Contese insorte per li Testamenti pretesi farsi da' Vescovi a coloro, che muojono senza ordinargli; ed intorno all'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria.
Quest'abuso ancora ebbe a combattere il nostro Duca d'Alcalà, che ne' suoi tempi erasi reso purtroppo insolente ed insoffribile. Ebbe principio, come fu da noi accennato ne' precedenti libri di quest'Istoria, ne' tempi dell'ignoranza, o per dir meglio della trascuraggine de' Principi e de' loro Ufficiali: nacque quando gli Ecclesiastici senza trovar chi lor resistesse, sostenevano, che ogni cosa, dove si trattasse di salvezza dell'anima, fosse di loro giurisdizione: per somigliante ragione mantenevano, che la conoscenza de' testamenti, essendo una materia di coscienza, loro s'appartenesse, dicendo medesimamente, ch'essi erano li naturali esecutori di quelli. Non s'arrossivano ancora di dire, che il corpo del defunto testatore, essendo lasciato alla Chiesa per la sepoltura, la Chiesa ancora s'era impadronita de' suoi mobili per quietare la sua coscienza, ed eseguire il suo testamento.
Ed in fatti in Inghilterra, il Vescovo o altro proposto da sua parte, s'impadroniva de' mobili di quello ch'era morto intestato, e gli conservava per 7 anni, nel qual termine potevano gli eredi, componendosi con lui, ripigliarseli. E Carlo di Loysò rapporta, che anticamente in Francia gli Ecclesiastici non volevano seppellire i morti, se non si metteva tra le lor mani il testamento, o in mancanza del testamento non s'otteneva comando speziale del Vescovo; tanto che gli eredi per salvare l'onore del defunto morto senza testare, dimandavano permissione di testare per lui ad pias causas; e di vantaggio vi erano Ecclesiastici, li quali costringevano gli eredi dell'intestato di convenire a prender uomini per arbitri, come il defunto, e che quantità avesse dovuto legare alla Chiesa; ma regolarmente quest'arbitrio se lo presero i Vescovi, i quali s'arrogavano questa autorità di disporre ad pias causas per coloro, che morivano senza testamento. Per questa intrapresa degli Ecclesiastici, fin a' nostri tempi è rimasto il costume, che i Curati ed i Vicari siano capaci di ricevere li testamenti come i Notari. Era per ciò rimaso in alcune Diocesi del nostro Regno che i Vescovi per antica consuetudine potessero disporre per l'anima del defunto intestato; e la pretensione erasi avanzata cotanto, che lusingavansi poter disporre delle robe di quello con applicarle eziandio a loro medesimi; ed in alcune parti del Regno i Prelati anche indistintamente pretesero d'applicarsi in beneficio loro la quarta parte de' mobili del defunto. Il Cardinal di Luca condanna gli eccessi e gli reputa abusivi, e vorrebbe riforma e moderazione secondo l'arbitrio di un uomo prudente. Parimente in Roma, le Congregazioni de Cardinali del Concilio e de' Vescovi, per render plausibile il costume, lo moderano e restringono a certe leggi; ma non assolutamente lo condannano. Così ancora Mario Caraffa Arcivescovo di Napoli, avendo nell'anno 1567 tenuto quivi un Concilio Provinciale, dichiarò in quello esser ciò un condannabile abuso, ma moderò la condanna con dire, che dove era tal consuetudine, il Vescovo con la pietà, che conviene, avendo riguardo al tempo, a luoghi, alle persone e con espresso consenso e volontà degli eredi, poteva dispensare alcuna moderata quantità di denari, per messe ed altre opere pie, per suffragio dell'anime di que' defunti. Ciò che fu approvato (siccome tutto il Sinodo) da Pio V, precedente esame e relazione della Congregazione de' Cardinali interpreti del Concilio.
Ma i nostri Re e loro Luogotenenti, come un abuso pernizioso, lo proibirono sempre ed affatto lo rifiutarono. Tengono nel Regno questa pretensione alquanti Vescovi, fondati nella consuetudine, come il Vescovo di Nocera de' Pagani, il Vescovo d'Alife, quello d'Oppido, l'altro di S. Marco ed alcuni altri, che possono osservarsi nell'Italia Sacra dell'Ughello.
Il Duca d'Alcalà non potendo soffrire nel suo governo questi abusi, siccome furono tolti in Francia ed altrove, proccurò anch'egli sterminarli nel nostro Regno, e vedendo che alcuni Vescovi, e fra gli altri quello d'Alife, s'erano in ciò ostinati, i quali negavan la sepoltura, quando loro non volesse in ciò consentirsi; oltre avere a quelli scritte gravi ortatorie, perchè se n'astenessero, scrisse nel 1570 una forte lettera a D. Giovanni di Zunica Ambasciadore del Re in Roma, incaricandogli, che parlasse al Pontefice con premura di questi aggravj, che si facevan da tali Vescovi, affinchè quelli con effetto se n'astenessero. L'Ambasciadore ne parlò al Papa, dal quale non ne ottenne altra risposta, che quando il defunto tiene erede, il Vescovo non può de jure testare per quello, ma se nol tiene, può farlo, per quel che tocca ad opere pie. Al Vescovo d'Oppido, che pretendeva ancora far testamenti a quelli, che morivano intestati, parimente si fece ortatoria, che se n'astenesse, e non avendo voluto ubbidire, assembratosi il Collateral Consiglio, fu determinato, che se gli potevano sequestrare i frutti, ma che prima di venirsi a ciò, se gli spedisse altra ortatoria.
Le medesime pedate furono da poi calcate da' Vicerè suoi successori: il Conte di Miranda, avendo il Vescovo di S. Marco scomunicata la Baronessa di S. Donato, perchè non voleva dargli la quarta parte de' beni mobili rimasi nell'eredità di D. Ippolito San Severino Barone di S. Donato suo marito, morto ab intestato, a' 31 marzo del 1586, gli scrisse una grave ortatoria, che l'assolvesse e non la molestasse; e non avendo voluto ubbidire, ordinò la carcerazione di tutti i parenti più stretti del suo Vicario, e 'l sequestro dei beni, e fecene da poi, a' 10 giugno del seguente anno, una Consulta al Re rappresentandogli il caso.
Parimente il Vescovo di Nocera de' Pagani pretese da Laudania Guerritore madre e tutrice de' figli ed eredi di Marcello Pepe di detta città di Nocera, di dovergli pagare quel ch'egli avea disposto nel testamento, che avea fatto ad pias causas per detto Marcello, morto ab intestato; ma il Vicerè scrissegli un ortatoria insinuandogli, che se n'astenesse, nè più per questa causa le dasse molestia. Nè, quando si voglia usare la debita vigilanza, si permettono ora più nel Regno simili abusi.
Non finirono qui i contrasti di giurisdizione col Duca d'Alcalà: per tralasciarne alcuni di non tanto momento, merita qui essere annoverato quello, che s'ebbe a sostenere per l'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria, che si pretese dagli Ecclesiastici renderlo vano ed inutile.
Fu antico costume nel nostro Regno, conforme per altro alle leggi ed alla ragione, che la cognizione del Chericato, quando s'opponeva ne' Tribunali Regj, perchè s'impedisse il procedere nelle cause de' Cherici, s'appartenesse a' Giudici medesimi, da' quali la rimessione si pretendeva. Così essi doveano conoscere delle Bolle, che si producevano, de' requisiti che bisognava colui avere per esser rimesso, di vestir abiti chericali, aver tonsura, vivere chericalmente, non mescolarsi in mercanzie ed ogni altro a ciò attenente; siccome per tutto il tempo, che regnarono fra noi i Re della illustre Casa d'Angiò, fu senz'alcuna controversia praticato; tanto che la Regina Giovanna II, nella compilazione de' Riti, che fece fare della Gran Corte della Vicaria, infra gli altri, vi fece anche inserir questo.
Nel Pontificato di Pio V, fra l'altre imprese degli Ecclesiastici si vide ancor questa che i Vescovi pretendevano, che alla sola loro asserzione si dovessero rimettere i Cherici, e che ad essi s'appartenesse la cognizione del Chericato, e se vi concorrevano i soliti requisiti. Il Vescovo d'Andria avendo ciò preteso, ed essendosegli negato, scomunicò il Governatore e Giudice di quella città, perchè non aveano rimessi alcuni carcerati; ma il Duca d'Alcalà approvò la condotta del Governatore, e a' 19 luglio del 1570 ne fece Consulta al Re, e scrisse all'Ambasciadore in Roma, che avesse rappresentato al Papa i pregiudizi e novità, che tentavano i Vescovi del Regno, e fra gl'altri di voler essi conoscere del Chericato, con togliere la cognizione a' Giudici Regj, che avean sempre avuta, conforme al Rito della Vicaria; con avvertirlo, che questa era una materia delle più importanti, che potevano occorrere nel Regno, non solo a riguardo dell'offesa della regal giurisdizione ed autorità, ma anche per la quiete de' popoli e de' sudditi di Sua Maestà. L'Ambasciadore trattò con efficacia l'affare col Pontefice, il quale avendo conosciuto la domanda essere ragionevole, risposegli, che non avrebbe alterato questo costume.
Ma non perciò gli Ecclesiastici restarono ne' seguenti tempi di proseguire l'impresa, sebbene trovaron sempre resistenza; anzi nel Viceregnato del Conte di Miranda venne lettera del Re, sotto li 12 decembre del 1587, che nel conoscersi delle cause di remissione de' Cherici procedessero i Tribunali ordinarj del Re, senza che in quelle si permettesse novità alcuna. E ne' tempi meno a noi lontani, il Consigliere ed Avvocato Fiscale allora del regal patrimonio, Fabio Capece Galeota diede in istampa un discorso drizzato al Vicerè Duca d'Alba, sostenendo questa pratica conforme al Rito, dimostrandola ancora non men legittima, che successivamente approvata in diversi tempi da Sommi Pontefici, e D. Pietro Urries ne compilò un trattato a parte, e se bene la Corte di Roma avesse vietato il libro, non si tenne però conto alcuno della proibizione, siccome si disse nel XXVII libro di quest'Istoria.