CAPITOLO I

Di Alboino I, Re d'Italia, che fermò la sua sede regia in Pavia; e degli altri Re suoi successori.

Non furono nel seguente anno 570 minori gli acquisti, che Alboino fece nella Liguria: avendo egli passato il fiume Adda, tosto prende Brescia, Bergamo, Lodi, Como e tutte l'altre castella della Liguria insino all'Alpi; indi all'impresa di Milano, capo della Provincia, s'accinge, che dopo breve assedio si rende alle sue armi. Passata questa città sotto il suo dominio, i Longobardi subito gridarono Alboino Re di Italia, e con acclamazioni giolive per tale lo salutarono, dandogli l'asta, ch'era allora l'insegna del Regio nome. I riti e le cerimonie, che si praticavano da queste Nazioni nella creazione de' loro Re, non erano, che d'innalzare l'eletto sopra uno scudo in mezzo all'esercito, e con acclamazioni gridarlo e salutarlo Re, dandogli in mano l'asta, in segno della Real dignità. Questo fu il principio del Regno de' Longobardi in Italia sotto Alboino I, Re d'Italia, ma XI. Re de' Longobardi, se tra la serie de' loro Principi, che ressero la Pannonia, vuolsi anche annoverare Valtau, che regnò poco, ed il suo Imperio fu molto contrastato. Noi, a' quali nulla giova tener conto de' Re della Pannonia, lo diremo, in questa Istoria, I. Re di Italia, e secondo quest'ordine nomineremo gli altri suoi successori: e dal mese di gennaro di questo anno 570 numereremo il principio del Regno d'Alboino e de' Longobardi in Italia, non dalla loro entrata, come hanno fatto altri, che fu nell'anno 568. L'Abate Bacchini nelle sue Dissertazioni sopra il libro Pontificale di Agnello Ravennate, avverte; che due epoche si debbono stabilire per togliere ogni confusione; l'una presa dall'entrata de' Longobardi in Italia nel 568 ai 2 di aprile; l'altra dal cominciamento del Regno di Alboino in Italia, che corrisponde a' 29 di dicembre dell'anno 568. Con queste due epoche mostra le ragioni, per le quali s'ingannò il Baronio, che fa morire Alboino nel 571 dopo tre anni e mezzo di Regno assegnatigli da Paolo Diacono, e difende il chiarissimo Sigonio, censurato da Camillo Pellegrino, intorno a questo particolare, confrontando esattamente i computi dell'uno e dell'altro dal suddetto anno primo del Regno de' Longobardi fino alla morte di Rotari, seguita nel 671, secondo Paolo Diacono ed il Sigonio, i quali mirabilmente convengono.

Ma che che ne sia, non essendo del nostro instituto esaminar tanto sottilmente i tempi, Alboino avendo ridotta la Liguria sotto la sua dominazione, con non minor felicità nell'altre vicine Province stende il suo dominio. Assedia Pavia; per la difficoltà del sito, non essendogli riuscito di prenderla, vi lascia nell'assedio parte del suo Esercito, e col rimanente invade l'Emilia, la Toscana e l'Umbria. Prende molte città della Emilia, Tortona, Piacenza, Parma, Brissello, Reggio e Modena. La Toscana è quasi tutta in sua potestà; e passando nell'Umbria, occupa in prima Spoleto, città un tempo quanto antica, altrettanto nobile, che se bene da' Goti fosse stata ruinata, era stata nulladimeno da poi da Narsete restituita al suo stato primiero, e da Alboino non solo conservata, ma fu adornata ancora d'altre prerogative, avendola fatta metropoli dell'Umbria, la quale ridotta da lui in forma di Ducato, a Spoleto la sottopose, dove costituì Duca Faroaldo, che ne fu il primo Duca; e quindi poi il Ducato Spoletano cominciò a celebrarsi, e sopra gli altri si rendè cospicuo, onde fra gli tre famosi Ducati de' Longobardi fu annoverato; e così parimente dava intanto Alboino all'altre città ancora i loro Duchi, che l'amministrassero, come aveva fatto nelle province di Venezia e della Liguria. Ma disbrigato questo Principe dall'impresa di queste città, fece tantosto ritorno all'assedio di Pavia, ed alla fine dopo il terzo anno, ridusse questa alla sua ubbidienza, ed ancorchè fieramente sdegnato contro a' suoi cittadini, per tanta resistenza usatagli, pensasse di passargli tutti a fil di spada, persuaso nulladimeno dagli stessi Longobardi del contrario, se ne ritenne, ed entrato nella città, fu da tutti per Re acclamato e salutato. E quivi, come in città forte ed opportuna, volle stabilire la sua sede Regia; onde poi avvenne, che durante la dominazione de' Longobardi in Italia, Pavia fosse sopra tutte le altre sue città innalzata per capo e metropoli di tutto il Regno d'Italia.

Alboino per gli tanti e sì veloci acquisti, credendo aver già ridotta l'Italia sotto la sua signoria, portatosi a Verona, volle celebrarvi un solenne convito. Teneva questo Principe per moglie Rosmonda figliuola di Comundo Re de' Gepidi, al quale, in una battaglia, colla vita aveva tolta anche la Pannonia, e spinto dalla sua fiera natura, fece del teschio di Comundo fare una tazza, nella quale, in memoria di quella vittoria, solea bere: essendo dunque Alboino in questo convito divenuto allegro, avendo il teschio di Comundo pieno di vino, lo fece presentare a Rosmonda Regina, la quale dirimpetto a lui sedeva, dicendo a voce alta, che voleva in tanta allegrezza avesse ella bevuto con suo padre; la qual voce fu come una ferita nel petto della donna; onde deliberata di vendicarsi, sapendo, che Almachilde, Nobile longobardo, e giovane feroce, amava una sua damigella, trattò con costei, che celatamente desse opera, che Almachilde in suo cambio dormisse con lei: ed essendo Almachilde, secondo l'ordine della damigella, venuto a ritrovarla in luogo oscuro, giacque, non sapendolo, con Rosmonda, la quale dopo il fatto se gli scoperse, e dissegli, ch'era in suo arbitrio, o ammazzare Alboino e godersi sempre di lei e del Regno, o esser morto dal Re, come stupratore della moglie. Consentì Almachilde di ammazzare Alboino; ma dapoi che eglino l'ebbero ucciso, veggendo, come non riusciva loro di occupare il Regno, anzi dubitando di non esser morti da' Longobardi, per l'amore che ad Alboino portavano, con tutto il tesoro regio se ne fuggirono in Ravenna a Longino, dal quale furono onorevolmente ricevuti. Ma Longino, riputando essere allora il tempo comodo a poter diventare, mediante Rosmonda ed il suo tesoro, Re de' Longobardi e di tutta Italia, conferì con lei questo suo disegno, e la persuase ad ammazzare Almachilde e pigliar lui per marito: il che da lei accettato, ordinò una coppa di vino avvelenato, e di sua mano la porse ad Almachilde, che assetato usciva del bagno, il quale come l'ebbe bevuta mezza, sentendosi commovere le viscere, ed accorgendosi di quel ch'era, sforzò Rosmonda a bere il resto; e così in poche ore l'uno e l'altro di loro morirono, e Longino restò privo della speranza di diventare Re.

§. I. Di Clefi II. Re d'Italia.

I Longobardi intanto, morto Alboino che regnò tre anni e sei mesi, dopo averlo amaramente pianto, raunatisi in Pavia principal sede del suo Regno, fecero Clefi loro Re; uomo quanto nobile, altrettanto di spiriti altieri, e crudele, il quale appresso Ravenna riedificò Imola stata rovinata da Narsete, occupò Rimini, e quasi infino a Roma, ogni altro luogo; ma nel corso delle sue vittorie morì per mano d'un suo famigliare, non avendo regnato, che diciotto mesi. Fu Clefi in modo crudele, non solamente contra gli stranieri, ma eziandio contra i suoi Longobardi, che questi sbigottiti della potestà regia, punto non curarono d'eleggersi subito altro Re; ma per dieci anni continui vollero più tosto a' Duchi ubbidire; ciascun dei quali ritenne il governo della sua città e del suo Ducato con piena facoltà e dominio, non riconoscendo come prima l'autorità Reale, o altro supremo dominio. Questo consiglio fu cagione, che i Longobardi non occuparono allora tutta l'Italia, e che Roma, Ravenna, Cremona, Mantova, Padova, Monselice, Parma, Bologna, Faenza, Forlì e Cesena, parte si difesero un tempo, parte non furon mai da loro conquistate; imperocchè il non avere Re, gli fece men pronti alla difesa; e poichè di nuovo il crearono, divennero (per essere stati liberi un tempo) meno ubbidienti e più facili alle discordie fra loro. La qual cosa, prima ritardò le loro conquiste, e da poi in ultimo fu cagione, che fossero d'Italia cacciati.

Non dee qui tralasciarsi di notare con Camillo Pellegrino l'error fatto già comune tra' moderni Scrittori, i quali seguitando il Sigonio, o qualche altro Scrittore più antico di lui, credettero, che i Longobardi abbominando la potestà Regia, mutassero la forma del Regno, e che, morto Clefi, creassero allora trenta Duchi, fra i quali fu diviso il loro Regno, perocchè chi attentamente considererà le parole di Paolo Varnefrido, che di questa mutazione favella, scorgerà, che i Longobardi, morto Clefi, trascurando di elegger subito il loro Re, forse atterriti della crudeltà di quel Principe, e spaventati dall'infelice fine, ch'ebbero Alboino e Clefi, seguitarono a vivere sotto i loro Duchi: i quali non furono allora la prima volta istituiti per dar nuova forma e mutar l'antica del Regno loro, ma fin da' tempi del Re Alboino e di Clefi si ritrovavano già eletti, secondo l'usanza de' Longobardi presa da' Greci, che dopo la conquista delle città, per governo delle medesime vi destinavano un Duca siccome in fatti lo stesso Varnefrido ne accerta, che nella morte di Clefi si ritrovavano preposti come Duchi, al governo di Pavia, Zaban: a quel di Milano, Alboino: di Bergamo, Vallari: di Brescia, Alachi: di Trento, Evin: del Friuli, Gisulfo: ed oltre a costoro nell'altre città a' Longobardi soggette, v'erano trenta Duchi, a ciascun de' quali il governo d'esse era commesso. Per la qual cosa, dall'essersi differita l'elezione del Re, non altra novità fu introdotta, se non che, siccome prima questi Duchi erano a' Re in tutto subordinati, e come suoi Ministri dipendevan da' loro cenni; essendo poi per lo spazio di dieci anni mancati li Re, ciascun il Ducato a se commesso governava con assoluta potestà ed arbitrio: cagione che fu di tanti disordini, e che da poi gli fece pensare ad elegger di comun consiglio e parere Autari figliuolo di Clefi, perchè agli incessanti danni facesse argine e desse ristoro. Nè dee altresì tralasciarsi, che, conforme n'accerta lo stesso Varnefrido, non trenta furono questi Duchi, come comunemente si crede, ma giunsero fino al numero di 36 dicendo espressamente questo Scrittore, che trenta furon destinati al governo delle altre città, oltre a' sei, de' quali aveva egli fatta menzione, cioè de' Duchi di Pavia, di Milano, Bergamo, Brescia, Trento, e Friuli. Del Ducato di Benevento non si fa parola, come quello, che non era stato ancora istituito, continuando tuttavia queste nostre province nel dominio de' Greci sotto Tiberio successor di Giustino, il quale dopo anni 12 d'Imperio era per soverchi travagli morto, ed in suo luogo creato Tiberio, che occupato nella guerra de' Parti, non poteva sovvenir l'Italia, nè impedire i progressi de' Longobardi.

Le cose di costoro, durante questo interregno, ancorchè andassero alquanto prospere, per quel che riguarda alle guerre, che fecero a' Greci, avendo nell'anno 579 colle nuove conquiste di Sutri, Bomarzo, Orta, Todi, Amelia, Perugia, Luccoli, ed altre città ingrandito lo Stato; nulladimeno tosto s'avvidero, che volendo in sì fatta guisa tener diviso il lor Reame, non poteva durar lungamente; imperocchè essendosi data, per qualche discordia fra essi insorta, facile e pronta occasione d'essere assaliti da Nazioni straniere, conobbero con manifesto lor danno, di quanto nocumento fosse questa loro divisione: perchè assaliti da Franzesi, avevan da questa Nazione avute molte strane rotte; e oltre a ciò, ad istigazione del Re di Francia, si ribellarono tre Duchi. Aggiugnevasi a tutto questo, ch'essendo nel 584 morto Tiberio Imperadore il qual avea retto sette anni l'Imperio, lodevole più per la sua pietà cristiana, che per la prudenza militare, e succedutogli Maurizio di Cappadocia suo Capitano, al quale egli aveva sposata una sua figliuola: Principe, e per valore e per prudenza di gran lunga superiore a' suoi predecessori, Giustino e Tiberio; costui considerando seriamente i gravi danni, che i Longobardi gli aveano portato in Italia, pensò porre in opera tutti i mezzi possibili per discacciargli; e considerando altresì, che non era peso delle spalle di Longino (la cui fedeltà erasi ancor resa sospetta) di poter venire a capo di questa impresa, lo richiamò a se, ed in suo luogo, con nuovo esercito, nello stesso anno 584, mandò per Esarca in Ravenna Smaragdo, uomo in guerra esercitatissimo e prudentissimo, e fece Duca di Roma un tal Gregorio, a cui fu il governo del romano Ducato commesso, ed insieme fece Maestro di soldati in Roma Castorio; poichè avevano i Greci in costume di tener nelle città, oltre al Duca, anche il Maestro de' soldati, che ne tenesse cura; onde è, che in Napoli, la quale lungo tempo sotto l'imperio de' Greci si mantenne, oltre al Duca, leggiamo ancora esserci stato questo altro Uficiale.

Giunto Smaragdo in Ravenna, non tardò guari a porre in opera i suoi disegni: fece egli, che Doctrulfo, uomo in guerra espertissimo, si ribellasse da' Longobardi, e passasse alla sua parte: e non molto da poi prese Brissello, ed all'imperio de' Greci lo sottopose. E mentre Smaragdo faceva questi progressi in Italia, non cessava intanto Maurizio di prender altri mezzi, per discacciar da questa provincia i Longobardi: procurava egli con ogni studio tirar alla sua parte i Franzesi, e finalmente gli venne fatto per via di denaro, d'indurre Childeberto Re di Francia a mover guerra a' Longobardi, i quali temendo allora ragionevolmente del gran danno, che per questo apparecchio e confederazione poteva lor venire di là dell'Alpi, e considerando, che non d'altra maniera potevasi a tanti mali riparare, e resistere agli sforzi de' Franzesi e de' Romani, se non col rimettersi sotto il dominio di un solo: subito radunati, crearono di comun consentimento per loro Re Autari figliuolo di Clefi nell'anno 585.

§. II. Di Autari III. Re d'Italia.

Fu Autari un Principe di tanto valore e prudenza che di gran lunga avanzò Alboino; ed i suoi progressi in Italia furon tanti, che a lui debbon i Longobardi la lunga durata del Regno loro in Italia per lo spazio di ducento anni; poichè, appena egli assunto al Trono, cinse di stretto assedio Brissello, e per punir con memorando esempio la fellonia di Doctrulfo, pose in opera tutti i suoi sforzi, per averlo nelle mani; imperocchè questo tradimento avealo renduto in modo sospettoso, che temè sempre fin che regnò, che gli altri Duchi non facessero a lui il somigliante, tanto che fu più agitato nel trovar modo di recare i suoi Duchi all'ubbidienza, che nel resistere agli sforzi dei suoi nemici. Questi fu un Principe cotanto savio e prudente, che più d'ogn'altra cosa pensò a' mezzi, per li quali potesse darsi al suo Regno un più decoroso aspetto e una più stabil forma di governo. Instituì in prima, che i Re longobardi, a somiglianza degl'Imperadori romani, si dovessero nomar Flavii, siccome egli volle esser chiamato, perchè dal suo esempio i successori tenessero questo pronome, che da poi tutti gli susseguenti Re longobardi felicemente usarono. E considerando, che i Duchi avvezzi per lo spazio di dieci anni a governar con assoluto imperio e potestà i loro Ducati, mal soffrirebbero, che avesse loro a togliersi ogni autorità e dominio, ed esser ridotti all'antico stato; affinchè s'evitassero maggiori disordini, e non si venisse all'armi; compose con molta prudenza le cose in questa maniera: che ciaschedun di loro desse al Re, ed a' suoi successori la metà de' dazj e gabelle, perchè servisse a sostenere il regio decoro e la real maestà, e che dovesse nel regal palazzo trasportarsi: l'altra metà se la ritenessero per impiegarla nel governo de' Ducati loro, per le spese e soldi di Ministri, ed altri bisogni: lasciò loro il governo e l'amministrazione delle città, delle quali erano stati Duchi instituiti, ritenendosi però il dominio e la suprema ragione ed autorità regia, con legge, che venendo il bisogno, dovessero subito esser pronti ad assisterlo colle loro forze ed armi contra i suoi nemici; e se bene potesse privargli del Ducato, quando più gli piaceva; nulladimeno Autari mai non volle dar loro de' successori, se non quando o fosse estinta la loro maschile stirpe, o quando se ne fossero resi immeritevoli per qualche gran fellonia commessa.

§. III. Origine de' Feudi in Italia.

Ecco donde trassero in Italia origine i Feudi, i quali a somiglianza del Nilo, par che tenessero tanto nascosto il lor capo, e così occulta la loro origine, che presso a' Scrittori de' passati secoli riputossi la ricerca tanto difficile e disperata, che ciascheduno sforzandosi a tutto potere di rinvenirla, le diedero così strani e differenti principj, che più tosto ci aggiunsero maggiori tenebre ed oscurità, che chiarezza. Non è però con tutto questo da avanzarsi tanto, e dire che i Longobardi fossero stati i primi ad introdurgli e che ad imitazione di essi le altre Nazioni gli avessero poi ne' loro dominj ricevuti poichè nell'istorie di Francia, secondo che rapporta il Papiniano franzese Carlo Molineo, de' Feudi si trova memoria sin da' tempi del Re Childeberto I, e ne' loro annali, e presso Aimoino e Gregorio di Tours pur si legge il medesimo. Si legge ancora, che intorno a questi stessi tempi del Re Autari, anzi undici anni prima, nel Regno di Childerico I, e propriamente nell'anno 574, Guntranno Re privò Erpone del suo Ducato, dandogli il successore; e Paolo Emilio, e Giacomo Cujacio ne accertano, che avevano pure i Re di Francia questo stesso costume di crear nelle città i Duchi ed i Conti; e siccome da principio, quando ciò s'introdusse, era in arbitrio de' Re di cacciarnegli, quando più loro piaceva, s'introdusse poi una consuetudine, che non si potessero privare dello Stato, se non si provava d'aver commessa qualche gran fellonia. E finalmente gli stessi Re con giuramento confermavangli in quelli Stati, de' quali per loro cortesia gli avean fatti Signori. Egli è vero che nel principio, come s'è detto, questi Duchi, e Conti non erano, che Governadori di città, ma poi si diedero non in Uficio, ma in Signoria.

Ed in vero nè i Romani, nè i Greci, nè altri qualunque antichi Popoli riconobbero giammai altre dignità, che gli Ordini, e gli Uficj: furono gli antichi Franzesi, e questi Popoli settentrionali, i quali stabilendosi ne' paesi altrui, inventarono i Feudi, e per conseguenza la terza spezie di dignità, ch'è la Signoria. Non è però, che in qualche maniera questa invenzione non cominciasse per gl'Imperadori romani, i quali per assicurar maggiormente le frontiere dell'Imperio solevano a' Capitani ed a' soldati, che si erano segnalati nelle conquiste, conceder in ricompensa delle lor fatiche alcune terre poste in quelle frontiere, delle quali ne avevano tutto l'utile, tanto che questa concessione la chiamaronobeneficium: e ciò perchè con più coraggio e valore fossero obbligati a continuar la milizia, difendendo le proprie terre; ut attentius militarent, propria rura defendentes, come dice Lampridio.

Quel che non potrà porsi in dubbio si è, che quasi ne' medesimi tempi le Genti settentrionali, i Franzesi nella Gallia, ed i Longobardi nell'Italia, introdussero i Feudi, seguendo forse queste due Nazioni l'esempio de' Goti, che come vuole il nostro Orazio Montano, furono i primi a gettarvi i fondamenti. Carlo Molineo vuole, che i Franzesi fossero stati i primi ad introdurgli nella Gallia, da' quali l'appresero i Longobardi, che l'introdussero poi in Italia, e propriamente in Lombardia, donde poi si sparsero in Sicilia, e nella nostra Puglia; e crede, che in queste nostre regioni i primi ad introdurgli fossero stati i Normanni venutici dalla Neustria, che ora diciamo Normannia; ma i nostri maggiori molto prima della venuta dei Normanni conobbero i Feudi; ed i primi che gl'introdussero nella provincia del Sannio, e nella Campagna furono i Longobardi: province, che furono le prime ad essere conquistate da' Longobardi; e la Puglia e la Calabria gli riceverono più tardi da' Normanni, come quelli, che ne discacciarono interamente i Greci, presso a' quali l'uso de' Feudi non era conosciuto, come vedrassi con maggior distinzione nel progresso della predente istoria.

Egli è però ancor vero, che tutto il loro accrescimento, e tutte le consuetudini e leggi, che da poi intorno ad essi furono introdotte e promulgate, si debbono a' Longobardi, che in Italia gli stabilirono, e lor diedero certa e più costante forma; onde perciò s'innalzaron tanto, che in appresso tutte l'altre Nazioni, non con altre leggi e costumi, che con quelli de' Longobardi, vollero regolare le loro successioni, gli acquisti, le investiture, e tutte l'altre cose a' Feudi attenenti; donde ne sorse un nuovo corpo di leggi, che feudali appelliamo: ma di ciò a più opportuno luogo favelleremo, quando de' libri loro, che oggi nel nostro Regno formano una delle principali parti della nostra giurisprudenza, ci tornerà occasione di più diffusamente ragionare.

Dopo avere Autari in sì fatta guisa soddisfatti i suoi Duchi, non tralasciò di provedere a' bisogni del suo Regno, e sopra tutto a far, che in quello la giustizia e la religione avesse il dovuto luogo. Volle che i furti, le rapine, gli omicidj, gli adulterj, e tutti gli altri delitti fossero severamente puniti. Si spogliò e depose il Gentilesimo, ed abbracciò la religione cristiana da' Longobardi non prima ricevuta, i quali ad esempio del loro Re passarono per la maggior parte nella nuova religione del loro Principe. Ma la condizione di que' tempi, e l'esempio assai fresco de' Goti fece che non la ricevessero pura ed incorrotta, ma parimente contaminata dall'Arrianesimo: il che cagionò che essendo i loro Vescovi arriani, molti disordini e discordie insorsero fra essi ed i Vescovi cattolici, che erano nelle città a lor soggette.

Non minori furono i progressi d'Autari nel valore militare, che nella prudenza civile; ricuperò ben tosto Brissello, e perchè nell'avvenire più non potesse esser ricetto de' suoi nemici, gittò a terra e demolì le forti mura, che lo cingevano. Ma sopra tutto la sua prudenza e valore si dimostrò, allorchè, avendo già Childeberto Re di Francia passate l'Alpi con potente esercito, egli conoscendosi inferior di forze, e che non poteva ostargli in campagna, ordinò a' suoi Duchi, che munissero le loro città con forti presidj, e senza uscir da' loro recinti, aspettassero sopra le mura il nemico; la qual condotta ebbe sì prospero avvenimento, che Childeberto considerando, che impresa molto lunga e difficile era di porre l'assedio a tante città, tosto si piegò alle lusinghe d'Autari, il quale aveagli mandati Ambasciadori con ricchissimi doni, per rimoverlo da quell'impresa, ed a mandargli la pace, siccome in fatti l'ebbe; onde poi nacquero le forti doglianze di Maurizio Imperadore, il quale altamente dolendosi di questa mancanza di Childeberto, non lasciò di continuamente sollecitarlo, o che gli restituisse l'immense somme di denaro, che aveasi preso per far la guerra a' Longobardi, ovvero osservasse la promessa di tornar di nuovo in Italia a combattergli; e furono così continue, e spesse queste querele di Maurizio, e questi rimproveri, che alla fine mosso Childeberto dagli stimoli d'onore, deliberò di ritornare in Italia con esercito più potente di quello di prima. Allora fu che Autari diede l'ultime prove del suo valore, perchè seriamente considerando, che doveansi impiegar tutte le forze, e far gli ultimi sforzi per abbattere questo potente inimico, affinchè nell'avvenire non venisse più inquietato il suo Regno da' Franzesi, e per lo costoro esempio se ne ritenessero ancora l'altre Nazioni: deliberò di disporre la milizia in altra guisa di ciò, che aveva prima fatto. Volle dunque prevenirlo, ed andargl'incontro in campagna aperta, ed avendo raunato da tutto il Regno i suoi eserciti, animogli ad impresa, quanto dura e difficile, altrettanto gloriosa, e che sarebbe cagione, se riusciva, di dare una perpetua pace e tranquillità al suo Regno: incoraggiava i suoi Longobardi a dar l'ultime pruove del lor valore: ricordava le tante vittorie riportate sopra i Gepidi nella Pannonia, avere essi per la fortezza de' loro animi soggiogata l'Italia: e finalmente che non trattavasi ora, come prima, di guerreggiar per l'Imperio, o per l'ingrandimento di quello, ma per la libertà propria, e per la salute di loro medesimi. Furono queste parole di tanto stimolo a' Longobardi, che toccati nel più vivo del cuore, datosi il segno della battaglia, ne' primi attacchi si portarono con tanto valore ed intrepidezza, che si vide tosto inclinar l'ala nemica; onde prendendo maggior animo per così prospero cominciamento, l'incalzarono con tanta ferocia e valore, che ridussero i Franzesi ad abbandonare il campo, e a cercare nella fuga lo scampo. Fugati dunque e dispersi i nemici, molti restarono presi ed uccisi, moltissimi, che fuggendo la loro ira si nascosero, di fame e di freddo perirono. Per così celebre e rinomata vittoria, il nome di Autari si rendè illustre e luminoso per tutta l'Europa, e vedutosi già libero dalle incursioni di straniere genti, pensò a soggiogare il resto d'Italia, ch'ancor era in mano de' Greci.

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