, con Breve del Papa, dove si comandasse, che per via d'Inquisizione dovesse procedersi contra i Chierici, Claustrali e Secolari; siccome in effetto venne il Breve, ed al Vicerè fu comunicato, il quale però si pose in grande angustia per trovar il modo di poterlo far eseguire.

Narrasi, che 'l Pontefice di buona voglia, a' prieghi del Cardinal Borgia, avesse conceduto il Breve, non perchè egli si curasse molto di porre l'Inquisizione in Napoli, avendo scoperto i disegni di Cesare e del Toledo, che volevano porla all'uso di Spagna e non già di Roma (tanto che questa competenza giovò molto a' Napoletani) ma perchè tenendo odio occulto contra l'Imperatore, sapendo quanto fosse d'orrore a' Napoletani l'Inquisizione, giudicava, che col tentar di metterla in Napoli, si dovessero cagionare in questa città alterazioni, tumulti e sedizioni.

Uberto Foglietta genovese, seguito dal Presidente Tuano, scrive, che il Toledo a' Commessarj dell'Inquisizione venuti da Roma, che lo richiedevano secondo il costume, dell'Exequatur Regium al Breve, avesse risposto, che in ciò non s'affrettassero tanto, ma tenessero presso di loro il Breve, perchè, quantunque per non insospettire i Napoletani odiosissimi all'Inquisizione, non poteva allora darlo, stessero però di buon animo, con tener sotto silenzio il tutto, perch'egli avrebbe oprato in modo, che il Breve s'eseguisse.

Però i nostri Scrittori napoletani, contemporanei non men che il Foglietta, a questi successi, i quali, siccome devon cedere all'eleganza e maestà del suo stile, così è di dovere, che, come forastiero, egli ceda per la verità e più minuta e distinta narrazione di questa istoria a costoro che trovaronsi presenti, e furono in mezzo di quegli affari, e li trattarono con pericolo della vita e perdita delle loro robe. Narrano questi, che il Vicerè, dopo alquanti giorni, dal Consiglio Collaterale fece dar l'Exequatur al Breve; ma che non volle farlo pubblicare per la Città a suon di trombe, nè con prediche, per timor di qualche sollevamento; ma volle che solamente per cartone affisso nella porta dell'Arcivescovato si palesasse; nell'istesso tempo, ritiratosi egli a Pozzuoli, ove l'inverno soleva dimorare, ordinò a Domenico Terracina, quanto al Popolo odioso, altrettanto suo dependente, avendo a questo fine, (oltre averselo fatto compare) quattro mesi prima proccurato di farlo elegger di nuovo Eletto del Popolo, ed agli altri Ufficiali della città, de' quali egli si fidava, che insinuassero con dolci maniere alle lor Piazze, che non bisognava di quell'editto d'Inquisizione far tanto rumore, nè sgomentarsi tanto, poichè quello non era ad uso di Spagna, ma veniva per provisione del Papa, Giudice competente in quella causa, di che la città non avea occasione di dolersi del Vicerè, di cui non era volontà, nè dell'Imperadore di metter l'Inquisizione; ma che il Papa per moto proprio lo faceva, acciò, se la città fosse in qualche parte contaminata d'eresia, se ne avesse da purgare; e non essendo, se ne fosse con questa paura preservata.

Dall'altra parte i Napoletani, a' quali essendo noti gli artificj del Vicerè, erano entrati in sommo sospetto, aveano eletti perciò Deputati, li quali essendo più volte ricorsi al Vicerè per questi rumori, che si sentivano d'Inquisizione, furono altrettante volte assicurati dal medesimo, ch'egli non avrebbe permessa novità alcuna. Tuttavolta la fama essendo continua e grande, che l'Inquisizione sarebbe stata fra poco tempo posta, non cessavano i timori ed i sospetti; ma quando poi in un dì di Quaresima di questo nuovo anno 1547 coi propri loro occhi videro l'Editto affisso nella porta della Chiesa Cattedrale, il quale da molti letto, era esagerato molto più di quel che conteneva, cominciarono molti a sollevarsi e farne rumore, e corsi al Vicario dell'Arcivescovado (il qual udito il tumulto per timore s'era nascosto) fecero stracciare l'Editto. Il Vicerè inteso il tumulto, la Domenica delle Palme fece tosto chiamar a se il Terracina e gli altri Ufficiali della città, a' quali niente parlando d'Inquisizione, ma solo esagerando l'eccesso, persuadeva di doversi procedere contra i tumultuanti ad un severo castigo; e se bene quasi tutti erano per acconsentirgli, nulladimeno per tema del Popolo, già insospettito e sollevato, non risposero risoluti, ma diedero buone parole, con riserva di farlo intendere alle loro Piazze: perlochè congregati gli Eletti, così nobili, come popolari nelle loro Piazze, e proposto il negozio per arduo, conchiusero di dover andare dal Vicerè a Pozzuoli, e creati scelti uomini, e di qualità per Deputati, se n'andarono giuntamente a Pozzuoli, dove avanti il Vicerè­, Antonio Grisone gentiluomo del Seggio di Nido parlò con molto vigore ed energia, mostrandogli quanto fosse stato sempre alla città e Regno odioso ed insoffribile il nome dell'Inquisizione, e sopra tutto, che trovandosi con facilità uomini ribaldi, che per denari e per odio facilmente s'inducono a far testimonianze false (il che molto bene poteva egli aver conosciuto, che per estirpar le scuole de' testimonj falsi, era stato costretto di far pubblicar contra d'essi un rigoroso bando a pena della vita) in breve tempo si sarebbe veduto il Regno e la città tutta sconvolta e rovinata; lo pregava per tanto, in nome di tutti, a non voler permettere, che a tempo suo, quando ne aveano ricevuti tanti beneficj, Napoli restasse di tanto obbrobrio e vergogna macchiata, e da così intollerabil giogo oppressa.

Il Vicerè gli rispose con molta umanità, dicendogli, che non era di mestieri, che per ciò si fossero incomodati di venir sino a Pozzuoli: che egli amava molto più di quel, che credevano, la loro città, la quale poteva chiamarla anche sua patria, non meno per avervi abitato tanti anni, che per aver maritata una sua figliuola ad uno de' suoi Nobili; che non era stata mai intenzione nè di sua Maestà, nè sua, d'imporre Inquisizione; anzi che più tosto avrebbe egli deposto il governo del regno, che soffrire questa novità in tempo suo: restassero per tanto sicuri, che d'Inquisizione non si parlerebbe mai. Soggiunse però, che sapendo essi, che molti, benchè ignoranti e di poco conto, parlavano troppo licenziosamente, e che perciò davano qualche sospetto d'infezione, non giudicava fuor di proposito, nè la città lo dovea tener per male, che se alcuni ve ne fossero, siano per la via ordinaria e secondo i Canoni inquisiti e castigati; acciocchè le persone infette non abbiano ad attaccar la loro contagione agli altri sani; e che per questo fine e non per altro, e credeva, che fossero stati affissi quegli Editti. I Deputati udita questa risposta, gli resero grazie infinite e tutti allegri tornati a Napoli, la riferirono alle Piazze, la quale sebbene avesse universalmente apportata somma allegrezza, nulladimeno molti da quelle ultime parole, di castigare i colpevoli per via di Canoni, non lasciarono il sospetto, interpetrando la mente del Vicerè non essere in tutto aliena dall'Inquisizione, ma di volerla cominciare con apparenza giusta, acciò col tempo ella passasse a termini più ardui, tanto che finalmente restasse poi da senno Inquisizione all'uso di Spagna.

Crebbe poi il sospetto dal vedere, che il Terracina co' suoi partigiani non tralasciava d'andar insinuando a' popolari di non doversi di ciò curar molto, e farne tanti schiamazzi; ma ciò da che più se ne resero certi fu, quando a' 21 di maggio dell'istesso anno 1547 videro nella porta dell'Arcivescovado affisso un altro editto assai più del precedente chiaro e formidabile, parlando alla scoverta d'Inquisizione. Allora la città si sollevò, e con grande strepito per le piazze di Napoli si gridò arme, arme: fu immantinente l'editto lacerato, il Popolo tumultuosamente corse dal Terracina, dicendogli che convocasse tosto la Piazza, acciò s'amovessero i Deputati vecchi sospetti d'intelligenza col Vicerè e si creassero i nuovi. Il Terracina, con mostrarsene renitente, accrebbe il sospetto; onde entrati in fretta dentro S. Agostino, congregata la Piazza, ed ivi esposto l'arduità dell'affare, ed il pericolo grande e la poca corrispondenza de' fatti alle buone parole del Vicerè, parve a tutti espediente di privare il Terracina del suo ufficio d'Eletto, ed i suoi compagni dell'ufficio di Consultori (perchè in quel tempo il Popolo li creava) e rifecero in suo luogo per Eletto Giovanni Pascale da Sessa uomo audace e di fazione popolare, e per Consultori altri poco amici del Terracina e zelantissimi delle cose pubbliche.

Da queste forti resoluzioni del Popolo si mossero anche i Nobili, i quali avidamente ricevettero sì opportuna occasione per vendicarsi del Toledo, da loro in secreto odiato, i quali, non meno che i popolari abbominando l'Inquisizione, s'unirono con quelli, dando loro titolo di fratelli, avvertendoli sempre, che stessero vigilanti, atteso senza dubbio il Vicerè voleva l'Inquisizione, nè punto si fidassero delle sue parole, al quale, per togliere ogni ambiguità, bisognava resister apertamente, con dirgli, ch'essi non volevano Inquisizione nè all'usanza di Spagna, nè di Roma, e che insino alla morte, salva la riverenza al loro Principe, l'avrebbero contrastata. Il Terracina, e' suoi compagni rimasero in grandissimo odio col Popolo, ed il volgo, insino a' fanciulli, li chiamavano per le strade Traditori della Patria. Odiavano ancora, come dipendenti del Vicerè, il Marchese di Vico vecchio, il Conte di S. Valentino vecchio, Scipione di Somma, Federigo Caraffa padre di Ferrante, Paolo Poderico, Cesare di Gennaro e molti altri d'ogni Seggio.

Il Vicerè, udita la sollevazione del Popolo, il tumulto seguito, e come senza sua licenza erano stati imperiosamente privati de' loro ufficj il Terracina e gli altri, e che il Popolo alle sue parole e promesse, non dava alcuna credenza, fieramente sdegnato, minacciando, che avrebbe severamente castigati gli Autori di questi tumulti, se ne venne in Napoli; ed ancorchè da' Deputati si proccurasse raddolcire tanto sdegno, egli diede rigorosi ordini al Tribunal della Vicaria, che procedesse contra gli Autori, non men del tumulto, che della nuova elezione dell'Eletto, e Consultori: fra gli altri, che furono da quel Tribunale portati per Autori più principali, fu un tal Tommaso Anello Sorrentino della Piazza del Mercato, uno dei primi Compagnoni di Napoli, e di gran sequela, il quale, così nell'elezione, come nella sollevazione, si era sopra gli altri distinto, ed era stato colui, che avea tolto il nuovo Editto dalla porta della Cattedrale e laceratolo. Costui, essendo stato citato dal Fisco, dopo molta discussione, se dovea presentarsi o no, alla fine vi andò accompagnato da infinita moltitudine, che postasi attorno al palazzo della Vicaria, ondeggiando aspettava, che il suo Cittadino licenziato se ne tornasse. Il Reggente della Vicaria Girolamo Fonseca, quando vide tanta moltitudine, giudicò meglio per allora licenziarlo dopo breve esame, che di ritenerlo: il quale tolto in groppa del suo cavallo da Ferrante Caraffa Marchese di S. Lucido, al Popolo assai caro, a cui fu dal Reggente consegnato, bisognò portarlo per molte piazze di Napoli per acquetare i tumulti nati tra' Popolari, che temevano della vita di quel loro cittadino. Il Vicerè, dopo questo, vedendo riuscir vani i suoi disegni, pien di cruccio se ne tornò a Pozzuoli; e poco da poi fu, per l'istessa cagione del tumulto, citato Cesare Mormile Nobile di Portanova, ed al Popolo assai caro, il quale vi andò con molta riserva, e ben accompagnato; onde il Reggente riputò anche lasciarlo andare per l'istessa cagione, che avea lasciato andar l'altro. Questo fatto assai dispiacque al Vicerè; ma dissimulandolo, avea rivolto l'animo al castigo ed alla vendetta, aspettando sol il tempo di poterlo fare.

Ma nuovo accidente accrebbe vie più i tumulti e disordini. Aveva il Vicerè, fra questo mezzo, da' presidj di fuora fatte venire in Napoli alcune compagnie di soldati spagnuoli al numero di 3000, alloggiandogli dentro il Castel Nuovo: un giorno, qual si fosse la cagione, all'improvviso fur veduti questi soldati spagnuoli uscir fuori de' fossi del Castello; a questo avviso, il Popolo insospettito, corse a pigliar l'arme, si chiusero le botteghe e le case e tutti armati corsero verso il Castello. Gli Spagnuoli cominciarono a tirar dell'archibugiate, e corsi sino alla Rua Catalana, saccheggiavano le case, uccidevan uomini e donne e fanciulli. I Napoletani corsi al campanile di S. Lorenzo fecero sonare quella Campana alle armi: al suono di questa Campana, siccome ivi accorsero molti cittadini, così si svegliarono i Regj Castelli, cominciando a tirar cannonate contra la Città, ancorchè con pochissimo danno. Dentro la città e sovente nelle osterie, ove erano trovati Spagnuoli, erano uccisi e tagliati a pezzi. I Tribunali si chiusero; tutto era disordine e rivoluzione; sin che, sopraggiunta la notte, fu sopito alquanto il tumulto.

Il Vicerè fieramente sdegnato pretendeva, che la città col prender le armi avesse commessa chiara rebellione: all'incontro gli Eletti e' Deputati dolendosi di lui; dicevano, che per odio delle cose passate avea fatto introdurre tanti Spagnuoli in Napoli per saccheggiarla, e che come non fosse stata città dell'Imperadore, ma o de' Franzesi, o de' Turchi, come nemico la faceva cannonare da' Castelli, e che di tutto ne avrebbero avvisato Cesare; ed avendo fatto congregare i più famosi Avvocati e Dottori di que' tempi, fra' quali teneva il primo luogo Giovan-Angelo Pisanello, tutti seguitando il voto del Pisanello, conchiusero, che la Città non potea incolparsi di ribellione; e che per ciò potesse armarsi contra l'adirato Ministro, non per altro, che per conservare al suo Re la città e Regno. Fu per tanto risoluto di far soldati per la difesa della città, e fu dato questo carico a Giovan Francesco Caracciolo Priore di Bari Cavaliere di Capuana, ed a Pascale Caracciolo suo fratello, a Cesare Mormile nemico del Vicerè, ed a Giovanni di Sessa Eletto del Popolo; ma l'autorità del Priore e del Mormilo era quella, che governava il tutto.

Inasprì maggiormente gli animi un nuovo accidente; poichè stando nel Seggio di Portanova alcuni giovani nobili di quel Seggio, passarono alcuni Alguzini di Vicaria, che conducevano prigione uno per debiti; e perchè la città stava sollevata e tutta in arme, stimandosi poco li Ministri di giustizia, que' Nobili trattennero gli Alguzini, e gli dimandarono per qual cagione portavano colui prigione: quel ribaldo alzando la voce, disse; Signori, questi mi portano prigione per conto d'Inquisizione; per le quali parole que' giovani leggiermente si mossero a farlo fuggire dalle loro mani. Saputosi ciò dal Reggente della Vicaria, ne prese cinque di coloro, de' quali tre se ne trovarono colpevoli, e subito ne avvisò il Vicerè. Costui subitamente da Pozzuoli, ov'era, si portò in Napoli, ed a' 23 di questo mese di maggio comandò, che que' tre giovani fossero portati in Castel Nuovo, e chiamato il Consiglio Collaterale, ancorchè il famoso Cicco di Loffredo Presidente allora Reggente non vi consentisse; credendo che con usar sopra di loro estremo rigore s'avvilissero i Nobili, siccome il caso di Focillo avea fatto avvilire i Popoli, volle in tutte le maniere, che fossero condennati a morte ad uso di Campo; il che fu fatto, onde il dì seguente de' 24 ad ore 17 fur cacciati fuor del Castello e condotti a quel luogo ov'è solito piantare il talamo; e perchè il caso richiedeva prestezza, fur posti inginocchioni in terra, e scannati ad uso di campo.

Il Vicerè fatto questo, lusingato che con mostrar intrepidezza dovesse abbattere la superbia de' sediziosi, cavalcò subito per la Città accompagnato da molti Cavalieri spagnuoli e napoletani e con molti Soldati a piedi. Intanto i popolani, serrate le case e le botteghe, eransi posti tutti in arme e gridando, bestemmiando e minacciando andavan per la città a guisa di baccanti; per lo che i Deputati, quando intesero la risoluzione del Vicerè, mandarono a pregarlo, che per allora volesse differire di cavalcare, dubitando, che alcuno scellerato non avesse ardimento d'offenderlo, essendo il Popolo tutto in arme; con tutto ciò il Vicerè non volle lasciar di cavalcare, parendogli, che ciò sarebbe stata cagione di dar maggior animo a' sediziosi; onde i provvidi Deputati mandarono Cesare Mormile ed altri Cavalieri innanzi lungi dalla cavalcata, a raffrenare il Popolo, ch'era in grosse schiere armato per le strade, acciocchè non si movessero per niente contra il Vicerè. Ma fu cosa stupenda a vedere, che se bene non facessero movimento alcuno contra di lui, niente di meno a passar per le strade, non fu trovato uomo, nè picciolo nè grande che gli facesse con la berretta, o col ginocchio segno alcuno di riverenza, quando prima, sempre che cavalcava per la città, ogni uno correva a salutarlo con sviscerata affezione. Tanto l'orrore, che aveano all'Inquisizione, avea mutati gli animi loro.

Questa rigorosa giustizia e questa cavalcata del Vicerè imputata a disprezzo e poco conto, diede l'ultima spinta a maggiori sollevazioni e tumulti; poichè dubitando, che il Vicerè non volesse prender vendetta di tutti coloro, che gli aveano contraddetto al ponere l'Inquisizione, nella stessa maniera, che avea fatta con li riferiti tre meschini giovani, si posero nell'ultima disperazione; ed il Mormile, ed il Prior di Bari, per far credere al Popolo essere questo il disegno del Vicerè, fecero ad arte sparger voce, che il Vicerè mandava una Compagnia di Spagnuoli a prender prigione Cesare Mormile e tutti gli altri, che l'aveano contraddetto al poner l'Inquisizione. A questa voce fu sonata subito la Campana di S. Lorenzo ad arme, ove concorsero infiniti colle armi alle mani, con prontezza di morir tutti per la libertà della loro patria: allora i Capi prendendo l'occasione, e vedendoli così invasati, fatto pubblico Consiglio, ottennero facilmente di far conchiudere in quello più cose. Primieramente fu determinato, che si togliesse al Vicerè ogni ubbidienza. II. che per tal effetto si facesse fra' Nobili e Popolari una Unione, con proposito di morir tutti, o niuno. E per III. che si spedissero Ambasciadori a Cesare.

Fu fatta l'Unione, e per pubblico istromento firmata, e fu mandato un Trombetta ad intimarla a tutti que' Cavalieri napoletani, che s'erano racchiusi col Vicerè nel Castello, con protesta, che se non andavano a celebrar l'Unione con loro, metterebbero fuoco alle lor case e poderi; perlochè il Vicerè diede a tutti licenza, che v'andassero, per conservare i loro beni. Fu celebrata l'Unione, e preso un Crocifisso, andarono in processione per la città mescolatamente nobili e popolari, poveri e ricchi, titolati e non titolati, gridando; Unione, Unione in servigio di Dio, dell'Imperadore e della città; ed acciocchè ognuno entrasse in questa Unione, fu inventato, che chi non v'entrava, era chiamato Traditor della Patria; la qual fu di tanta forza, che tutti, grandi e piccioli, entrarono in quella, come in una venerabile Religione; perlochè il Vicerè ridendo soleva dire, che gli rincresceva molto di non aver potuto entrare in quella Santa Unione.

Fu eletto per Ambasciadore della città a Cesare, Ferdinando Sanseverino Principe di Salerno nemico del Vicerè, il quale pieno di vanità e leggerezza, in cambio di scusarsene, accettò con giubilo la carica; a cui fu aggiunto Placido di Sangro, e portatosi subito dal Vicerè a licenziarsi, ancorchè questi gli assicurasse, che se egli andava per l'Inquisizione non era bisogno, perchè egli gli dava parola di far venire privilegio dell'Imperadore di non mai metterla; con tutto ciò rispondendogli, che non poteva lasciar d'andare per averlo promesso alla città, se ne andò subito a Salerno per ponere in ordine la sua partita. Il Vicerè stette tutto quel dì nella porta del Castello per informarsi di quello che passava nella città, ed avuto avviso, che gli era stata tolta l'ubbidienza, e che non lo chiamavano più Vicerè, ma D. Pietro, voltatosi a que' Cavalieri, ch'erano seco, ridendo disse. Signori, andiamo a starci in piaceri; or che non ho che fare, perchè non son più Vicerè Di Napoli.

Pietro Soave nell'Istoria del Concilio di Trento (ancorchè ciò si taccia da tutti gli Scrittori napoletani) narra, che la Città mandò anche Ambasciadori al Pontefice Paolo III, al quale, aggiunge, che i Napoletani si offerirono di rendersi, quando avesse voluto riceverli; e che Paolo, a cui bastava nutrire la sedizione, come faceva con molta destrezza, non parendogli aver forze per sostener l'impresa, avesse rifiutato l'invito; non ostante che il Cardinal Teatino Arcivescovo di quella città, promettendogli aderenza di tutti i parenti suoi, ch'erano molti e potenti, insieme coll'opera sua, che a quell'effetto sarebbe andato in persona, efficacemente l'esortava a non lasciar passare una occasione tanto fruttuose per servizio della Chiesa, acquistandole un tanto Regno.

Ma di questo fatto, che sarebbe stato di ribellione manifesta de' Napoletani, non vi è chi fra noi faccia memoria. Ed ancorchè il Duca d'Alba, e gli Spagnuoli lo tenessero per fermo; però il Pontefice Giulio III in una sua epistola rapportata dal Chioccarelli, diretta all'Imperador Carlo V, dove pregavalo a non far differire più la possessione dell'Arcivescovado di Napoli al Cardinal suddetto, lo niega costantemente, come diremo più diffusamente appresso. Ogni uno avrebbe creduto, che il Cardinal Pallavicino antagonista del Soave, dovesse ripigliarlo anche di questo; ma poichè quest'Autore, siccome è tutto al Soave contrario, ed opposto circa il ponderare i fini delle azioni, non già intorno alla verità de' fatti, ove sembra, che (toltone in alcune circostanze di poco rilievo) insieme concordino; così parimente il Pallavicino viene a confessare, che i Napoletani invitarono il Papa con larghe offerte a proteggerli; il quale però con pensiero egualmente pio e savio, non volle far movimento, conoscendo, com'e' pondera di suo capo, che l'acquisto di quel Regno temporale avrebbe messo a pericolo in tali tempi tutto il suo Regno spirituale; di cui il temporale è accessorio, e non durabile senza il sostegno dell'altro.

Intanto il Vicerè dubitando, che quella Unione non partorisse qualche ribellione, massimamente vedendo, che gli Spagnuoli erano perseguitati ed uccisi, fece raddoppiare presidio nel Castel Nuovo. Il dì seguente, che fur li 26 di Maggio, i Capi del rumore sparsero fama per la Città, che il Vicerè disegnava di assaltare il Popolo e castigarlo, perchè avea a suon di campana dato all'arme, che parea spezie di rebellione; perlochè con prestezza fecero bastioni nella piazza dell'Olmo, ed in tutti i luoghi delle frontiere, misero gente a S. Maria della Nuova, e con gran inpeto corsero ad assaltar gli Spagnuoli dentro il quartiere. Il Vicerè, che di ciò ebbe avviso, comandò, che il Castelli giocassero con le artiglierie verso i luoghi, ove si vedeva raccolta gente armata, e mandò soldati spagnuoli alle frontiere a raffrenar l'impeto di quella gente. Si stette in continue scaramucce per tre giorni e tre notti, nelle quali molti dell'una parte e dell'altra furono feriti e morti.

In questo stato di cose, i Deputati, avendo grandissimo riguardo di non incorrere in qualche atto di ribellione, stavano in continui consigli; e per dimostrare la debita fedeltà verso l'Imperadore drizzarono sopra il campanile di S. Lorenzo l'insegna con l'armi dell'Imperio, e vollero, che siccome gli Spagnuoli gridavano Imperio e Spagna, similmente il Popolo all'incontro gridasse Imperio e Spagna. Oltre di ciò mossero il Principe di Bisignano, ed altre persone amate dal Vicerè, che trattassero con lui di fare una tregua; e che si contentasse di non fare delle cose passate dimostrazione di castigo verso nessuno, insino a tanto, che non avesse sopra di ciò avvisato l'Imperadore. Del che il Vicerè si contentò, e fu risoluto che la città da sua parte mandasse uomo deputato a dar informazione del fatto a Cesare, e che il Vicerè mandasse un altro da sua parte; il quale vi mandò il Marchese della Valle Castellano del Castel Nuovo, con lettere dirette a Cesare, nelle quali lo ragguagliava fra l'altre cose, che l'Inquisizione non si comporterebbe affatto in questo Regno, come in Ispagna, per molte e molte cagioni; onde bisognava che non se ne parlasse, per cancellare questo nome di Unione, che al presente s'era cominciato. La città, come si è detto, vi mandò il Principe di Salerno con Placido di Sangro; e partirono questi per le poste a' 28 del medesimo mese di maggio; ma il Principe trattenutosi in Roma in visite ora di questo, ora di quell'altro Cardinale, fece sì, che il Marchese della Valle giungesse prima in Norimberga, ove Cesare in quel tempo dimorava.

Nel tempo di questa tregua si stava dall'una parte e l'altra su l'avviso e si tenevano corpi di guardia con le loro sentinelle nelli lor Forti, praticando però i soldati col popolo, ed il popolo con loro, benchè il popolo armato e sollevato non stimava, nè ubbidiva gli Ufficiali della giustizia, anzi non si riteneva sovente d'ingiuriarli e maltrattarli. Ciò che veduto dalli Deputati, dubitando, che non ne nascesse qualche ribellione, andarono al Vicerè a' 15 giugno con Giudice e Notaro a richiederlo, che volesse tener cura della giustizia, come prima, poich'essi erano nella medesima ubbidienza di prima, dalla quale si protestavano non volersi mai levare e che offerivano ostaggi per sicurtà de' suoi Ufficiali. Ma il Vicerè, che vedeva, che tutto questo facevano per lor cautela, perchè in fatti non poteva Ufficiale alcuno comparire per la città per l'insolenze del popolo, che stava in schiere armato, non volle farlo, dicendo, che l'ubbidienza loro era in parole, e non in fatti; onde per pubblico decreto della città fu determinato, che si facesse un corpo di guardia, e che andasse per la città di giorno e di notte pigliando i delinquenti, ed imprigionargli nella Vicaria, acciocchè del Reggente e da' Giudici, che in quel Palazzo erano racchiusi, fossero puniti; e fu posta una Compagnia di soldati fuori del suddetto Palazzo, acciocchè niuno ardisse d'accostarvisi per rompere le carceri, ovvero per far violenza agli Ufficiali. Ma questa diligenza nulla giovava, imperocchè l'audacia della plebe era tanto sfrenata, che nè anco temevano gli Ufficiali della Città.

In questo il Vicerè trovò una via per divider l'Unione, e per iscoprire se nella Città vi fosse qualche trattato di ribellione; e fu che scrisse un comandamento a tutti i Baroni, che dovessero per servigio di sua Maestà venire ad alloggiare nelli Quartieri degli Spagnuoli sotto pena di ribellione. Fu fatto sopra di ciò consiglio nella Città, e conchiuso, che vi andassero a lor piacere. Tutti vennero dal Vicerè, e furono alloggiati a que' Quartieri e provveduti a' lor bisogni. Il dì seguente la Città per risarcir quella rottura confermò l'Unione e mandò Ambasciadori al Vicerè, richiedendo, che desse a tutti alloggiamento, perchè per servigio di Sua Maestà tutti, non solo i Baroni e Titolati, volevano venire, ed alloggiare in que' Quartieri; al che il Vicerè ridendo, rispose, che l'ambasciata, ancorchè in tempo d'està, era riuscita troppo fredda.

Per questa cagione, e per non potersi vivere sotto quel corrotto governo, ogni uomo da bene se ne usciva dalla Città con la lor famiglia, e niuno vi sarebbe rimaso, se i Deputati non avessero poste le guardie alle Porte; ed era cosa compassionevole a vedere la Città vota de' suoi Baroni e d'onesti Cittadini, e piena all'incontro di plebe arrogante e d'infiniti fuorusciti, i quali scorrendo, ora in questo, ora in quell'altro luogo, facevano mille insolenze, e chi gli riprendeva era ingiuriato e chiamato traditor della patria, e lo forzavano e pigliar l'armi, ed andar con essi loro; ma chi egregiamente si mostrava in piazza in giubbone, o armato, e si offeriva di morir per la patria, minacciando il Gigante del Castel Nuovo (così chiamavano D. Pietro di Toledo) quello onoravano, e chiamavano patrizio, e degno d'esser Deputato della città; ed allora già il governo de' Deputati si cominciava a dissolvere, e ne nasceva il governo di pochi e potenti, e quasi un Triumvirato di Cesare Mormile, del Prior di Bari e di Giovanni di Sessa, restando i Deputati di solo nome per riputazione della Città.

Stando le cose in questo stato, vennero al Vicerè Ambasciadori del Duca di Fiorenza suo genero, della Repubblica Senese, e dell'altre Potenze d'Italia, con offerirgli soccorso di gente e di denari; a' quali il Vicerè mandò a ringraziare, accettando solamente l'offerta del Duca di Fiorenza, al quale fece sentire, che gli tenesse in ordine cinquemila pedoni, e che bisognando, per mare si conducessero in Napoli. Sparsasi di ciò la fama per la città, i Deputati dubitando non essere all'improvviso assaltati, determinarono anch'essi di assoldare diecimila soldati, i quali fur subitamente raccolti per la moltitudine de' villani e de' fuorusciti, che erano entrati nella città. Fecero anche rassegna di tutto il popolo, e fur trovati quattordicimila uomini atti all'armi la maggior parte archibugieri. Questo così fatto esercito era senza Capo; imperocchè i Deputati non lo vollero mai fidare ad alcun Capitan Generale, per dubbio che non s'impadronisse della Città, e facesse qualche rivoluzione, ma lor medesimi lo governavano nel miglior modo che potevano, e se ne servivano solamente per difendere lor frontiere, in caso, che fossero assaltati; ma essi essendo senza timore di superiori, si mandavano per assaltar gli Spagnuoli ne' lor Quartieri, ed a' 21 luglio si attaccò tra loro una crudelissima zuffa, e la città toccò la Campana ad arme: e tutta la plebe corse alla volta degli Spagnuoli con grand'impeto insino alla Rua Catalana, dove uccisero molti Spagnuoli, e particolarmente n'uccisero sedici, che stavano i miseri mangiando nell'Osteria del Cerriglio. Il Vicerè quando questo intese, fece dare anch'egli all'arme, e posta la fanteria Spagnuola in squadrone la mandò guidata dal Balì Urries a ributtargli in dietro, il che fu fatto con gran prestezza; imperocchè a forza d'archibugiate gli fecero ritirare da tutto il Quartiere di S. Giuseppe, e della Rua Catalana insino al Capo della piazza dell'Olmo; e perchè dalle case furono feriti molti Spagnuoli per li fianchi, entrarono per forza dentro, rompendo le porte e mura, e finalmente presele, le posero tutte a sacco, ed a fuoco; e venuta la notte furono posti molti soldati Spagnuoli nella Dogana, ed in altre case forti. Presero anche il Convento di S. Maria la Nuova per forza, perchè vi erano molti soldati italiani, e vi fu posto dentro in guardia il Capitan Orivoela con una compagnia La città all'incontro fortificò S. Chiara, il Palazzo del Principe di Salerno, del Duca di Gravina, e Monte Oliveto e quel del Segretario Martirano, ponendo dentro molti archibugieri, ed alcuni pezzi d'artiglieria minuta. Fatto questo, il Vicerè comandò che gli Spagnuoli non uscissero fuora delli loro Forti, e che attendessero solamente alla lor difensione; ma il popolo, essendo senza Capo, e senza timore, non si fermava mai ne di dì, ne di notte, dando sempre all'armi, ed assalti agli Spagnuoli, ed a guerra bandita gli danneggiavano, ed ammazzavano crudelmente insieme con gl'Italiani aderenti del Vicerè, saccheggiando le lor case e vigne, e tal volta scorrevano insino a Pozzuoli a danneggiare le cose del Vicerè, ed insino a Chiaja ad assaltare i Cavalieri, che per ordine del Vicerè stavano ivi alloggiati. Durò questa crudel guerra quindici giorni, ne' quali dì e notte continuamente si combatteva, le artiglierie delle Castella e delle Galee, non perdendo tempo, tiravano nella Città, dovunque si vedeva gente armata; e già il popolo incominciava a gridare, che l'artiglieria della Città si ponesse in ordine per combattere Castel Nuovo, e gli altri Forti; ma li Deputati non lo vollero in modo alcuno consentire, parendo loro che questo sarebbe stata ribellione aperta. Questa guerra si dovrebbe chiamar civile, e per ciò si avrebbe dovuto tacere il numero delli morti in essa; poichè Giulio Cesare non volle scrivere il numero degli uccisi da lui nelle guerre civili; ma non mancarono Scrittori, i quali, senza aver questo ritegno, ne hanno de' loro nomi empite le carte.

Ma ecco, stando la guerra nel suo fervore, che ritornarono da Cesare il Marchese della Valle e Placido di Sangro. Incontanente fu fatta tregua per intender la volontà dell'Imperadore, la qual Placido spiegò alla città nel pubblico Consiglio, dicendo che Sua Maestà ordinava e comandava alla città, che dovesse deporre l'armi in potere del proprio Vicerè, il quale l'avrebbe appresso manifestato compitamente qual fosse sua volontà circa questo fatto. Questa risposta, benchè parve alla città molto dura, dovendo depor l'armi, senz'altro intendere, in poter del proprio nemico armato, tuttavia volendo mostrare, che le cose passate non erano state con mala intenzione d'inobbedienza verso sua Maestà, volle senza replica ubbidire; e volontariamente tutti andarono senza tardar punto a consegnar l'armi a' Deputati in S. Lorenzo, li quali poi in nome del pubblico le rassegnarono al Vicerè in Castello; e quantunque ne mancassero molte, il Vicerè, appagatosi di questa ubbidienza, non volle procedere rigorosamente in farle rassegnar tutte, ma ben volle gli fosse rassegnata tutta l'artiglieria grossa della città; e del resto desideroso di veder quietate le cose, dissimulò, come savio, molte altre cose, in che avrebbe potuto mostrar rigore. Fatto questo, subito il Vicerè con grandissima diligenza attese a riformar la giustizia, ed il governo della città; s'aprirono i Tribunali, ed ognuno attese a' suoi negozj, come prima, facendo assicurare, ed acquietare gli animi de' cittadini, scusando ognuno, e dicendogli, ch'egli conosceva, che furono ingannati da alcuni, che per le proprie passioni, e perversi disegni proccuravano di sollevarli sotto scusa dell'Inquisizione a far qualche rivoluzione, e che si rallegrava, che Iddio l'aveva liberati dalle loro mani: e per questo l'Imperadore perdonava a tutti, e ch'egli similmente faceva, ed era per fare qualsivoglia cosa per lor quiete e ristoro.

Ma la città, che tuttavia stava sospesa e desiderosa d'intendere qual fosse l'intera volontà dell'Imperadore, pregava il Vicerè, che la palesasse, poich'era pronta ad eseguirla. Perlochè a' 12 agosto fece chiamare in Castello i Deputati della Città, ed entrati che furono, fu alzato il Ponte, il che diede a que' di fuora non picciol terrore; ma il Vicerè raccoltigli benignamente, palesò loro la volontà dell'Imperadore, ch'era, che si contentava, che non fosse posta Inquisizione ; che perdonava alla città l'aver posta mano all'armi, poichè conosceva non esser venuto per ribellione: e che se Cesare Mormile, il Prior di Bari e Giovanni di Sessa fossero andati a S. M. in nome della città avrebbero avuto da lui compimento di giustizia. Li Deputati oltremodo allegri di questo, si partirono per andare a notificarlo alla città con sommo contento; ma poco da poi furono pubblicati trentasei eccettuati dalla grazia fatta dall'Imperadore, i quali essendo stati sentenziati a morte, avendo avuta tal notizia il Prior di Bari, Cesare Mormile e gli altri, fuggirono tutti via: solamente fu preso Placido di Sangro, e fu portato prigione in Castello; ma dopo certo tempo ne fur aggraziati molti, eccetto il Mormile, e tutti coloro, che andarono a servire al Re di Francia, a' quali furono confiscati i beni, e venduti: ed eccetto anche l'infelice Giovan Vincenzo Brancaccio, uno degli eccettuati, il quale per sua disgrazia fu preso, e decapitato.

Dopo questo venne lettera dell'Imperadore alla città dichiarandola Fedelissima, perdonandole gli eccessi dei precedenti rumori; ma per gl'interessi corsi per quel conto, la condannò in centomila scudi per emenda. Dichiarò anche, che tutto quello, che il Vicerè avea detto e fatto, era stato di sua volontà, e che per l'avvenire fosse tenuto e riverito come la sua Persona.

Stava la città quasi ristorata e quieta; ma con tutto ciò teneva maneggio col Principe di Salerno, che rimase per suo ordine nella Corte dell'Imperadore, non troppo ben mirato, nè in molto credito: anzi rimproverato d'essere andato Ambasciadore della città, lasciandola con l'armi la mano, ed anche perchè si diceva, che non era legittimo Ambasciadore, per non essere stato eletto da tutte le Piazze; e per questa cagione interteneva con lettere la città, che non s'assicurasse del tutto; e mandò a chiederle, che mandasse nuovi Ambasciadori a confermare all'Imperadore quanto gli avea esposto da sua parte; e per ciò furono mandati Giulio Cesare Caracciolo per li Nobili, e Giovanni Battista del Pino per lo Popolo, i quali partirono a' 2 dicembre, e furono gratamente uditi dall'Imperadore. Non molto da poi ritornò anche dalla Corte il Principe di Salerno, e segretamente dava speranza ad alcuni, che si moveano di leggieri a crederlo, che l'Imperadore gli area promesso di rimovere il Vicerè dal governo del Regno; ma il Vicerè, che sapeva la verità, stava saldo, e colla stessa autorità di prima continuò a governarlo fin che visse.

In cotal guisa i Napoletani costantemente s'opposero all'Inquisizione, Tribunale per essi cotanto odioso ed abborrito. Dalla lettera dell'Imperador Carlo in poi, non si parlò più d'Inquisizione; e tanto più fu posto poi a quella silenzio, quanto che gli animi di Cesare e del Papa s'erano ingrossati, e l'odio fra loro molto cresciuto; poichè essendo stato in una congiura nel proprio palazzo trucidato a' 10 settembre di quest'anno Pier Luigi Farnese figliuolo del Papa, il Pontefice se ne afflisse sopra modo: non tanto per la morte violenta ed ignominiosa del figlio, quanto per la perdita di Piacenza, e perchè vedeva chiaramente il tutto essere succeduto con participazione di Cesare. E morto il Pontefice Paolo III, il suo successore Giulio III, ad istanza di D. Giovanni Manriquez Ambasciadore di Cesare a Roma, ed a' prieghi della città, spedì Bolla a' 7 aprile del 1544, diretta al Cardinal Pacecco, allora Luogotenente del Regno per l'Imperadore, colla quale, per far cosa grata a Cesare, al detto Cardinale ed alla città ordinò, che non si facessero più confiscazioni di beni di Eretici nel Regno, cassando tutte quelle, che insino allora fossero fatte.

Intanto il Vicerè Toledo, per estirpare qualche falsa opinione, ch'era rimasa in alcuni, prestava facilmente il braccio secolare al Vicario di Napoli, che vi procedeva, secondo il prescritto de' Canoni, per via ordinaria. Egli è però vero, che non si sradicò allora l'abuso, che lo vedremo durare per più anni appresso, cioè di mandarsi i prigioni a Roma agli Ufficiali di quella Inquisizione, ovvero esigerne dagl'inquisiti le malleverie di presentarsi ivi avanti que' Ufficiali; poichè così nel tempo di D. Pietro, come de' suoi successori lo vediamo praticato, cioè, che andati gl'inquisiti in Roma, fatta la abjura, e la penitenza ad essi imposta dagli Ufficiali di quella Inquisizione, n'erano poi rimandati alle loro case.

§. II. Inquisizione nuovamente tentata nel Regno di Filippo II ma pure costantemente rifiutata.

L'ordine del tempo richiederebbe, che si dovesse finir qui di parlare d'Inquisizione, e passare avanti nel racconto degli anni dell'Imperio di Cesare e del governo del Toledo; ma io stimo serbar miglior ordine proseguendo questa materia insino agl'ultimi nostri tempi, affinchè per non interrompere il filo, e per non venire di nuovo a trattarla, tutta intera, quanta ella è, sia collocata sotto gli occhi d'ogni uno: affinchè in uno sguardo tutta ravvisandola, possano i nostri con esattezza vedere i suoi orrori, e con quanta ragione i nostri maggiori l'abbian sempre abborrita, e si conosca con ciò, quanto siano grandi le grazie che debbonsi rendere al nostro Augustissimo Principe, che ce ne ha ora affatto resi liberi, ed esenti.

L'abborrimento, che i nostri maggiori concepirono all'Inquisizione, si è veduto, che procedè dall'orribil modo di procedere dell'Inquisizione di Spagna contra i Mori e gli Ebrei, a tempo di Ferdinando il Cattolico: ora quest'avversione la vedremo assai più crescere per li nuovi e più terribili modi del Tribunal dell'Inquisizione di Roma, sotto il Pontificato di Paolo IV nostro napoletano. Questo Pontefice, assunto che fu al Papato, quando gli altri suoi predecessori s'affaticavano, o almeno lo fingevano, che per estirpar tanti novelli errori surti nella Germania non vi fosse mezzo più proprio, che la convocazione d'un Concilio generale; egli all'incontro reputava, che l'Inquisizione fosse il vero ariete contra l'eresia e la più valida difesa della Sede Appostolica; onde fu tutto rivolto a porre con rigorose Costituzioni in maggior terrore quel Tribunale. Egli a' 15 febbrajo 1558 pubblicò una nuova Costituzione, la quale fece sottoscrivere da tutti i Cardinali, in cui rinovando qualunque censura, e pene pronunziate da' suoi predecessori, qualunque statuto de' Canoni, Concilj, e Padri in qualsivoglia tempo pubblicati contra gli Eretici, ordinò che fossero rimessi in uso gli andati in desuetudine, dichiarò, che tutti i Prelati e Principi, eziandio Re ed Imperadori caduti in eresia, fossero e s'intendessero privati de' Beneficj, Stati, Regni ed Imperj, senz'altra dichiarazione, ed inabili a poter essere restituiti a quelli, eziandio dalla Sede Appostolica: e li Beni, Stati, Regni, ed Imperj, s'intendano pubblicati e siano de' Cattolici, che gli occuperanno. E narra il Presidente Tuano, che, quando il Papa pochi anni prima di sua morte, si vide libero della cura della guerra, tutto si diede a render più vigorosa l'Inquisizione, ch'e' chiamava Ufficio Santissimo, volendo, che si esercitasse con la maggiore severità del mondo, come la sperimentò (per tacer d'altri) Pompeo Algieri da Nola, che come eretico lo fece bruciar vivo. A questo fine vi prepose Michele Gisleri Domenicano, fatto da lui Cardinale per l'austerità, ed asprezza de' suoi costumi, acciò l'esercitasse con maggior rigore, siccome fece; non solo in questo tempo, ch'era Inquisitor generale, ma anche da poi fatto Papa col nome di Pio V, il quale durante il suo Pontificato usò tali severità contro i sospetti d'eresia, che il Presidente Tuano non ebbe difficoltà di dire, che non senza orrore veniva a rapportarle. Volle ancora Paolo IV che a questo Tribunale si riportassero non solo le cause d'eresia, ma ancora altri delitti, li quali prima solevansi diffinire da altri Ordinari Giudici.

Erano surti fra noi a questi tempi li Teatini, li quali seguitando i vestigi del loro Istitutore, furono perciò tutti intesi ad invigilar sopra i Napoletani, e credevano non potere far cosa più grata al Pontefice, che andar a denunziare all'Inquisizione tutti coloro, ch'eglino credevano sospetti, ancorchè con debolissimi indizi, onde sovente di gravi disordini e tumulti nella città e nelle famiglie erano cagione; e se i Gesuiti surti nel medesimo tempo, loro emoli e competitori, non si fossero sovente opposti, di mali maggiori sarebbero stati cagione. Quindi l'abbominazione di questo Tribunale, non pur in Napoli, ma anche in Roma crebbe tanto, che morto il Pontefice Paolo a' 8 agosto del 1559, anzi ancora spirante, per l'odio concepito dal Popolo e Plebe Romana, gli ruppero la di lui Statua in Campidoglio, furono rotte le carceri ed estratti li prigioni, fu posto fuoco al luogo dell'Inquisizione, ed abbruciarono tutti i processi e scritture, che ivi si guardavano; e mancò poco, che il Convento della Minerva, dove i Frati soprastanti a quell'Ufficio abitavano, non fosse dal Popolo bruciato.

Ma in questi tempi s'accrebbe lo spavento non solo per lo terrore, che dava l'Inquisizione di Roma, ma molto più per quello, che per opera del Re Filippo II diede in quest'anno 1559 l'Inquisizione di Spagna per l'occasione che racconteremo.

Avendo Filippo, dopo la morte della Regina Maria d'Inghilterra sua seconda moglie, deliberato lasciar la Fiandra, e ritirarsi in Ispagna, viaggiando per mare, patì sì gran tempesta, che perduta quasi tutta l'armata, con una suppellettile preziosa, che seco portava, appena ne uscì salvo. Giunto che fu nel Porto di Cales, diceva d'essersi liberato per singolar provvidenza Divina, acciò s'adoperasse ad estirpare il Luteranesmo; al che diede presto principio, poichè come narra il Tuano, giunto appena in Ispagna, diede subito ordine, che si facesse diligente inquisizione contra tutti i Settarj, e sospetti d'eresie, per volergli egli severamente punire; e quando prima, secondo il caso portava, condennato uno, o più per le prave opinioni di Religione, tosto dopo la condanna si davano al carnefice per giustiziarli; furono, dopo quest'ordine del Re, i condennati per tutta la Spagna riserbati al suo arrivo, e condotti in Siviglia ed in Vagliadolid, dove con pompa teatrale doveano essere giustiziati. Il primo atto di questa spaventosa tragedia fu celebrato in Siviglia a' 27 settembre di quest'anno 1559, dove per dar un grand'esempio negli auspicj del suo governo, e per levar ad ogni uno la speranza di perdono e di clemenza, fece prima di tutti trarre dalla Torre Giovanni Ponzio Conte di Baileno, dove come Luterano era stato imprigionato, e portato come in trionfo nel teatro, ove fu bruciato dalle voraci fiamme: e con lui fu bruciato anche Giovanni Consalvo Predicatore. A costoro seguirono quattro nobili donne, Isabella Venia, Maria Viroesia, Cornelia e Bohorquia; e quel che accrebbe il funesto spettacolo di maggior misericordia e commiserazione, fu la tenera età e la intrepidezza di Bohorquia, la quale appena toccati i 21 anni, sofferse morte sì crudele con somma costanza. Le Case d'Isabella Venia, come quelle, nelle quali i Settarj ridotti a truppe aveano fatte le loro preci, furono da' fondamenti buttate a terra.

Dopo costoro furono bruciati Ferdinando di Fano, Giovanni Giuliano Ferdinando, detto volgarmente dalla picciolezza del suo corpo il Piccolo e Giovanni di Lione, il quale avendo ne' suoi primi anni nella nuova Spagna al Messico, esercitata l'arte di Sartore, da poi ritornato alla Patria, erasi fatto del Collegio di S. Isidoro, ove era occultamente professata la nuova religione. Accrebbe il lor numero Francesca Chaves Vergine a Dio sacrata nel Convento di S. Elisabetta, la quale da Giovanni Egidio Predicatore di Siviglia era stata istrutta, e Cristoforo Losado Medico. Del Collegio istesso di S. Isidoro furon arsi Cristofaro Arellanio e finalmente Garzia Arias, il quale, per essere stato il primo ad introdurre in quel Collegio i semi di questa nuova dottrina, fugli per ciò apparecchiato un rogo più grande e quivi vivo bruciato. Fu posto ancora fuoco al Collegio, onde tutto arse, e con esso buona parte della Città.

Rimaneano, per finir la tragedia, Egidio Predicatore di Siviglia e Costantino Ponzio: Egidio presso l'Imperador Carlo V per la sua pietà ed erudizione era entrato in tanta sua grazia, che Carlo l'avea disegnato Vescovo, ma poi accusato all'Inquisizione, sia per sua astuzia, sia per le persuasioni di Domenico Soto, avendo pubblicamente abjurato l'errore, fu liberato, e solamente a tempo gli aveano gl'Inquisitori interdetto l'ufficio di predicare, e delle altre cose sagre, e poco prima di questa tragedia si trovava già morto. Ma ora gl'Inquisitori, reputando avere allora con Egidio con troppa mitezza proceduto, ritrattarono la sua causa, chiamando in giudicio il suo cadavere, ed ancorchè morto, lo condannarono a morte. Non potendo bruciarlo vivo, fanno una sua effigie, e la buttano ad ardere nelle fiamme in quello spaventoso teatro. L'altro, Costantino Ponzio: fu egli Confessore di Carlo V nella sua solitudine, lo servì in quel ministero sino alla fine, e raccolse, nelle sue braccia l'Imperadore spirante; ma morto Cesare, imputato d'eresia, fu posto immediatamente in prigione, nella quale morì poco tempo prima di questa funebre pompa. Fu dagl'Inquisitori trattata la sua causa, e condennato, ancorchè morto, ad ardere nelle fiamme; gli fu tosto fatta la statua rappresentante la sua effigie in atto di predicare, spettacolo, che agli astanti mosse in alcuni in prima le lagrime, in altri il riso, ma in fine a tutti indignazione, vedendo, che se contra una statua inanimata si procedeva con questi modi, ben si conosceva non esser da sperare nè connivenza, nè misericordia da chi non riputava degno di rispetto colui, che infamato disonorava maggiormente la memoria dell'Imperadore suo padre.

Passò poi Filippo in ottobre a Vagliadolid, dove usando la stessa severità, fece in sua presenza, con simili lugubri apparati, bruciare ventotto della principal Nobiltà del paese, e ritener prigione Fr. Bartolommeo Caranza cotanto celebre nella prima reduzione del Concilio a Trento, fatto poi Arcivescovo di Toledo, principal prelato di Spagna, al quale furono eziandio tolte tutte l'entrate.

Queste crudeli ed orribili esecuzioni pervenute all'orecchie de' Napoletani, può ognuno immaginare di quanto orrore e spavento fossero cagione. Ma pochi anni appresso due occorrenze apportarono ad essi maggiori timori, e gli riempirono di continue agitazioni e tormentosi sospetti.

Nel Ducato di Milano, dalla Francia per la strada di Savoja, era di qua de' Monti passata la nuova dottrina, e cominciava già a serpeggiare la contagione delle nuove opinioni di Religione. Il Duca di Savoja, non venendogli permesso, per le congiunture de' tempi, di potere far altro, tollerava ne' suoi Stati alcuni occulti Protestanti; ma gli Spagnuoli, vedendo questo veleno insinuarsi nel Milanese, riputarono, per estirpare il male nello spuntare, di dover usare della loro severità. Il Re Filippo II istantemente chiedeva al Pontefice Pio IV, che in Milano s'ergesse per sua autorità il Tribunal dell'Inquisizione, siccome era in Ispagna. Ma il Papa, avendo portato l'affare in consulta nel Concistoro, molti Cardinali glie lo dissuasero; ed egli, per non esser molesto a cittadini di Milano, donde traeva l'origine, con dispiacere veniva a farlo, con tutto ciò, costretto dalle forti premure del Re, glie lo concedette, e ne gli spedì in quest'anno 1563 diploma. Quando i Milanesi furono di ciò avvisati, non avendo essi meno che i Napoletani quel Tribunale in orrore, s'esasperarono in maniera, che se non fosse stata presta la somma prudenza del Duca di Sessa lor Governadore ad occorrervi sarebber accadute in Milano le medesime rivoluzioni e tumulti, che avvennero in Napoli nel governo di D. Pietro di Toledo. Ferdinando Consalvo di Cordova Duca di Sessa, che allora era succeduto al Marchese di Pescara, per non vedere nel principio del suo governo questi moti, stimò mandar tosto più Cittadini al Re ed al Pontefice, per distoglierli dall'impresa: ed egli con suoi ufficj insinuò al Re, che istituire in Milano il Tribunale dell'Inquisizione, come in Ispagna, era lo stesso, che turbar tutto lo Stato, e porlo in iscompiglio e disordine. Il Re si quietò, e molto più il Pontefice, onde non si parlò più d'Inquisizione.

Questi medesimi timori sopraggiunsero poco da poi in Napoli, per un'occasione, che da più alto saremo ora a narrare. Quando sotto l'Imperio di Federico II per via d'eserciti armati, e non altrimenti di quello, che si faceva contra Saraceni, con crociate, si proccurava estirpar gli eretici di que' tempi, e particolarmente i Valdesi, ovvero Albigesi; questi rotti e fugati, e spogliati delle dignità e beni, si dissiparono in molte parti, e nella loro credenza ostinati, non potendo colle armi più difendersi, proccurarono di ricovrarsi in luoghi oscuri, dove da niuno osservati, così negletti mantennero la loro credenza. Alcuni si ricovrarono nella Provenza, in quel tratto de' Monti, che congiungono le Alpi con i Pirenei, dove lungamente se ne conservarono le reliquie sino al Pontificato di Giulio II, e più ancora. Altri si ricovrarono nella Germania, ed in alcuni Cantoni di Boemia, di Polonia e di Livonia fecero residenza, li quali da' Boemi erano chiamati Piccardi. Ed alcuni altri, secondo che narrano gravissimi Scrittori, fra' quali è il Presidente Tuano, si ricovrarono (chi il crederebbe)? presso di Noi in Calabria, ed in questa Provincia lungamente vissero, sino al Pontificato di Pio IV e 'l Regno di Filippo II, nel qual tempo governando il Regno il Duca d'Alcalà furono intieramente sterminati ed estinti.

Viveano costoro nella Provincia di Calabria citeriore in alcune Terre presso Cosenza, nominate la Guardia, Baccarizzo e S. Sisto, da loro medesimi fondate; anzi la Guardia fu detta perciò de' Lombardi, perchè essi che vennero ad abitarla, da oltre i monti e dalle parti di Lombardia ci vennero. Quivi, come in luoghi oscuri e negletti, vissero lungamente non osservati, nè curati. Fu prima in loro tanta semplicità ed ignoranza di buone lettere, che non vi era alcun timore, che potessero comunicar la loro dottrina ad altri: non era in alcuna considerazione il lor picciol numero; e mancando di qualunque erudizione, nè si curavano disseminar la loro dottrina, nè che altri fossero curiosi d'intenderla. Ma surta da poi in Germania l'eresia di Lutero, e quella, come si è veduto, arrivata sino a' Cantoni de' Svizzeri, e penetrata nei Piemontesi ed in alcuni Lombardi abitanti lungo il Pò, dond'essi traevano l'origine, e co' quali aveano continua corrispondenza, furono i primi appo noi, ch'ebbero le prime notizie della pretesa Riforma, e per esserne più distintamente informati, mandarono in Genevra, invitando alcuni di costoro a venire nelle loro Terre ad istruirli meglio di quella dottrina. Vennero con effetto da Genevra due Ministri seguaci di Lutero, i quali pubblicamente predicando la pretesa Riforma, ed insegnandola con particolari istruzioni e catechismi, non solo la disseminarono in quelle Terre della Calabria, ma la insinuarono nelle circostanti; e da quella Provincia già cominciava ad esserne attaccata l'altra vicina: poichè Faito, la Castelluccia e le Celle, Terre della Basilicata, eran già state contaminate. Chi prima si fosse accorto di questa infezione, narra il P. Fiore Capuccino, che fu un Prete nomato Gio. Antonio Anania da Taverna, fratello di Gio. Lorenzo famoso per l'opera data alle stampe De Natura Daemonum . Costui si trovava in quel tempo nella Casa del Marchese di Fuscaldo Spinelli, di cui era la Guardia, in qualità di Cappellano: onde per la vicinanza, e forse anche per la pratica, che teneva con quelle genti, s'accorse, che il male, se non si dava pronto rimedio, era per spandersi assai più; onde nel 1561 ne scrisse in Roma al Cardinal Alessandrino Inquisitor Generale, poi Papa Pio V. Il Cardinale commise al suo zelo di far sì, che facesse ravvedere quella gente degli errori, e la riducesse alla sana dottrina. Anania, tralasciato ogni altro impiego, avendo chiamati per compagni all'opra alcuni Gesuiti, i quali poco dianzi erano venuti in Calabria, si posero con molto vigore ad esortarli e predicar loro la verità; ma per molto che si travagliassero, pochissimo era il frutto de' loro sudori; poichè ostinati nei loro errori, non temendo nè minacce, nè la severità di qualunque castigo, vie più insolentivano e moltiplicavano. Bisognò per tanto ricorrere ad un più forte ed efficace rimedio: s'ebbe perciò ricorso al Duca d'Alcalà, il quale si trovava allora Vicerè del Regno: costui ne' principj credette bastare, che si procedesse contra di essi con un poco più di attenzione e vigilanza; onde scrisse al Vicario di Cosenza (come si vede dalla sua lettera rapportata dal Chioccarelli) che nelle cause de' carcerati, che egli teneva, della Guardia Lombarda inquisiti d'eresia, procedesse con voto e parere del Dottor Bernardino Santa Croce, che si ritrovava in quelle parti, siccome ne scrisse parimente al Santa Croce, che v'invigilasse; ma vedutosi poi che alla gravità del male non eran sufficienti questi rimedi ordinari, ed essendogli stato rappresentato, che gli Eretici in Calabria vie più si moltiplicavano e non temendo castighi nè minacce, erano per cagionare gravissimi disordini, il Vicerè, per reprimere la loro temerità, vi mandò un Giudice di Vicaria, Annibale Moles, con buon numero di soldati, parte condotti da Napoli, e parte raccolti da' paesi contorni: ma fu il Ministro mal ricevuto, perchè coloro sottrattisi dall'ubbidienza di qualunque Magistrato, si posero in campagna, e ragunato un sufficiente numero, con apparenza di formato esercito, vigorosamente gli resisterono, fermi di morire più tosto, che lasciar gli errori; anzi, come suole avvenire nelle guerre di Religione, niente paurosi, ma tutti festanti andavano giulivi ad incontrar la morte, persuasi, che così morendo, salivano in Cielo io compagnia degli Angeli a godersi il Signore. Il Duca d'Alcalà pensò valersi in quest'occasione di Scipione Spinelli Signore della Guardia, e fur rinforzate le sue genti, tanto che bisognò venire ad una battaglia campale per dissiparli: si combattè in fine vigorosamente, e con tutto che rimanessero sul campo molti di quelli morti, non perciò i rimasti s'arresero; ma pieni di coraggio, vedendo che per lo poco numero mal potevano resistere in campagna aperta, si ritirarono dentro le mura della Guardia, la quale, oltre la qualità del sito acconcia a resistere ad ogni nemico assalto, munirono così egregiamente, che ridottala in forma di un sicuro asilo, non temevano di niuno. Lo Spinelli, disperando dell'impresa, veggendo non poter loro resistere con aperta forza, si rivolse agli inganni, e riuscitogli d'introdurre nel Castello gente valorosa ed armata, fingendo di mandargli ivi prigioni, costoro scovrendosi poi, e menando con molto valor le mani, sbaragliarono li Capi, e fecero degli altri molta strage, altri fuggirono, ma molti rimasero prigioni: furono confiscati tutti i loro beni e gli ostinati, condennati alle fiamme, nell'istesso tempo, che Lodovico Pascale Piemontese lor Capo, era stato dalla Inquisizione fatto bruciare in Roma. In cotal guisa furono finalmente sterminati, e sopra questo argomento avea scritto in versi latini un giusto volume l'Anania; ma (siccome narra il P. Fiore) non permise l'autore stesso, che si desse alle stampe, onde ora siamo privi di quest'opera. Sterminati che in questo modo furono la maggior parte, per alcuni che v'erano sopravanzati non si trascurò di far ogni opera per ridurli in via: si proccurò con rigorosi catechismi e continue predicazioni sradicar gli errori; e dall'altra parte il Duca d'Alcalà prese con severità a castigarli; ordinando per ciò alla Regia Camera, che procedesse alla vendita de' beni confiscati a coloro, ch'erano stati condennati alla pena di morte naturale, nelle Terre della Guardia e di S. Sisto; si vietò con loro ogni commercio, e furon proibiti fra loro i matrimoni, sinchè spiantata affatto ogni radice di falsa dottrina, ripullulò in que' luoghi l'antica Fede; ed oggi gli abitatori, multiplicati in gran numero, vivono come gli altri, purissimi nella universal credenza.

Non meno in Calabria, che in Napoli fu duopo al Duca d'Alcalà usare il medesimo rigore. Erano ancor quivi rimasi molti semi di falsa dottrina. Le conversazioni, che si tennero a tempo del Toledo in Casa di Vittoria Colonna, e di Giulia Gonzaga sospette d'eresia, aveano contaminati molti: con tal occasione invigilandosi assai più, che non erasi prima fatto, se ne scoversero molti, che ne davano sospetto; onde furono con severissimi editti citati a comparire fra breve termine avanti il Vicario dell'Arcivescovo di Napoli sotto pena della confiscazione de' beni; ma sopra due cadde più severo castigo. Questi furono Giovan Francesco d'Alois della città di Caserta e Giovan Bernardino Gargano d'Aversa, i quali incarcerati, e come eretici condannati a morte, furono a' 24 di marzo del 1564 pubblicamente nel Mercato decapitati, ed al cospetto di tutta la città furon poi abbruciati. Si procedè alla confiscazione de' loro beni, ma non senza contrasto; poichè i Napoletani volevano far valere la Bolla di Giulio III accordata loro da Cesare, per la quale, come s'è detto, non poteva nel Regno farsi confiscazione de' beni degli Eretici; ciò che diede occasione a quelle dispute, che leggiamo presso i Reggenti Salernitano, e Revertera nella causa d'Alois.

Per questi rigorosi castighi, e dal vedersi andare d'accordo le Corti Ecclesiastica e Secolare, i Napoletani, oltre lo spavento che n'ebbero, concepirono timore, non fosse questo un concerto di mettere con tal pretesto in Napoli il Tribunal dell'Inquisizione cotanto da essi abborrito: ond'essendosi per la città di volgata fama, che il Duca d'Alcalà trattava di voler poner nel Regno l'Inquisizione secondo l'uso di Spagna, e sbigottita da tante citazioni, che si facevano dal Vicario sotto pena di confiscazione de' beni, molte famiglie colle loro robe se n'uscirono da Napoli, e per le decapitazioni e bruciamento seguito al Mercato di Alois e Gargano, postasi la città in bisbiglio, dubitandosi non si venisse alle armi, tutta la piazza della Rua Catalana e suo quartiere fu disabitato. Stette la Città in rivolta per molti dì e mesi, nel cui tempo furono tenute molte Assemblee dalle Piazze, le quali finalmente deputarono alcune persone, perchè andassero a parlar al Vicerè, ed a esporgli liberamente i loro sensi intorno a non voler permettere, seguendo l'esempio de' loro maggiori, Tribunale alcuno d'Inquisizione. Il Duca, come dotato di somma bontà e prudenza, conoscendo quanto a' Napoletani fosse odiosa tal novità, e quanto grandi le difficoltà che si sarebbero incontrate d'introdurla, e le fastidiose conseguenze, che partorì sotto il governo del Toledo, vi pose prudentemente silenzio e se n'astenne.

Ma la città non contenta di ciò, volle spedire al Re in Ispagna un suo Legato, a pregarlo, che in Napoli e nel Regno non si ponesse mai Inquisizione, nè, secondo il Concordato fatto nel Pontificato di Giulio III, potessero confiscarsi i beni degli Eretici. Si trascelse il famoso Paolo d'Arezzo, prima splendore nel nostro Consiglio di S. Chiara, poi della Religione Teatina, e finalmente Arcivescovo di Napoli e Cardinale. Ancorch'egli ritiratosi dal Foro ne' Chiostri, ne rifiutasse il peso, a' conforti del Cardinal Carlo Borromeo e del Papa istesso, accettò finalmente l'ambasceria. La città oltre alle sue lettere al Re drizzate, diegli istruzioni bastanti, e la Bolla di Giulio III, donde costava del Concordato suddetto. Partito egli in quest'anno 1564, e giunto nella Corte di Madrid, fu dal Re caramente accolto, ed avendogli esposti i desiderj della città, con presentargli le sue lettere, il Re liberalmente concedè a' Napoletani quanto chiedettero, ordinando, che nel Regno non si ponesse giammai Inquisizione, nè si dovesse praticare altra maniera di giudicio nelle cause di Religione, che l'ordinaria. Scrisse per ciò in questi sensi tre lettere, due alla città sotto li 10 marzo del 1565, ed un'altra sotto la medesima data al Duca d'Alcalà Vicerè, contenente la medesima dichiarazione, amendue rapportate dal Chioccarelli, nelle quali fra l'altre parole si leggono queste: Por tenor de la presente decimos, y declaramos, no aviendo ne ser nuestra intention, que en la dicha Ciudad, y Reyno se

ponga la Inquisicion en la forma de Espanna; si no que se proceda por la via ordenaria; como asta a qui, y que assi se observerà, y complirà con efecto con lo de adelante, sin que en ella aya falda: ed altrove: De manera que los Ordinarios agan bien su ofìcio, como se deve.

II P. Arezzo, tornato dalla sua ambasceria, fermossi in Roma, donde mandò alla città di Napoli relazione di quanto felicemente avea adoperato a Madrid e del buon successo di quell'affare: onde cessò ogni sospetto d'Inquisizione, restando i Napoletani contentissimi della benignità e clemenza del Re.

Ma in questi tempi con tutto ciò non eransi tolti gli abusi dell'Inquisizione di Roma. In vigor di queste Carte Regali gli Ordinari solamente potevan procedere con ordinarie maniere ne' delitti di Religione contra i loro sudditi: ma Roma proseguiva a procedere come prima, inchiedendo le persone del Regno, e sovente con assicurarsene, e far trasmettere insino a Roma i processi ed i carcerati. Egli è vero, che niente si faceva senza provvisione del Vicerè; e le commessioni, che venivano da Roma non s'eseguivano senza che prima non fossesi a quelle interposto l'Exequatur Regium, nel che il Duca d'Alcalà vi fu vigilantissimo. Ma quanto s'usava rigore ne' casi, che si fosse eseguita qualche commessione di Roma senza il Regio Exequatur, con ordinarsi la cassazione di tutti gli atti, e la scarcerazione de' carcerati, di che alcuni esempj si leggono del Duca d'Alcalà presso il Chioccarello; altrettanto, conceduto che s'era il Placito Regio, con facilità si davano alle richieste degl'Inquisitori di Roma favori ed ajuti, permettendo, che da' loro Commessari si fabbricassero come Delegati i processi, si carcerassero gl'indiziati, e si vendessero le loro robe per la rifazione delle spese; insino a permettere, che i carcerati si portassero in Roma, di qualunque condizione e qualità quelli si fossero.

È assai celebre l'inquisizione fatta dal S. Ufficio di Roma contra il Marchese di Vico, contra il quale fin dall'anno 1560 fu destinato un Commessario Appostolico, il quale nella città di Benevento ne prese informazione, citando per edictum testimoni de' luoghi circostanti, con esaminarli contra di quello. E mandato il processo in Roma, risoluta da quella Congregazione del S. Ufficio, tenuta dinanzi al Papa, la carcerazione del Marchese, il Cardinale Alessandrino a dì primo novembre del 1564 scrisse una lettera al Duca d'Alcalà, pregandolo, che gli mandasse carcerato nel S. Ufficio il Marchese di Vico con buona guardia, o che gli facesse dare grossa sicurtà di presentarsi in quello, essendogli stato così ordinato dai Cardinali suoi Colleghi in presenza del Papa; ed il Vicerè non ebbe riparo d'ordinare alla Vicaria, che facesse dar malleveria al Marchese di ducati diecimila di presentarsi al S. Ufficio di Roma.

(Degli avvenimenti di Galeazzo Caracciolo Marchese di Vico, come a questi tempi in Europa assai divolgati, non si dimenticò favellarne in due luoghi delle sue Istorie l. 9 et 84 il Presidente Tuano: e poichè da' medesimi si dimostra quanto ne' petti umani possa la forza della Religione, e sono in gran parte ignoti a' Napoletani, poichè niuno de' loro Scrittori no fece motto, ed il libricciuolo della di lui vita stampato nel 1681 in Ginevra nell'idioma Franzese, è si raro e a molti ignoto, che non è così facile averne copia, sarà bene qui distintamente rapportarli. Galeazzo Caracciolo nacque in Napoli nel mese di gennaio dell'anno 1517 da Nicol'Antonio, ovvero secondo il linguaggio de' Napoletani, da Colantonio Caracciolo Marchese di Vico: sua madre fu una Dama di pari nobiltà dell'illustre famiglia Caraffa; la quale ebbe per zio materno Gio. Pietro Caraffa figliuolo del Conte di Montorio, assunto poi al Pontificato sotto nome di Paolo IV. Non ebbe altri figliuoli maschi, che Galeazzo, il quale appena giunto all'età di venti anni fu dal Padre maritato con D. Vittoria figliuola del Duca di Nocera, che gli portò scudi ventimila di dote, dalla quale in processo di tempo ebbe sei figliuoli, quattro maschi e due femmine, ma non tutti sopravvissero al Padre. Fu impiegato fin dalla giovanezza a' servigi dell'Imperatore Carlo V, il quale avendolo creato Gentiluomo della chiave di oro, lo ritenne per qualche tempo presso di se nella Imperial sua Corte, ma tornato poi in Napoli in tempo che la dottrina delli nuovi Riformatori era in quella Città occultamente insegnata da Pietro Martire Vermiglio, prese amicizia con Giovanni Valdes Gentiluomo spagnuolo, il quale, siccome di sopra fu detto, era il principal Ministro, di cui il Vermiglio si valeva, come più istrutto della nuova dottrina, spezialmente intorno alla giustificazione, e che avea fatto molto studio sopra l'Epistole di S. Paolo; ma sopra tutto perchè avea gran dimestichezza e famigliarità con molti Nobili napoletani. Questi trasse molti alla sua credenza, con farli accorti di alcune vane superstizioni e dell'errore della propria giustificazione dell'uomo per li meriti proprj, e fra gli altri Galeazzo; ma colui che diede l'ultima spinta per farlo crollare, fu un Gentiluomo chiamato Gio. Franceso Caserta, suo parente, il quale lo strinse co' suoi discorsi ad assentire alla dottrina della giustificazione per i meriti di Gesù Cristo e l'indusse ad ascoltare i Sermoni di Pietro Martire, che faceva in S. Pietro ad Ara sopra l'Epistole di S. Paolo, i quali maggiormente lo confermarono. Ciò avvenne nell'anno 1541 quando Galeazzo non avea che 24 anni.

A questi tempi Marc'Antonio Flaminio erasi reso celebre per la sua letteratura, e per la famosa traduzione del Salterio in versi latini. Questi avendo inteso i talenti ed i progressi di Galeazzo, e ch'era disposto ad abbracciar la Riforma, gli scrisse una dotta lettera, nella quale per maggiormente animarlo a risolversi, fra le persone illustri che annoverò d'averla abbracciata, non si dimenticò di D. Vittoria Colonna Marchesa di Pescara. In tanto per li spessi viaggi, che Galeazzo faceva in Germania, veniva maggiormente ad istruirsi colla lettura di nuovi libri, che Lutero, ed i suoi seguaci incessantemente davano in Sassonia ed altrove alle stampe; e passando per Strasburg, s'incontrò con Pietro Martire, col quale riconosciutosi, ebbe lunghi colloqui e si determinò d'abbracciarla. Tornato in Napoli, pensò indi partire, per pubblicamente professarla altrove, e non farvi più ritorno; e celando al Padre ed alla moglie questo suo proponimento, raccolto qualche contante, che non oltrapassò la somma di duemila ducati, partì finalmente da Napoli a 21 marzo del 1551 d'età di 34 anni abbandonando Padre, Moglie, Figliuoli, onori, ricchezze e tutte le comodità di una Casa cotanto agiata ed illustre. Arrivato ad Ausburg, dove l'Imperadore si trovava, lo servì in Corte, fin che ivi dimorò; ma passando l'Imperadore a' 26 maggio del medesimo anno a Paesi Bassi, non volle seguirlo; sicchè Cesare partendo, egli prese il cammino verso Genevra, dove arrivò agli 8 di giugno. Quivi non trovò alcuno di sua conoscenza; eccetto, che a capo di due giorni arrivò colà un Gentiluomo di Siena nominato Lattanzio Rognoni, che l'avea conosciuto in Napoli. Questi per lo stesso stimolo di cambiar Religione erasi ritirato a Genevra, dove avendo dato sufficienti saggi de' suoi progressi, fu impiegato ne' seguenti anni al Ministero della Predicazione nella Chiesa degl'Italiani stabilita in Genevra da Galeazzo, come si dirà più innanzi. Fermatosi adunque Galeazzo in questa città, abiurò l'antica e professò la nuova Religione Riformata, e deliberò far quivi domicilio. Prese tosto amicizia con Giovanni Calvino, che la continuò fin'all'anno 1564, nel quale Calvino finì di vivere. Ebbe costui tanta stima e rispetto di Galeazzo, che ristampando i suoi Commentarj sopra la prima Lettera di S. Paolo a' Corintj, in questa seconda Edizione, li dedicò a Galeazzo; siccome si legge dalla sua lettera latina de' 23 gennaro 1556, premessa a questa seconda Edizione, nella quale cotanto commenda la sua fermezza e costanza di non lasciarsi smuovere dalla presa risoluzione, animandolo a non curare ciò, che il Mondo ignorante di se ragioni; ma di contentarsi avere Iddio per spettatore della sua probità.

La novella della venuta di Galeazzo a Genevra, e d'essersi quivi fermato, e d'aver mutata Religione, riempì la Corte dell'Imperadore e tutto il Mondo, e spezialmente Napoli di maraviglia e stupore. Il Marchese di Vico suo Padre, sua Moglie, figliuoli e tutti i Napoletani restarono attoniti.

Il Padre gli spedì un Giovane suo parente per ridurlo; ma giunto che fu costui a Genevra, con tutti i suoi sforzi, preghiere e lusinghe non potè smoverlo: sicchè essendosi affaticato in vano, se ne ritornò a Napoli infruttuosamente. Intanto non meno il Fisco Regio di Napoli, che la Congregazione del S. Officio di Roma, cominciarono a fabbricar processi contra Galeazzo. Ma quello che maggiormente angustiava l'infelice padre era, che dal Fisco se gli minacciava la confisca de' beni, con intento di dichiarare incapaci i suoi nepoti, figliuoli di Galeazzo della successione dei Feudi, dopo sua morte, a cagion del delitto di lesa Maestà Divina del loro padre, che inabilitava anche i figliuoli alla successione; sicchè il dolente Marchese per riparare un colpo sì fatale per la sua discendenza risolvè portarsi a piedi dell'Imperadore e ricorrere alla clemenza del medesimo per liberarsi dalla molestia fiscale. Risoluto adunque di partire, e dovendo passare per Venezia, fece intendere a Galeazzo, che desiderava nel passaggio vederlo: al che egli non ripugnando, fu destinata la città di Verona per l'abboccamento; avendogli il padre per indurlo a venire con sicurezza fattogli spedire salvo condotto dalla Republica di Venezia. Partì adunque Galeazzo da Genevra a' 29 di aprile del 1553 preparato a sostener gli assalti del Padre, a' quali andava incontro. Si videro e parlarono lungamente insieme. Il Marchese adoperò ogni arte ed industria, dissegli il pericolo nel quale eran i suoi figliuoli d'essere esclusi dalla successione de' suoi feudi, ma tutto indarno: onde vedendo di non poterlo rimuovere, lo pregò che almanco non ritornasse in Genevra, ma si fermasse in Italia nello Stato Veneto, ove sarebbe sicuro, finchè egli trattasse nella Corte dell'Imperadore di poter mettere in salvo i suoi figli. In questo Galeazzo l'ubbidì, e si fermò a Verona, dove si trattenne sino ad agosto: nel qual mese ebbe riscontro, che il Marchese dalla clemenza di Carlo V avea ottenuto quanto desiderava per i suoi nepoti. Mentre Galeazzo dimorava in Verona, Girolamo Fracastoro celebre Medico, Filosofo e Poeta di quei tempi volle provare se per mezzo della sua fama e dottrina potesse ridurlo: lusingandosi di poter con suoi argomenti convincerlo. Ma si adoperò indarno: Galeazzo stette fermo e deluse le speranze di Fracastoro. Tornato adunque a Genevra stabilì in questa Città la Politia Ecclesiastica per le famiglie Italiane. Andò poi in compagnia di Calvino a Basilea, e ridusse Massimiliano de' Conti Martinenghi di Brescia, e tornato a Genevra, con l'approvazione del Magistrato stabilì il Corpo della Chiesa Italiana con i suoi regolamenti, alla quale il Conte Massimiliano fu eletto primo Ministro, il quale predicava in lingua Italiana: onde rimane ancora l'istituto di farsi ivi le prediche in lingua Italiana.

Essendo stato nel 1555 eletto Pontefice Paolo IV fratello dell'Avola sua materna, il marchese padre concepì qualche speranza, che col favore del medesimo potesse ottenere al Figlio, non pur perdono, ma grazie per i di lui figliuoli: ma dovendosi cominciare dalla riduzione di Galeazzo, gli scrisse che dovendo fare un viaggio per Lombardia, si facesse trovar a Mantova per vederlo. Galeazzo fidando a se stesso, volle pure ubbidirlo, e partendo da Genevra a 15 di giugno, si portò a Mantova, ove trovò il Marchese Padre, il quale promettendogli molti favori, che avrebbe dal nuovo Papa conseguiti, se ritornasse nel primiero ovile, almanco riguardasse il bene che si sarebbe fatto a' propri figliuoli, i quali non potevano certamente profittarsi della parentela del Papa, avendo il padre eretico. Lo pregò, lo scongiurò, ma al fine vedendo la fermezza di Galeazzo, proruppe alle maledizioni ed alle onte, e tornossene in Roma, e narrando al Papa l'infruttuoso suo viaggio, in Napoli fece ritorno.

Galeazzo parte anche egli da Mantova, e va a Ferrara, dove per mezzo di Francesco Porto (uomo celebre per erudizione, il qual fu poi professore di lingua Greca nell'Accademia di Genevra) fu introdotto a far riverenza alla Duchessa di Ferrara, Renée de France figliuola del Re Lodovico XII, la quale gli dimandò di Calvino, volle esser intesa della Chiesa Italiana istituita in Genevra, e di vari articoli di Religione, e de' punti più principali di controversie.

Fin qui Galeazzo mostrando sua fermezza dava a tutti meraviglia di sua costanza; ma da ora avanti dava stupore; poichè vedendo il Marchese Padre, che egli nulla profittava, sapendo il debole di Galeazzo, il quale teneramente amava D. Vittoria sua moglie, fece che la medesima cominciasse a dargli stimoli, e mettesse in opra ogni industria e lusinga per ridurlo. Cominciò ella a più frequentemente scrivergli, aggiungendo lettere sopra lettere, ed ambasciate sopra ambasciate; alla fine gli scrisse che ardeva di desiderio di vederlo, e perciò che s'eleggesse una città de' Veneziani più prossima al Regno, dov'ella si sarebbe portata. Vinto Galeazzo dalle preghiere della moglie, fu di comun consenso eletta Lesina Isola della Dalmazia, ovvero Schiavonia nel Mar Adriatico appartenente a' Veneziani, la quale è posta dirimpetto a Vico Baronia del Marchese suo Padre. Andò Galeazzo a Lesina, aspettò lungo tempo D. Vittoria, la quale non comparve; onde pien di collera se ne tornò in Genevra. Appena che fu quivi arrivato, ecco che viene nuovamente sollecitato da D. Vittoria, pregandolo che si portasse colà, perchè ella in tutte le maniere dovea parlargli per uno scrupolo, che inquietava la sua coscienza; ed adduce più scuse, perchè non potè andare a Lesina.

Galeazzo si arrese, e partì di nuovo da Genevra li 7 di marzo del 1558, ed andò a dirittura a Lesina. Arrivato colà ebbe subito avviso, che il Marchese suo Padre, D. Vittoria e suoi Figliuoli s'erano frettolosamente portati a Vico, onde concepì speranza, che dovessero colà portarsi. Ma ebbe poi Lettere con nuove preghiere, che non avendogli attesa la parola un Nobile Veneziano, il quale l'avea promesso di portarla co' suoi figliuoli a Lesina dentro una Galea della Repubblica, lo pregavan di venire egli a Vico, dove l'aspettavano.

Galeazzo per gran desiderio di veder sua moglie si arrischia d'andare a Vico; qual risoluzione non fu approvata da' savj per non esporsi a' pericoli ed a nuovi assalti, che dovea superare: arrivò dunque a Vico, dove in quel Castello fu ricevuto con segni di molto giubilo da tutti. Il Padre cominciò a persuaderlo; ma vedendo che niente profittava proccurò che D. Vittoria gli dicesse, che il suo Confessore per scrupolo di coscienza le avea detto, che non poteva aver più con lui commercio, se non lasciava l'eresia. Galeazzo non per ciò si scosse, ma con intrepidezza grande gli rispose, ch'era contento del divorzio, e cominciò a parlar di partire. Quando videro ciò, cominciarono il Padre, la Moglie ed i Figliuoli, che se l'inginocchiarono avanti, a piangere, e ad usar ogni sforzo per ritenerlo. Non fu possibile. Egli partì frettolosamente, ed arrivò a Lesina e di là passò a Venezia, indi alla Valtellina a Chiavenna, e si restituì a Genevra.

Poco dopo Galeazzo consultò con Calvino del divorzio; ma Calvino non volle esser solo a risolverlo: fece che si consultasse il caso con altri Ministri nei Svizzeri e Grigioni, sopra tutti con Pietro Martire Vermiglio che si trovava allora a Zuric, e si mandarono a tutti lettere circolari. Unitosi il Concistoro Ecclesiastico, ed anche il Magistrato secolare, fu risoluto che potesse Galeazzo divertire dalla prima moglie, ed avesse libertà di contrarre nuovo maritaggio con altra.

Questo caso fu consultato con i migliori Teologi di que' tempi; ed il famoso Girolamo Zanchio di Bergamo, Professore di Teologia a Strasburgo nell'ottavo tomo delle sue opere porta le ragioni di questo divorzio. Portò la congiuntura, che in Genevra pure per causa di Religione erasi ritirata una Dama Franzese di Rouen chiamata Anna Fremery, vedova, ed in età di circa 40 anni: adunque a' 16 di Gennaro del 1560 Galeazzo si maritò colla medesima: colla quale visse in una perfetta concordia ed unione.

Il Presidente Tuono dopo aver parlato nel suo 9. libro della sorte di Galeazzo e della sua amicizia con Marc'Antonio Flaminio, rapporta ancora nel fine del libro 84 delle sue Istorie quasi che tutte l'avventure di Galeazzo, e fa menzione anche di questo secondo maritaggio.

Visse il resto di sua vita in Genevra con gran moderazione e modestia. Non volea esser chiamato Marchese, poichè vivea suo Padre; e dopo la di lui morte, l'Imperadore ai suoi figliuoli avea fatta la grazia di succedere nel Marchesato suddetto: con tutto ciò, tutti lo chiamavano Mr. le Marquis. Non era personaggio di conto, che passasse per Genevra, che non volesse vederlo, siccome fecero D. Francesco e D. Alfonso da Este fratelli del Duca di Ferrara, il Principe di Salerno, Ottavio Farnese Duca di Parma e di Piacenza ed altri Signori.

Fu in fine assalito da una lunga e grave malattia d'asma, la quale 37 maggio del 1586, mentr'era di 69 anni e 4 mesi, gli tolse la vita.

Dopo undici mesi, morì anche sua moglie Anna Fremery, dalla quale non ebbe figlioli.

Giovanni Jaquemot de Bar-le-Duc, uno de' migliori Poeti de' suoi tempi, per conservar di loro onorata memoria gli compose i due seguenti epitafj.

I.

Illustri Domino D. Galeacio Caracciolo, Marchionatus

Vici, in Regno Neapolitano, unico et legitimo Hæredi

P. P. L. P.

Italiam liqui Patriam, clarosque Penates,

Et laetam antiqua nobilitate domum;

Caesareaque manu porrectos fortis honores

Contempsi, et magnas Marchio divitias;

Ut te, Christe, ducem sequerer, contemptus et exul,

Et pauper varia pressus ubique cruce.

Nam nobis Coeli veros largiris honores.

Et patriam, et census annuos, atque domos.

Excepit profugum vicina Geneva Lemanno,

Meque suo civem fovit amica sinu.

Hic licet exigua nunc sim compostus in urna.

Nec claros cineres alta sepulchra premant,

Me decus Ausoniae gentis, me vera superbis

Majorem pietas Regibus esse facit.

II.

Lectissimæ, Matronæ, Annæ Fremeriæ Illustris Domini

D. Galeacii Caraccioli Uxori.

P. P. L. P.

Vix vix undecies repararat cornua Phaebe,

Conspicitur tristi funus in Urbe novum.

Anna suum conjux lacrymis venerata maritum,

Indomito tandem victa dolore cadit.

Illa sui cernens properantia tempora lethi

Dixit tunc demum funere laeta suo;

Quam nunc grata venis quam nunc tua jussa libenter,

Mors, sequor, ad sedes nam vehor aethereas.

Hie ubi certa quies concessa laboribus aura,

O conjux, tecum jam meliore fruar.

Pectore quem loto conceperat illa dolorem

Sola superveniens vincere mors potuit.

Il Cardinal di Granvela, appena giunto al governo del Regno, permise, che due vecchie Catalane, che non vollero abjurare il Giudaismo, fossero condotte in Roma, dove persistendo nella loro ostinazione, furono pubblicamente fatte morire.

Parimente nel governo del Duca d'Ossuna, scrisse questo Vicerè una lettera Regia al Governadore di Calabria sotto li 14 novembre del 1583, nella quale gli diceva, che il Cardinal Savelli in nome di Sua Santità gli avea scritto, che per cose toccanti al S. Ufficio v'era bisogno in Roma della persona di Giovan-Battista Spinelli Principe della Scalea: che perciò desiderando egli di dare ogni soddisfazione ed ajuto alle cose toccanti al detto S. Ufficio, gli ordinava e comandava, che portatosi di persona dove quegli si trovava, lo incarcerasse e lo conducesse prigione nella Regia Udienza, e dando malleveria di ducati venticinquemila di presentarsi dirittamente fra un mese nel S. Ufficio della Città di Roma, e non partirsi di là senza licenza di quel Tribunale, lo lasciasse libero, e non dandola, lo ritenesse carcerato, e ne lo avvisasse.

Questo medesimo Vicerè ordinò ancora a' 9 dicembre del 1585 al Reggente di Vicaria, ch'essendogli stato scritto da Roma dal Cardinal Savelli, che per cause toccanti alla Religione teneva bisogno nel S. Ufficio della persona di Francesco Conte Capitano dell'Isola di Capri, che lo 'ncarcerasse, e dando malleveria di duc. 1000 di presentarsi in quel Tribunale, lo scarcerasse. Consimile ordine spedì a' 8 marzo del 1586 a Callo Spinello Reggente della Vicaria, comandandogli, che mandasse carcerato colla guardia del Capitan di Campagna, o Terra di Lavoro nel S. Ufficio di Roma Francesco Amoroso, Capitano che fu di Pietra Molara, e lo consegnasse a que' Ministri.

Il Conte di Miranda calcò le medesime pedate, e pur che si ricercasse licenza, o Exequatur Regium, che con facilità era conceduto, prestavasi all'Inquisizione di Roma ogni ajuto e favore, in pregiudizio gravissimo del Regno, e de' suoi naturali. Di che poi ne nacquero maggiori disordini, perchè pretendendo la Corte di Roma non istar sottopposte le sue commessioni ed ordini a verun Placito Regio, facea quelli valere, senza ricercarne permesso; onde sovente i Commessarj del S. Ufficio destinati da Roma, la quale soleva per lo più mandar le commessioni a' Vescovi, incarceravano i laici senza licenza del Vicerè, e gli mandavan subito in Roma.

§. III Inquisizione occultamente tentata da Roma introdursi in Napoli ne' Regni di Filippo III e IV e di Carlo II, ma sempre rifiutata, ed ultimamente con Editto dell'Imperador Carlo VI, affatto sterminata.

L'Inquisizione di Roma era a questi tempi arrivata a tanta alterigia, che pretendeva, che gli Re stessi ed i maggiori Monarchi della Terra stessero a quella soggetti. Introdussero perciò un doppio modo di procedere, uno aperto ed a tutti noto, del qual si servivano contro al popolo ed alle vili persone, che condannava a morte; l'altro segreto ed occulto, per lo quale i Re e le persone Regali erano di nascosto condannati; e si trovò anche modo di poter eseguire contra i medesimi le loro condanne, dichiarandoli decaduti dal Regno, con dar permesso a' sediziosi e malcontenti, concedendo loro, per maggiormente invitarli, indulgenze e sicurezza di coscienza, di cacciargli dal Regno, ovvero occultamente d'insidiar loro la vita. Il cui misterioso ed occulto modo di procedere lo appalesò a noi Francesco Suarez Gesuita Spagnuolo nel suo libro, che intitolò Defensio Fidei. E Richerio rapporta, che per mezzo de' Gesuiti sovente ponessero in pratica questo occulto procedimento, e forse tale fu quello tenuto in Francia contro alla persona di Errico III. Diedesi parimente alla luce nell'anno 1585 un libro stampato in Roma, intitolato Directorium Inquisitorum, dove s'unirono insieme tante sconcezze, che portarono orrore a tutto il Mondo: che l'Ufficio Santo dell'Inquisizione avesse potestà di sentenziare capitaliter in Haereticos, et Fautores Haereticorum: che il Papa ha l'una e l'altra spada spirituale e temporale, per giudicare tutti, anche i Re: che questo S. Ufficio debba procedere per delationem, aut denunciationem et inquisitionem, lasciando da parte stare il procedere per accusationem, perchè questo è un modo multum periculosus, et multum litigiosus: che s'ammettano tutti a render testimonianza, anche i nemici e le persone infami, anche spergiuri, ruffiani, meretrici ed ogni altro: che non debbiasi dar nota dei testimonj e de' loro detti: non si ricevano appellazioni. In breve, rotte tutte le leggi della difesa e tutti gli ordini giudiziarj, senza ordine e senza dependenza d'alcuno, gl'Inquisitori procedessero. Quindi si videro in Roma nella fine di questo secolo strepitose esecuzioni contra i sospetti d'eresia, fra' quali fu Giordano Bruno da Nola Domenicano, il quale nell'anno 1600 fu bruciato in Roma, essendogli stato imputato, che insegnasse la pluralità de' Mondi, e tenesse che i soli Giudei erano discesi da Adamo, e che Mosè fosse stato un gran Mago.

Quindi nel nostro Regno non si proccurava più Regio Placito alle loro commissioni, e si procedeva con tal'independenza, siccome in tempo del governo del Duca d'Alba nel 1628 faceva il Vescovo di Molfetta, come Commessario del S. Ufficio di Roma, ed il Nunzio Appostolico di Napoli. E pretendendo ostinatamente poterlo fare, bisognò che s'impegnassero prima i migliori Giureconsulti di que' tempi a farne veder gli abusi, e poi il Re istesso a levarli. Diede alle stampe con tal'occasione Fabio Capece Galeota, allora Regio Consigliere ed Avvocato del Regal Patrimonio, un suo Discorso indrizzato al Duca d'Alba, ed alcune allegazioni: parimente il Presidente di Camera Vincenzo Corcione diede fuori altre sue allegazioni, mostrando essere contra non meno al dritto, che all'inveterato costume del Regno, poner mano ad incarcerarsi nessuna persona di quello per causa d'eresia, senza prima darne notizia al Vicerè che governa, e con sua licenza.

Dal che ne nacque una carta del Re Filippo III, per la quale fu ordinato, che gli ordini del S. Ufficio di Roma non potessero in verun modo eseguirsi nel Regno senza saputa del Vicerè: dichiarandosi, che ciò non s'intendeva per gli Tribunali del S. Ufficio della Corte de' Vescovi ed Arcivescovi del Regno, li quali facendo il loro ufficio ordinario per le cause di religione non han bisogno d'Exequatur Regium. Ma che non possano eseguire quel che loro vien commesso dalla Congregazione, o da Sua Santità da Roma senza darne parte a Sua Eccellenza.

Non fu per questa carta del Re Filippo III bastantemente rimediato a' pregiudizj del Regno: poichè non per ciò all'Inquisizione di Roma si proibivano le Commessioni a' Vescovi, che procedessero come loro Delegati, ma contenti solo dell'Exequatur, si dava loro tutto il favore, i processi li fabbricavano essi, s'imprigionava, ed i carcerati si mandavano a Roma: quando per le lettere del Re Filippo II a' soli Vescovi del Regno, come Ordinarj, non come Delegati del S. Ufficio di Roma, dovea permettersi il procedere nelle cause di Religione.

Videsi ciò nell'anno 1614 nella famosa causa di Suor Giulia di Marco da Sepino, nel Terz'Ordine di S. Francesco, del P. Agnello Arciero Crocifero, e del Dottor Giuseppe de Vicariis, li quali in Napoli, facendo mal uso della Mistica, diedero in mille spropositi e laidezze; ed avean dato principio ad una abbominevol Compagnia, alla quale aveano arrolati più loro discepoli, e maschi e femmine. Procedeva in quella Fr. Diodato Gentile Vescovo di Caserta, il quale dimorava in Napoli con carica de' negozj del S. Ufficio, conferitagli dall'Inquisizione di Roma, dalla quale prima gli venne imposto, che Suor Giulia si chiudesse in Monastero; e da poi per ordine della medesima Inquisizione fu fatta trasferire a Cerreto in altro Monastero. Il P. Agnello fu chiamato dal S. Ufficio di Roma, ove si presentò, da cui gli fu tolta la facoltà di udir più confessioni, e gli fu imposto, che non tornasse più in Napoli. Creato da Paolo V il Vescovo di Caserta Nunzio di Napoli, fu data la carica d'Inquisitore al Vescovo di Nocera Fr. Stefano de Vicariis, il quale proccurò da Roma licenza, che Suor Giulia si fosse trasportata in Nocera, come fu eseguito. Ebbe Giulia partigiani molto potenti, fra' quali fu Fabio di Costanzo Marchese di Corleto, e Reggente Decano del Consiglio Collaterale, il quale ottenne alla Congregazione del S. Ufficio di Roma, di cui allora era Capo Inquisitore il Cardinal d'Aragona, che Giulia potesse ritornare in Napoli, siccome tornò, e D. Alfonso Suarez allora Reggente e Luogotenente della Regia Camera le diede un comodo appartamento nel suo Palazzo, dove, per l'opinione della sua finta santità, tirò a se gran concorso non meno di Signori grandi e di Nobili, e particolarmente di Spagnuoli, ch'erano il più inclinati a simili Fanatismi, ma anche di Dame, e gentili donne. Ma i PP. Teatini per mezzo delle confessioni, che alcuni incauti discepoli di Suor Giulia fecero ad essi, scovrirono le laidezze, che si commettevano in quella Compagnia, ed indussero coloro a denunciarli a Monsignor Vescovo di Nocera Inquisitore, e presero l'assunto di fargli vedere co' proprj occhi nelle stanze di Suor Giulia l'empie nozze, e gl'infami congiungimenti d'uomini e donne. E fatto questo, sospettando i Teatini del Vescovo di Nocera, da essi creduto troppo parziale del partito di Suor Giulia, scrissero in Roma a' Cardinali del S. Ufficio ragguagliando loro di quanto occorreva, li quali commisero quest'affare a Monsignor Maranta Vescovo di Calvi, il quale come Delegato dell'Inquisizione di Roma cominci a procedere.

Ebbero i Teatini in questa causa per oppositori i PP. Gesuiti, li quali, essendo loro emuli antichi, favorivano Suor Giulia, ed avevano aggregato al loro Oratorio Giuseppe de Vicariis: e tanto più vigorosamente n'intrapresero la difesa, quanto che vedevano, che il Vicerè istesso, il Conte di Lemos, indotto da' partigiani di Giulia n'avea presa la protezione; poichè avendo il Vescovo Maranta voluto procedere all'esame de' testimonj, fu tosto chiamato dal Vicerè, che gli domandò, se egli procedeva con commessione del S. Ufficio di Roma. Ma il Maranta oltre avergli mostrato le commessioni di Roma, scoprì al Vicerè le scelleraggini, che si commettevano in quella Compagnia, avanzandosi insino a dirgli, che non facesse praticare i discepoli di Suor Giulia con la Viceregina sua moglie. Il Vicerè sorpreso per tal avviso, dando fede alle parole del Vescovo gli permise, ch'incarcerasse tosto Suor Giulia e Giuseppe de Vicariis, li quali furono portati nella prigione dell'Arcivescovado.

Questa sì improvisa carcerazione pose in romore la città; poichè i partigiani di Giulia, ch'erano per lo più Signori, Ufficiali e Religiosi di Ordini cospicui, commossero tutta la città, ed altamente strepitando d'un cotal modo di procedere di fatto, ricorsero dal Vicerè, dicendogli, che ciò che s'imputava a coloro, era tutta calunnia e malignità de' PP. Teatini, li quali s'eran mossi per livore ed invidia, ch'essi hanno contra i Gesuiti, e per levar loro il concorso, che avevano per cagione de' discepoli di Suor Giulia, che frequentavano le coloro Chiese. Furono così efficaci e calorosi questi ufficj presso il Vicerè, che cominciò a dubitare, non fosse ciò tutta impostura dei Teatini, per iscreditare i Gesuiti; onde tornò a chiamarsi il Vescovo Maranta, e parlatogli con molta severità e rigidezza, colui per sua discolpa, e per maggiormente renderlo certo, che non eran calunnie, gli diede il processo da lui fabbricato contra de' rei, acciocchè si rimanesse di favorirli. Il Vicerè lo diede ad osservare a' suoi Ministri, onde facilmente vennero i protettori di Giulia a sapere le denuncie, ed i testimoni, e per ciò s'accinsero ad una valida difesa, ed elessero per Avvocato de' Rei il famoso Scipione Rovito.

Dall'altra parte i Teatini, sopra i quali veniva a cader la tempesta, diedero immantenente avviso agl'Inquisitori di Roma de' disordini accaduti per avere il Maranta pubblicato il processo: ciocchè dispiacque a Roma; onde ordinarono al Vescovo di Calvi, che più non s'intromettesse in questa causa, anzi lo chiamarono in Roma a renderne conto; e nell'istesso tempo delegarono la causa a Monsignor Nunzio, con ordinargli, che in quella severamente procedesse, secondo le leggi di quel Tribunale.

Il Nunzio, senza che gli si facesse ostacolo alcuno, procedè come Delegato nella causa, secondo l'ordine del S. Ufficio di Roma: prese nuova e più rigorosa informazione; trasferì dal carcere dell'Arcivescovado Suor Giulia e Giuseppe e li rinchiuse nel carcere del suo Palazzo, e datone avviso in Roma, gli fu dagl'Inquisitori comandato, che con buone guardie e sicure cautele mandasse i prigioni al S. Ufficio di Roma, dove ancor essi aveano in duro carcere ristretto il P. Agnello già Confessore di Suor Giulia. Eseguì il Nunzio con molta segretezza di notte tempo l'ordine di Roma, e prima giunsero in Roma, che si sapesse in Napoli il loro trasporto. Appena ciò saputosi da' partigiani di Giulia, che immantinente loro corsero dietro Girolamo di Martino, e D. Giovanni Salamanca per assistere alla lor difesa: ma giunti appena in Roma, furono anch'essi dagl'Inquisitori imprigionati; sebbene alquanti mesi da poi, a' 14 marzo del seguente anno 1615 il Salamanca fu liberato, con sicurtà di tremila scudi di Camera di presentarsi in Roma ad ogni ordine degl'Inquisitori, ed il Martino a' 11 aprile, con maggior sicurtà, e colle medesime condizioni.

Paolo V con particolar attenzione fece esaminare con molta diligenza ed assiduità dagl'Inquisitori la causa e convinti i rei de' loro falli, furono dichiarati eretici il P. Agnello, Suor Giulia, e Giuseppe de Vicariis; e, come tali, furono condannati alla pubblica abjura, ed a carcere perpetuo: onde a' 12 luglio dell'anno 1615 essendosi fatto ergere nella Chiesa della Minerva un più solenne apparato, in presenza del Collegio de' Cardinali, di molti altri principali Signori e d'un infinito Popolo, tutti e tre abjurarono i loro errori e nelle abjure confessarono tutte le loro sporcizie, ed i loro mistici delirj, ed affinchè i partigiani di Suor Giulia finissero di credere la sua falsa santità, per ordine dello stesso Pontefice furono a' 9 agosto letti nel Duomo di Napoli, non senza stupore ed ammirazion di tutti, i sommarj de' loro processi.

La somma accortezza e vigilanza della Corte di Roma, ed all'incontro la trascuraggine, o sia connivenza fra noi usata da' Ministri Regj, fece sì, che non ostanti gli editti de' nostri Re, si tollerassero in Napoli e nel Regno Inquisitori deputati da Roma e che sovente come Delegati procedessero contra gl'Imputati d'eresia o d'ebraismo, sino a permettere, che incarcerassero i Rei e li mandassero in Roma, dov'erano condannati ad abjurare nella Chiesa della Minerva: di che, se non fosse il rispetto d'alcune famiglie, che ancor durano, potrebbero recarsi molti esempj.

Ma nel Regno di Filippo IV l'indiscreto procedere di Monsignor Piazza, Ministro deputato da Roma per affari del S. Ufficio, pose di nuovo in romore la Città, tanto che i Napoletani fatti più accorti, attesero da dovero a toglier dal Regno ogni reliquia d'Inquisizione. Costui venuto in Napoli nel 1661, mentre governava il Regno il Conte di Pennaranda, pose sua residenza nel Convento de' PP. Girolamitani del B. Pietro di Pisa, dove riceveva le denunzie, e procedeva per commessione di Roma contra i sospetti d'eresia: avvenne in quell'anno, che un Religioso diede a leggere ad un Bolognese, che dimorava in Napoli, certo libro, ed avendo paruto a costui, che in quello vi fossero sentimenti poco cattolici, senz'altro riguardamento tosto andò a denunziare il Frate a Monsignor Piazza, ed a consignargli il libro. Trascorsi alquanti giorni chiese il Frate al Bolognese il libro; ma costui allegando varie scuse, differiva la restituzione; onde vedendosi il Frate burlato, trovandosi amico del barbiere del Duca delle Noci, andò da lui a chiedergli ajuto. Il barbiere con sua comitiva portossi immantenente dal Bolognese e minacciandolo agramente se non restituiva il libro, lo costrinse a prometterglielo il dì seguente. Tosto il Bolognese andò a pregare Monsignor Piazza, che gli desse il libro, narrandogli l'angustie, nelle quali si trovava, e che sarebbe capitato male, se non lo restituiva al padrone. Ma Monsignor Piazza in vece di dargli il libro, pose in aguato alcuni suoi Cursori, dando loro ordine, che arrestassero non meno il barbiere, che tutti coloro, che avevano insultato il denunciante, siccome in effetto furono imprigionati.

Una sì imprudente e scandalosa carcerazione riferita al Duca delle Noci, lo fece entrare in tanta stizza, che fattene gravi doglianze con molti Nobili, fece tosto unir le Piazze, ed egli spronato dall'ira portossi immantenente dal Vicerè, al quale, non potendo reprimer l'impeto della sua passione, parlò con sentimenti troppo audaci, e poco rispettosi: il Vicerè sorpreso di tanto ardire, prevedendo l'incendio, che ne poteva nascere, dissimulando discretamente la colui arroganza, per quietarlo, fece tosto per ambasciata avvertito Monsignor Piazza, che liberasse prigioni, come fu eseguito.

Ma ciò non bastò per acchetar la città posta in romori e sospetti, che si volesse per queste esecuzioni di fatto e di processi occulti poner Inquisizione formata, contro alle grazie, che n'avea ricevute dal Re Cattolico, dall'Imperador Carlo V, e dal Re Filippo II, e che perciò bisognava toglier ogni reliquia d'Inquisitori, appartenendosi la conoscenza delle cause di Religione a' Vescovi, i quali senza delegazione lor venuta da Roma, per la loro potestà debbiano procedere per via ordinaria, senza giudicj occulti, siccome procedono negli altri delitti Ecclesiastici. Ed essendosi perciò unite le Piazze, furono creati Deputati, affinchè rappresentassero al Vicerè li sentimenti della città ed attendessero sopra quest'importante affare con la maggior diligenza e vigilanza. I Deputati esposero al Conte di Pennaranda i sensi della città, risoluta a non soffrire più Inquisitori, rammentandogli gl'inconvenienti passati e l'abborrimento de' sudditi al nome d'Inquisizione. Il Conte veduta così costante risoluzione reputò con molta saviezza soddisfargli, ed avendone di ciò fatte lunghe rappresentazioni al Re, fece intanto intendere a Monsignor Piazza, che ratto sgombrasse la città e 'l Regno, siccome di fatto ne fu mandato via. E nell'istesso tempo crucciato col Duca delle Noci e con alcuni de' Deputati, che troppo arditamente e con soverchio ardore avean promosso quest'affare, fece porre il Duca nel Castel Nuovo, e poscia il mandò prigione in Ispagna, dove poi essendosi giustificato delle imputazioni, che gli si davano, tornò libero nel Regno nel mese di novembre dell'anno 1663. De' Deputati alcuni ne fur fatti prigioni, altri sequestrati nelle lor case e D. Tiberio Caraffa Principe di Chiusano, D. Rinaldo Miroballo e D. Andrea di Gennaro, per isfuggire i primi rigori del Vicerè si ricovrarono in Chiesa. Ma essendo alle rappresentazioni fatte al Re venute clementissime risposte, per le quali Filippo IV dichiarava, che non si dovesse sopra ciò permettere novità alcuna, e che dovessero alla città e Regno inviolabilmente osservarsi le ordinazioni de' suoi predecessori Monachi, e spezialmente del Re Filippo II suo avolo; il Vicerè con suo particolar biglietto ne diede notizia agli Eletti della Città ed a' suddetti Deputati, li quali essendo stati reintegrati nel favore del Conte, coll'occasione della natività del Re Carlo II andarono a rendergliene le dovute grazie. E si credette con ciò, che per l'avvenire non si dovesse Roma più impacciare di mandar nel Regno Inquisitori, o spedir delegazioni e commessioni a' suoi Vescovi per affari di Religione.

Il discacciamento di Monsignor Piazza fece arrestare alquanto gl'Inquisitori di Roma, ma non per ciò tralasciar affatto la pretensione, e di tentare, quando gli veniva in acconcio, nuove imprese. Si vide ciò chiaramente nel Regno di Carlo II per l'occasione di una nuova Filosofia introdotta in Napoli, la quale ponendo in discredito la Scolastica professata da' Monaci, non molto poteva piacere a Roma.

L'Accademia instituita in Napoli sotto il nome di Investiganti, della quale se ne dichiarò protettore il Marchese d'Arena, tolse la servitù, infin allora comunemente sofferta di giurare in verba Magistri, e rendette più liberi coloro che vi s'arrolavano di filosafare, postergata la Scolastica, secondo il dettame della ragione. Gli Accademici ivi aggregati erano tutti uomini dottissimi, ed i più insigni letterati della città, onde s'acquistarono molto credito presso gl'intendenti, e sopra tutto presso i giovani, a' quali non bisognò penar molto, per far loro conoscere gli errori ed i sogni della filosofia de' Chiostri. Aveano in Francia le Opere di Pietro Gassendo acquistata grandissima fama, così per la sua molta erudizione ed eloquenza, come per aver fatta risorgere la Filosofia d'Epicuro la quale al paragone di quella d'Aristotele, e spezialmente di quella insegnata nelle Scuole, era riputata la più soda e la più vera. Si proccurò farle venire in Napoli, e quando furono lette, fu incredibile l'amor de' giovani verso questo Scrittore, presi non men dalla sua dottrina, che dalla grande e varia letteratura; onde in breve tempo si fecero tutti Gassendisti; e questa filosofia era da' nuovi filosofanti professata; ed ancorchè Gassendo vestisse la filosofia d'Epicuro con abiti conformi alla religion cattolica, che professava, nulladimeno, poichè il maggior sostenitore di quella era Tito Lucrezio Caro, si diede con ciò occasione a molti di studiar questo Poeta, infin a que' tempi incognito, e sol a pochi noto. Gl'Investiganti però, non men di quello, che avea fatto Gassendo, scoprivano gli errori del Poeta, e gli detestavano a' giovani ed insegnavano, che quella filosofia non fosse da seguirsi in maniera, sì che non dovesse sottoporsi alla nostra Religione.

(Con tutto che dagli Accademici Investiganti fosse usata in ciò molta precauzione e prudenza; non poterono i giovani Napoletani sfuggire i falsi rapporti, che spargevano per Europa i Monaci, accaggionandoli, che per questi studj non ben sentivano dell'immortalità dell'anime umane. Sicchè Antonio Arnaldo in quell'accurato e dotto Libro, Difficultés proposées a Mr. Steyaert, declamando contra gli abusi introdotti in Roma di proibir i Libri senza discernimento, si duole, che Roma avea proibite le Opere di Renato delle Carte, per le quali era dimostrata quest'immortalità; ed all'incontro i Libri di Gassendo giravan franchi e liberi, con tutto che per le relazioni, che venivano da Napoli, erano assicurati, che avessero cagionato nella gioventù napolitana gran danno per le opinioni contrarie surte per la lettura dell'Opere di Lucrezio e di Gassendo).

Lo facevano ancora atterriti da ciò ch'era accaduto al famoso Galileo de' Galilei, il quale mal grado della sua veneranda canizie, fu costretto abjurar in Roma la sua opinione intorno al moto della Terra

Ma non trascorsero molti anni, che furono in Napoli portate l'opere di Renato des Cartes, e narrasi, che Tommaso Cornelio, famoso medico e filosofo di que' tempi fosse stato il primo ad introdurvele. Si diedero perciò i giovani, e spezialmente i Medici, a studiarle, e in poco tempo abbandonata la filosofia di Epicuro, s'appigliarono a quella di Renato; e coloro che prima erano Gassendisti, divennero a lungo andare fieri ed ostinati Renatisti.

Il vedersi per questi nuovi studj non solo abbandonate le Scuole de' Monaci: ma essi derisi per le tante fole che insegnavano, si cagionò un odio implacabile dei Frati contro a novelli filosofanti, a' quali imputavano perciò molti errori di Religione, cavillando ogni loro proposizione, e trattandoli da miscredenti.

Tanto bastò agl'Inquisitori di Roma, perchè ripigliassero le loro armi, e di nuovo tentassero d'introdurre in Napoli Commessarj del S. Ufficio per invigilare sopra gli andamenti di costoro. E non pur lo tentarono, ma svelatamente vi stabilirono un loro Inquisitore, il quale riceveva le denuncie, imprigionava, e quel ch'era più teneva in S. Domenico maggiore suo proprio carcere. Era costui Monsignor Gilberto Vescovo della Cava, il quale esercitava quest'ufficio con processi occulti e con tanto rigore e petulanza, che sovente costringeva molti con loro ignominia ad abjurare, solo perchè sostenevano opinioni filosofiche contrarie a quelle delle Scuole, ancorchè in quelle niun difetto di miscredenza si potesse notare; di che spesso sentivansi in Napoli, querele e disordini.

Mossi da ciò i Deputati del S. Ufficio ebbero ricorso al Conte di San Stefano, che allora si trovava Vicerè, al quale avendo esposti i desiderj della città determinata di non voler Inquisitore alcuno, ancor che con limitata facoltà, ma che nel Regno i Negozj di religione dovessero trattarsi per le vie ordinarie da' suoi Vescovi, gli fecero istanza, che il Vescovo della Cava prestamente uscisse dalla città e dal Regno, si togliesse la prigione che teneva in S. Domenico, ed i carcerati si trasportassero nelle carceri dell'Arcivescovo di Napoli, per doverli colui punire secondo il prescritto de' Canoni, e con via ordinaria. Il Vicerè avendo proposto l'affare nel Collateral Consiglio, con accordo del medesimo, ordinò, che uscisse tosto da Napoli e dal Regno l'Inquisitore, s'abolissero le carceri in S. Domenico, ed i carcerati si trasportassero in quelle dell'Arcivescovo, siccome fu eseguito; di che il Conte con suo particolar biglietto, spedito a' 27 di settembre dell'anno 1691, ne diede avviso agli Eletti, perchè la città rimanesse consolata della risoluzione presa conforme a' suoi desiderj.

Rappresentò ancora il Conte al Re Carlo II tutto ciò, ed il Re con sua real carta spedita da Madrid sotto li 25 Marzo del seguente anno 1692, non solo approvò tutto l'operato, ma ordinò ancora, che per l'avvenire s'osservassero inviolabilmente li privilegi sopra ciò conceduti alla città e Regno da' suoi predecessori; e che si passassero ufficj col Cardinal Arcivescovo di Napoli, che prendesse egli la conoscenza delle cause di que' carcerati; e che il Nunzio non si intromettesse affatto nelle cause d'Inquisizione; e per via del medesimo (siccome anche egli avea ordinato al Duca di Medina Celi suo Ambasciadore in Roma, che lo facesse) si facesse sentire al Pontefice, con renderlo certo, che la repugnanza di non ammettere Inquisitore alcuno in Napoli, era di tutta la città, non già d'alcuni particolari, siccome gli Ecclesiastici l'aveano dato a sentire.

Parimente essendosi per opera degl'Inquisitori di Roma fatti carcerare in Madrid due Napoletani, il Dottor Basilio Giannelli e Gio. Battista Menuzio, e correndo lo stesso pericolo Francesco Sernicola Inviato della città alla Corte, ebbero ricorso i Deputati del S. Ufficio al Re, rappresentandogli il gran rammarico di tutta la città per questo modo di procedere dell'Inquisizione di Roma, e pregandolo della loro scarcerazione. Ed il Re clementissimamente spedì altra sua regal carta sotto li 27 dello stesso mese, diretta al Conte di S. Stefano Vicerè, colla quale ratificando ciò che nella precedente avea comandato, consolò questo Pubblico avvisando, come il Menuzio era già libero, e che per ciò che riguardava la persona del Giannelli, avea già fatti passare con l'Inquisitor Generale premurosi ufficj, che senza dilazione lo scarcerasse, siccome fu poco da poi eseguito.

Ma tante risolute repulse, tanti pressanti e vigorosi ordini de' nostri Re, e la cotanta vigilanza de' Deputati nè meno bastò per far quetare gl'Inquisitori Romani. Essi non valendo loro più il procedere, come prima, alla svelata, con occulte e sottili invenzioni tentarono nuovi modi. Fecero nell'anno 1695 pubblicare un Editto in Roma, nel quale, secondo il procedere di quel Tribunale, si prescrivevano a' Vescovi ed Inquisitori varj regolamenti, come dovessero esercitare il lor Ufficio; e poichè riputano, che a' loro Editti, in tutta la Repubblica Cristiana, non vi sia bisogno di Placito Regio, ma che basti la pubblicazione fatta in Roma, per obbligar tutti; perciò occultamente tentarono, che tal Editto senza il Regio exequatur si pubblicasse in una Diocesi del Regno.

Parimente trovarono espediente di mandar le loro Commessioni agl'istessi Vescovi, imponendo loro che procedessero non come Ordinarj, ma come loro Delegati; e di vantaggio negli stessi Tribunali de' Vescovi vi creavano Ufficiali loro dipendenti con commessioni del S. Ufficio, valendosi per lo più di Frati e di Monaci.

Bisognò per tanto, che s'avesse nuovo ricorso al Re per estinguerne ogni vestigio e reliquia. L'opera fu cominciata nel Regno di Carlo II, ma ebbe il suo perfetto compimento nel Regno del nostro Augustissimo Imperadore Carlo VI. Sin da che entrarono nel Regno le sue felicissime armi, la città, come d'un affare importantissimo, lo tenne sollecito, perchè affatto spegnesse fra noi ogni vestigio d'Inquisizione.

Per far argine al primo inconveniente, spedì una sua regal carta da Barcellona a' 27 agosto nel 1709, drizzata al Cardinal Grimani Vicerè, per la quale colla maggior precisione e premura espressamente comandò, che non si desse esecuzione alcuna a qualunque Bolla, Breve, o altra Provisione che venisse da Roma, concernente affari d'Inquisizione, o che avessero la minima, anzi la più remota connessione, con l'idea d'introdurla nel Regno.

Per rimovere il secondo attentato d'introdurre nelle Corti vescovili Ufficiali dipendenti dall'Inquisizione di Roma, vi rimediò efficacemente il Cardinal Grimani Vicerè; poich'essendosi da' Napoletani scoverto, che un cotal Frate Teresiano Scalzo chiamato F. Maurizio frequentava spesso l'arcivescoval Corte di Napoli, con delegazioni segrete del S. Ufficio di Roma, del quale si vantava esser egli Commessario, fecero che immantenente l'Eletto del Popolo ricorresse dal Vicerè, affinchè ne cacciasse via il Frate, e facesse insinuare alla Corte arcivescovile, che nelle cause di S. Ufficio procedesse con via ordinaria, senza aver bisogno d'altri Ufficiali straordinari. Il Vicerè avendo tosto unito un Collaterale straordinario, con accordo del medesimo, s'uniformò a' desiderj della città, ed ordinò, che Fr. Maurizio fra due giorni diloggiasse dalla città, e otto dal Regno, siccome fu prontamente eseguito, ed il Cardinale con suo particolar biglietto, spedito a' 2 agosto del medesimo anno, ne diede avviso all'Eletto, per consolare il Popolo, della resoluzione presa.

Ma intanto non si tralasciava da' Deputati di pregare in Barcellona il Re, affinchè, per togliere ogni pretesto, che gli Ecclesiastici, con le loro sottili invenzioni, non li sovverchiassero ed opprimessero, degnassesi con suo regal dispaccio apertamente ordinare, che per l'avvenire nelle cause di Fede si proceda dagli Ordinari, per la via ordinaria, conforme si procede negli altri delitti comuni, e sta disposto dai sagri Canoni.

Il Re consentì alla domanda, e confermando alla città tutti i privilegi sopra ciò lor conceduti da' Re suoi predecessori, e spezialmente quello di Filippo II, precisamente ordinò al Cardinal Grimani suo Vicerè, che non permettesse de ninguna manera, que en las causas pertenecientes a nuestra Santa Fee, procedan sì no los Arzobispos, y demas Ordinarios de esse Reyno, como Ordinarios, con la via ordinaria, que se practica en los otros delitos, y causas criminales Ecclesiasticas, come si legge nel suo diploma spedito in Barcellona a' 15 settembre del riferito anno 1709. Per le quali ultime parole, che non si leggevano nel diploma di Filippo II, si tolse ogni pretesto agli Ecclesiastici di cavillare gli antichi privilegi, e d'inventare nuove sottigliezze.

Così rimase affatto estinto e dileguato presso di noi ogni vestigio d'Inquisizione; ma con tutto ciò non rimangono i Deputati, che con tanto zelo ed oculatezza invigilano sopra quest'affare, sicuri e fuor d'ogni timore di nuove sorprese. Per ciò bisogna esser perseveranti, e con indefessa applicazione in vigilar sempre su gli andamenti degli Ecclesiastici; li quali, per esser pur troppo accorti e diligenti, non tralascieranno le occasioni, quando lor verrà in acconcio, di tentar improvvisamente altre nuove e non pensate imprese.

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