SCENA TREDICESIMA

Il marchese D’osimo e detti.

MAR. Oh! signora donna Livia, siete ottimamente accompagnata. (tutti si salutano vicendevolmente)

LIV. Io ho piacere di non restar sola.

MAR. Avete delle liti?

LIV. Perché?

MAR. Vedo che avete qui l’avvocato.

LIV. E chi è questo avvocato?

MAR. Eccolo qui: il signor Guglielmo. Io l’ho conosciuto in Toscana, ed egli forse non si ricorda di me.

GUGL. Mi ricordo benissimo di aver avuto l’onor di vederla. So ch’ella aveva una causa di conseguenza, e so anche che l’ha perduta.

AUR. (Anche l’avvocato?) (da sé)

LIV. Avete fatto l’avvocato in Toscana?

GUGL. È verissimo. Ho fatto anche l’avvocato. Stanco della soggezione che deve un segretario soffrire, ho cambiato paese ed ho cambiato ancora la professione. Ho esercitato la professione legale, e posso dir con fortuna; in poco tempo avea acquistato credito, aderenze e quattrini; e se io tirava innanzi per quella strada, oggi forse sarei in uno stato da non invidiare nessuno.

LIV. Ma perché abbandonare?...

AUR. Perché ha voluto venir a stare in Palermo. Caro avvocato, volete far la vostra professione da noi?

LIV. Io ho delle liti e ho delle parentele parecchie; non dubitate, non vi lascierò mancar cause.

CO. BRA. (Donna Livia si scalda molto per quel forestiere. Sta a vedere che è di lui innamorata). (da sé)

MAR. (Non vorrei che il signor avvocato facesse giù donna Livia. La sua dote non ha da essere sagrificata). (da sé)

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