SCENA SECONDA

Fulgenzio e il suddetto.

FULGENZIO:        (Eccolo qui il pazzo, il prodigo, l'infatuato).

LEONARDO:        Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio.

FULGENZIO:        Servitor suo. (Sostenuto.) Si è divertito bene in campagna?

LEONARDO:        Caro signore, non mi parlate più di campagna. Le ho concepito un odio sì grande, che non andrei più a villeggiare per tutto l'oro del mondo.

FULGENZIO:        Sì, il proponimento è buono. Il male è che l'avete fatto un po' tardi.

LEONARDO:        È meglio tardi che mai.

FULGENZIO:        Basta che si sia in tempo, e che il proponimento non nasca dall'impotenza, piuttosto che dalla volontà di far bene. (Con caldo.)

LEONARDO:        Io non credo di essere in tal precipizio...

FULGENZIO:        E che cosa vi resta per essere rovinato più di quello che siete? Volete vendere a me pure lucciole per lanterne? Mi maraviglio di voi. Mi maraviglio che abbiate avuto il coraggio d'imbarazzare un galantuomo della mia sorte a chiedere per voi una fanciulla in isposa. Voi sapevate lo stato vostro, e chiamasi un tradimento, una baratteria bella e buona. Ma dal canto mio ci rimedierò: farò sapere al signor Filippo la verità; faccia poi egli quel che vuole, me ne vo' lavare le mani, e faccio un solenne proponimento di non imbarazzarmi mai più.

LEONARDO:        Ah! signor Fulgenzio, per amor del cielo, non mi mettete all'ultima disperazione. Giacché sapete lo stato mio, movetevi a compassione di me. Io sono in circostanze lagrimose, che non mi resta alcun angolo in cui sperare di rifugiarmi, sarò costretto ad abbandonarmi alla più disperata risoluzione. Senza roba, senza credito, senza amici, senza assistenza, la vita non mi serve che di rossor, che di pena. Assistetemi, signor Fulgenzio, assistetemi; sono sull'orlo del precipizio, non fate che termini la mia casa con una tragedia, con uno spettacolo della mia persona.

FULGENZIO:        Se foste mio figliuolo, vorrei rompervi l'ossa di bastonate. Ecco il linguaggio de' vostri pari: sono disperato, voglio strozzarmi, voglio affogarmi. A me poco dovrebbe premere, perché non ho verun interesse con voi. Ma son uomo, sento l'umanità, ho compassione di tutti; meritate di essere abbandonato, ma non ho cuore di abbandonarvi.

LEONARDO:        Ah! il cielo vi benedica. Salvate un uomo, salvate una desolata famiglia. Liberatemi dal rossore, dalla miseria, dalla folla de' creditori.

FULGENZIO:        Ma che credete? Ch'io voglia rovinar me per aiutar voi? Ch'io voglia pagarvi i debiti, perché ne facciate degli altri?

LEONARDO:        No, signor Fulgenzio, non ne farò più.

FULGENZIO:        Io non vi credo un zero.

LEONARDO:        In che consistono dunque le esibizioni che finora mi avete fatte?

FULGENZIO:        Consistono in volermi adoperare per voi con dei buoni uffizi verso di vostro zio Bernardino, con delle buone parti verso chi ha più il modo di me, e qualche maggior obbligazione di soccorrervi nelle vostre disgrazie. E se impiego per voi il tempo, i passi, e le parole, e i consigli, faccio più ancora di quello che mi s'aspetta.

LEONARDO:        Signore, io sono nelle vostre mani; ma con mio zio Bernardino non si farà niente.

FULGENZIO:        E perché non si farà niente?

LEONARDO:        Perché è sordido, avaro, e non darebbe un quattrino, chi l'appiccasse; e poi ha una maniera così insultante, che non si può tollerare.

FULGENZIO:        Sia come esser si voglia, si ha da far questo passo, si ha da principiare da qui per andare innanzi. Se non v'aiuta lo zio, chi volete voi che lo faccia?

LEONARDO:        È vero, non so negarlo; tutto quello che dite, è verissimo.

FULGENZIO:        Venite dunque con me.

LEONARDO:        Sì, vengo, ma ci vengo malissimo volentieri. (In atto di partire.)

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