SCENA DODICESIMA

Il Cavaliere e detti.

CAVALIERE: Conte, siete voi che mi volete?

CONTE: Sì; io v'ho dato il presente incomodo.

CAVALIERE: Che cosa posso fare per servirvi?

CONTE: Queste due dame hanno bisogno di voi. (Gli addita le due donne, le quali subito s'avanzano.)

CAVALIERE: Disimpegnatemi. Io non ho tempo di trattenermi.

ORTENSIA: Signor Cavaliere, non intendo di recargli incomodo.

DEJANIRA: Una parola in grazia, signor Cavaliere.

CAVALIERE: Signore mie, vi supplico perdonarmi. Ho un affar di premura.

ORTENSIA: In due parole vi sbrighiamo.

DEJANIRA: Due paroline, e non più, signore.

CAVALIERE: (Maledettissimo Conte!). (Da sé.)

CONTE: Caro amico, due dame che pregano, vuole la civiltà che si ascoltino.

CAVALIERE: Perdonate. In che vi posso servire? (Alle donne, con serietà.)

ORTENSIA: Non siete voi toscano, signore?

CAVALIERE: Sì, signora.

DEJANIRA: Avrete degli amici in Firenze?

CAVALIERE: Ho degli amici, e ho de' parenti.

DEJANIRA: Sappiate, signore... Amica, principiate a dir voi. (Ad Ortensia.)

ORTENSIA: Dirò, signor Cavaliere... Sappia che un certo caso...

CAVALIERE: Via, signore, vi supplico. Ho un affar di premura.

CONTE: Orsù, capisco che la mia presenza vi dà soggezione. Confidatevi con libertà al Cavaliere, ch'io vi levo l'incomodo. (Partendo.)

CAVALIERE: No, amico, restate... Sentite.

CONTE: So il mio dovere. Servo di lor signore. (Parte.)

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