CAPITOLO II.

Morte del Re Ferdinando I d'Aragona; sue leggi che ci lasciò: e rinovellamento delle lettere e discipline che presso di noi fiorirono nel suo Regno e de' suoi successori Re Aragonesi.

Il Re Ferdinando, dissipati i suoi nemici, ed arricchito dalla rovina di tanti gran Signori, da' quali ebbe un tesoro inestimabile, continuò ne' sei altri anni, che visse, a regnare con somma quiete e pace: e le cose della città e del Regno si ridussero in un tranquillo e sicuro stato. Egli cominciò, per maggiormente stabilirsi in un più sicuro e continuato riposo, a tenere al suo soldo i migliori Capitani di quel tempo, de quali il primo era Virginio, appresso Gio. Giacomo Trivulzio ed i due Colonnesi Prospero e Fabrizio, e 'l Conte di Pittigliano ed altri: e si diede a fortificar di nuovo le fortezze della città e quelle del Regno, ed a ben munirle di necessari presidj, e con la prudenza sua e col valore del Duca di Calabria sperava di non avere a temere nè del Re di Spagna, nè di quello di Francia. Invigilava ancora a questo fine, per la quiete comune d'Italia, concorrendo nella medesima inclinazione di Lorenzo de' Medici, per mantenervi la pace; e quantunque in quello tempo fosse molto stimolato dal Duca di Calabria, il qual mal volentieri tollerava che Giovanni Galeazzo Sforza Duca di Milano maggiore già di venti anni, ritenendo solamente il nome Ducale, fosse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio, il quale avendo più di dieci anni prima presa la di lui tutela, e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d'arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello Stato, perseverava nel governo, non come Tutore o Governatore, ma dal titolo di Duca di Milano in fuori, con tutte le dimostrazioni ed azioni di Principe; nondimeno Ferdinando avendo innanzi agli occhi più l'utilità presente, che l'indignazione del figliuolo, benchè giusta, desiderava che Italia non s'alterasse; o perchè, come ponderò Francesco Guicciardini, avendo provato pochi anni prima con grandissimo pericolo l'odio contra se de' Baroni e de' popoli suoi, e sapendo l'affezione che per la memoria delle cose passate molti de' sudditi aveano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessero occasione d'assaltare il suo Regno, e perchè conoscesse essere necessaria l'unione sua con gli altri, e spezialmente con gli Stati di Milano e di Fiorenza, per far contrappeso alla potenza dei Vinegiani, formidabile allora a tutta Italia; ed in questa tranquillità si visse per alcuni anni.

Ma la morte accaduta nel mese d'aprile dell'anno 1492 di Lorenzo de' Medici, la quale pochi mesi appresso fu seguitata da quella d'Innocenzio VIII fece mutare lo stato delle cose, e che si preparassero più occasioni alle future calamità d'Italia e del Regno; poich'essendo succeduto ad Innocenzio Roderigo Borgia, nominato Alessandro VI, ed a Lorenzo, Pietro de Medici; e nate tra Pietro, che continuò la medesima alleanza col Re Ferdinando, e tra Lodovico Sforza aspre ed irreconciliabili discordie, ne procedè l'invito fatto da Lodovico a Carlo VIII Re di Francia per la conquista del Regno, e le altre calamità e disordini, che saranno il soggetto del seguente libro.

Il Re Ferdinando, che insino all'anno 1493, colla sua prudenza e consiglio, avea proccurato mantenere la quiete non meno del Regno che dell'Italia, sentendo queste mosse ed i grandi apparati di guerra, che si facevano in Francia, non tralasciò di far ogni opera e con Lodovico Sforza e coll'istesso Re Carlo per rimovergli dall'impresa; nulladimanco mostrandosi il Re di Francia alienissimo dalla concordia con Ferdinando, ed avendo comandato agli Oratori del medesimo, che come Oratori di Re nemico si partissero subito dal Regno di Francia; si vide incontanente il tutto ingombrato da grandi timori d'una crudele e nuova guerra. Ed a Ferdinando intanto per aver dovuto prepararsi a resistere ad un così potente inimico, affaticandosi più dell'ordinario a provvedere l'esercito che apparecchiava, gli sopravvenne un gran catarro, ed a questo essendo sopraggiunta la febbre, nel decimoquarto giorno di sua infermità lo tolse di vita in Napoli al 25 gennajo del 1494, sopraffatto più da' dispiaceri dell'animo che dall'età. Morte pur troppo funesta e luttuosa, e che portò seco la ruina, non pure della sua progenie e del Regno, ma ricolmò di infiniti mali e calamità l'Italia tutta; poichè la sua prudenza e celebrata industria era tanta, che si tenea per certo, che se fosse più vivuto, avrebbe tentato qualunque rimedio per impedire la passata de' Franzesi in Italia, ed avrebbe tollerato qualunque incomodo ed indegnità per soddisfare a Lodovico Sforza in tutto quello desiderasse per distaccarlo da' Franzesi, da lui invitati alla conquista del Regno.

Egli lasciò un Regno, che colla sua virtù avea condotto alla maggior grandezza, che forse molt'anni innanzi l'avesse posseduto Re alcuno. Oltre della buona disciplina militare, lo riordinò con provide e sagge leggi che ancora ci restano, e che sono le più culte che abbiamo di tutte l'altre, che vi stabilirono i Re angioini suoi predecessori, per le quali sin ad ora si governano i nostri Tribunali. Egli riordinò gli studj nella città di Napoli, donde ne uscirono molto valenti uomini in ogni scienza, tanto che i Napoletani fra i privilegi e grazie, delle quali cercarono la conferma al G. Capitano, una fu questa che ad esempio di Ferdinando, il Re Cattolico mantenesse questi studi Ebbe ancora il pregio, che nel suo regnare si rinovellassero presso noi i buoni studj e le discipline e le lettere riacquistassero la loro stima e riputazione, e che il Regno fiorisse non meno di famosi Giureconsulti che d'insigni letterati: che la giurisprudenza, la quale quasi per un secolo fra noi da pochi era professata ed era in declinazione, si ristabilisse, ed in maggior splendore si vedesse illustrata da tanti celebri Scrittori che nel suo Regno rilussero: che le leggi delle Pandette e del Codice fossero più adoperate, e con sommo studio la giurisprudenza romana abbracciata e commendata, donde nacque in noi la total dimenticanza delle leggi longobarde: che il Regno fosse più culto e la barbarie non fosse cotanta, così nelle scuole, come ne' nostri Autori.

I Rinovellamento delle buone lettere in Napoli.

L'origine di tal rinovellamento, non solo al favore di questo Principe, ma deve principalmente attribuirsi alla caduta di Costantinopoli. Passata questa città sotto la dominazione di Maometto II primo Imperador dei Turchi, ed invaso l'Imperio d'Oriente da questi barbari nemici delle buone lettere, molti uomini dotti che in Grecia ed in Costantinopoli dimoravano, per non rimanere in ischiavitù, si ritirarono co' loro libri in Italia, e molti nel nostro Regno, come quello che era lor più vicino. Oltre a tanti, di cui ora è il lor nome oscuro, vi vennero Emanuel Crisolora, Bessarione, Costantino Lascari Bizantino, che fu invitato da Ferdinando a legger lingua greca nell'Università degli studi di Napoli, Trapezunzio, Gaza, Argiropilo, Fletonte, Filelfo e molti altri, de' quali Giovio tessè accurati elogi.

Prima di questo tempo, come s'è potuto vedere nei precedenti libri di quest'Istoria, nelle Università degli studi d'Italia, le facoltà e le discipline erano insegnate, ma non con molto candore e polizia, nè molto s'attendeva allo studio delle lettere umane, e quantunque il Petrarca ed il Boccaccio avessero nel secolo precedente rilevata questa sorte di studi, non aveano ancora presso che niente avanzato.

La giurisprudenza, ancorchè nell'Accademie d'Italia ed in questa nostra di Napoli, s'insegnasse su i libri di Giustiniano e molti Professori vi faticassero attorno, chi in commentando le loro leggi, chi in glossandole e chi in altra maniera sponendole; nulladimanco poichè l'ignoranza del latino e della istoria romana impediva loro lo intender bene i testi, tutti si rapportavano ai Sommarj ed alle Chiose di coloro che credeansi esserne i meglio intesi; e quelli che non aveano il soccorso d'altri libri, non facevano altro che spiegare un luogo del Digesto o del Decreto per mezzo d'un altro luogo, collazionandolo insieme quanto più esattamente potevano, nel che Accursio sopra le Pandette riuscì maraviglioso. I difetti di tali maestri trassero in errore facilmente gli scolari; ed alcuni abusando la loro credulità, tramischiarono nelle loro Chiose etimologie ridicole e favole stravaganti, come fra gli altri in più luoghi fecero Accursio ed i Chiosatori del Decreto.

O perchè non comprendessero, non potersi praticare le leggi se non s'intendono, o perchè disperassero di meglio capirle, la loro applicazione più grande era di ridurle in pratica, trattando quistioni sopra le conseguenze, che deduceano da' Testi, e dando consigli e decisioni. Quando poi si volle applicare la legge romana sì mal intera, e sì lontana da' nostri costumi, ed istituti totalmente diversi da quelli de' Romani, ai nostri affari, e conservare nello stesso tempo le nostre usanze, le quali era impossibile di cangiare, le regole della giustizia divennero molto più incerte di prima, e s'intrigavano in quistioni sopra conseguenze, ch'essi credean dedurre da' Testi. Tutta la Giurisprudenza perciò si ridusse in dispute di scuola, e nelle opinioni de' Dottori, li quali non avendo cavati a bastanza i principj della morale, e della equità naturale dalle leggi romane, che ben, se l'avessero comprese, potevan apprendersi, sovente o cercavano i loro interessi particolari, ovvero si sposavano co' loro mal regolati ed ostinati pareri. Quelli pure, che cercavano la giustizia, non sapevano altri mezzi per proccurarla, che i rimedj particolari contro la ingiustizia: il che fece loro inventare tante clausole per li contratti e tante formalità per li Giudici.

Non così avvenne in questi medesimi secoli nella Grecia ed in Costantinopoli, così per ciò che riguarda le lettere umane e l'altre facoltà, come la Giurisprudenza; ed in quanto alle lettere umane, in Grecia gli Studi s'erano molto ben conservati, ed il solo Commento d'Eustazio sopra Omero dimostra esservi rimasta sino agli ultimi secoli infinità di libri e personaggi di grand'erudizione. In quanto alla giurisprudenza, il Corpo delle leggi e de' canoni raccolti da Leunclavio, e da Marquardo Freero, fanno vedere, che in Costantinopoli insino a' tempi del suo eccidio si conservava intatta. Le opere poi de' Giureconsulti greci, che fiorirono sino agli ultimi secoli, dimostrano ancora il medesimo: lo dimostrano le opere di Michele Attaliota, che fiorì nel 1077, di Michele Psello, che visse intorno a' medesimi tempi, di Costantino Armenopolo, che fiorì nel 1143, di Antioco Balsamone, di Giuseppe Tenedo, d'Eustazio Antecessore, ed altri Chiosatori Greci rapportati da Giovanni Doujat, e da Giovanni Leunclavio, e Marquardo Freero, il quale ne tessè una Cronologia, dalla morte di Giustiniano insino alla perdita di Costantinopoli.

Caduta per tanto Costantinopoli, e passata la Grecia sotto la dominazione di que' Barbari, si vide nella metà di questo secolo decimo quinto improvvisamente apparire una folla d'uomini letterati in queste nostre parti d'Occidente Ma la prima fu la nostra Italia: ella tiene il vanto essere stata la prima ricevitrice delle lettere: d'Italia l'apprese la Francia, poi passarono di mano in mano all'altre province d'Europa.

Que' dotti, che si ritirarono coi loro libri in Italia invogliarono gli altri allo studio delle buone lettere: questi con incredibile ansietà s'applicarono a leggere tutti i libri degli antichi, che potevano trovare, ed a scrivere in latino con maggior purità; poichè non mancava chi loro insegnasse il greco, si posero ad impararlo, e per far maggior profitto, così nell'una, come nell'altra lingua, si posero a tradurre in latino gli Autori greci, de' quali n'avean copia. L'arte dello stampare trovata, come si è detto, in questo medesimo tempo, fu loro di grandissimo ajuto per avere libri con facilità, ed averli anche ben corretti. Molti anche attendevano a fare edizioni eccellenti di tutti i buoni Autori sopra i manoscritti migliori, ricercando i più antichi e raccogliendone molti insieme. Altri fecero dizionari e gramatiche perfettissime; altri Commenti sopra Scrittori difficili; altri Trattati di tutto ciò, che può servire ad intenderli, come delle loro Favole, della Religione, del Governo e della Milizia. E nei tempi seguenti, poichè non tutto si fece in un tratto, questi studi furon coltivati tanto, che si discese sino alle menome particolarità de' loro costumi, de' loro vestiti, pranzi e divertimenti, tal che han fatto tutto lo sforzo necessario per farne intendere, dopo sì lungo intervallo di tempo, tutti i libri antichi greci, o latini, che ci restano. Ma poichè è difficile agli uomini il restringersi in una giusta mediocrità, si vider poi alcuni troppo fermati in questi studj che non sono che istromenti per gli studj più serii; perocchè vi furono molti curiosi, che passarono la loro vita studiando il latino ed il greco, e leggendo tutti gli Autori solamente per la lingua, o per intendere gli Autori medesimi, e spiegarne i luoghi più difficili, senz'arrivare più oltre, nè farne alcun altro buon uso. Furonvi tra quelli alcuni, che si fermarono nella sola mitologia e nelle antichità: altri che ricercarono le iscrizioni, le medaglie e tutto ciò che poteva illustrare gli Autori, ristringendosi nel solo diletto, che recavano queste curiosità.

Certi passando più avanti, studiarono negli antichi le regole delle belle arti, come della eloquenza e della poesia, senza mai praticarle, donde avvenne, che noi abbiamo tanti trattati moderni di poetica e di rettorica, ancorchè vi siano stati tanti pochi veri Oratori; e tanti trattati di politica fatti da' privati, che non sono stati giammai a parte degli affari pubblici.

Finalmente l'applicazione di leggere i libri antichi produsse in molti un rispetto sì cieco, che vollero più tosto anzi seguitare i coloro errori, che darsi la libertà di farne giudicio. Così si credette, che la natura fosse tale, quale è stata descritta da Plinio, e che ella non potesse operare, salvo che secondo i principj d'Aristotele. Ma il peggio si fu, che alcuni ammirarono troppo la lor morale, senza avvedersi quanto ella sia inferiore alla religione, che sin da' fanciulli aveano appresa: altri, benchè in picciol numero, diedero nell'eccesso opposto, affettando di contraddire agli antichi, e di allontanarsi da' loro principj.

Ma fra quelli, che ammirarono gli antichi, il più ordinario difetto era la cattiva imitazione. Si credette, che per iscrivere com'essi facevano, bisognava scrivere nella lor lingua, senza considerare, che i Romani scriveano in Latino, non già in Greco; e che i Greci scrivevano in Greco, non già in Egiziaco, o in Siriaco, Quindi avvenne, che la lingua toscana, che dal Petrarca, Boccaccio, e da alcuni altri del decimoquarto secolo si era rilevata tanto, cadesse in questo decimoquinto secolo, perchè tutti i Letterati d'Italia la disprezzarono come lingua del volgo; tanto che se nel seguente secolo Pietro Bembo e gli altri Letterati, che lo seguirono, non v'avessero fatto argine, e coll'esempio e colla ragione non avessero mostrato, che si poteva, così bene ed in ogni materia, scrivere nell'una, che nell'altra, sarebbe affatto rovinata; ma a questi tempi i dotti la disprezzavano, e s'appigliavano al Latino ed alcuni anche al Greco, dettando le loro composizioni in verso, o in prosa in questa lingua, con pericolo di non essere intesi da alcuno.

Cominciarono adunque in questo secolo presso noi a risorgere le lettere, le quali accolte da' favori del Re Ferdinando, Principe ancor egli letterato, fecero nel suo Regno non piccioli progressi. Alfonso suo padre avea accolti, come si è detto, nella sua Corte alcuni Letterati di que' tempi, Lorenzo Valla, Antonio Panormita ed alquanti altri, i quali invogliarono questo Principe a proteggerle; gli scoprirono le bellezze, la gravità e la prudenza dell'istoria romana; gli posero tanto a cuore i libri di Livio, che divennero perpetua sua lezione; e fecero educare il suo figliuolo Ferdinando, ch'egli avea destinato per successore del Regno di Napoli, non meno nell'esercizio delle armi, che delle lettere. Lo provide perciò Alfonso di buoni Maestri, oltre al Vescovo di Valenza Borgia, Cardinale e poi Papa, detto Calisto III, al Valla, e Panormita celebri al Mondo, ebbe anche Ferdinando per Maestro Paris de Puteo e Gabriele Altilio famoso Poeta di que' tempi e versatissimo nella lingua latina, che poi fu creato Vescovo di Policastro, de' quali appresso ragioneremo.

Allevato questo Principe tra' Letterati, divenne ancor egli non pur amante de' Letterati, ma letteratissimo. Di Ferdinando ancor si leggono alcune Epistole ed Orazioni elegantissime, donde si scorge il buon gusto, ch'egli avea delle buone lettere: di lui ancora non men che del Re Roberto potea dirsi, che

Fur le Muse nutrite a un tempo istesso,

Ed anco esercitate.

Furono queste sue Epistole ed Orazioni impresse nel 1586, e porta il libro questo titolo: Regis Ferdinandi, et aliorum Epistolae, ac Orationes utriusque militiae, etc. .

Non men che suo padre avea di lui fatto, fece egli de' suoi figliuoli: toltone Alfonso Duca di Calabria, che nato e cresciuto in mezzo alle armi, di genio feroce e guerriero, non ebbe alcuna inclinazione agli studi; Federigo secondogenito e gli altri suoi figliuoli furono dati alle discipline; Federigo fu letteratissimo, e D. Giovanni quartogenito vi fu parimente, tanto che dal padre fu destinato per la Chiesa, e dal Pontefice Sisto IV fu creato Cardinale, detto il Cardinal d'Aragona.

I suoi Segretarj e gli Ufficiali della sua Cancellaria non erano se non letterati: Antonio Petrucci suo primo Segretario fu discepolo di Lorenzo Valla, da cui apprese la purità della lingua latina e le lettere umane, e divenne uom dotto e versato in molte scienze. Giovanni Pontano suo secondo Segretario, che dopo la morte del Panormita occupò il suo luogo, niun è che non sappia quanto fosse celebre e rinomato in tutte le scienze e nella perizia della lingua latina. Quindi osserviamo, che le Prammatiche e gli Editti, che leggiamo del Re Ferdinando I, particolarmente quelli che si stabilirono nell'anno 1477 di cui più innanzi farem parola, poichè dettati da questi due politissimi Scrittori, siano i più culti e scritti in buon latino, ciò che non si vede negli altri de' nostri Re. Quindi ancora si vede, che non valendosi la Cancellaria de' nostri Re aragonesi d'altra lingua, che della latina ed italiana, i diplomi e l'altre scritture, che n'uscivano, quegli dettati in latino fossero tanto più culti, quanto quelli in italiano (per essere questa lingua disprezzata) rozzi e plebei.

Oltre della sua Cancellaria, si è di sopra veduto, che invitò all'Università degli Studj di Napoli i migliori Professori di que' tempi; ed è notabile per conferma di tutto ciò, quel che si legge in un suo diploma impresso dal Toppi, drizzato nel 1465 a Costantino Lascari di Bizanzio, dove mosso dalla fama d'un sì celebre Letterato, l'invita con grosso stipendio a leggere lingua greca nell'Università degli Studj di Napoli: Decrevimus vos ad lecturam graecorum Auctorum, Poëtatum scilicet, et Oratorum in hac Urbe Neapolis ad pubblice legendum praeficere, freti moribus vestris, et literis etiam confisi, per vos graecarum litterarum doctrina, ad frugem aliquam nostrorum dilectissimorum studentium ingenia perventura.

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