SCENA TERZA

Vittoria e Leonardo.

VITTORIA:        Ma si può sapere il motivo di questa vostra disperazione?

LEONARDO:        Non lo so nemmen io.

VITTORIA:        Avete gridato colla signora Giacinta?

LEONARDO:        Giacinta è indegna dell'amor mio, è indegna dell'amicizia della mia casa, e ve lo dico, e ve lo comando, non vo' che la pratichiate.

VITTORIA:        Eh! già, quando penso una cosa, non fallo mai. L'ho detto, e così è. Non si va più in campagna per ragione di quella sguaiata, ed ella ci anderà, ed io non ci potrò andare. E si burleranno di me.

LEONARDO:        Eh! corpo del diavolo, non ci anderà nemmen ella. Farò tanto che non ci anderà.

VITTORIA:        Se non ci andasse Giacinta, mi pare che mi spiacerebbe meno di non andar io. Ma ella sì, ed io no? Ella a far la graziosa in villa, ed io restar in città? Sarebbe una cosa, sarebbe una cosa da dar la testa nelle muraglie.

LEONARDO:        Vedrete, che ella non anderà. Per conto mio, ho levato l'ordine de' cavalli.

VITTORIA:        Oh sì, peneranno assai a mandar eglino alla posta!

LEONARDO:        Eh! ho fatto qualche cosa di più. Ho fatto dir delle cose al signor Filippo, che se non è stolido, se non è un uomo di stucco, non condurrà per ora la sua figliuola in campagna.

VITTORIA:        Ci ho gusto. Anch'ella sfoggierà il suo grand'abito in Livorno. La vedrò a passeggiar sulle mura. Se l'incontro, le vo' dar la baia a dovere.

LEONARDO:        Io non voglio che le parliate.

VITTORIA:        Non le parlerò, non le parlerò. So corbellare senza parlare.

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