Recanati 21 Marzo 1817
Stimatissimo e carissimo Signore. Che io veda e legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me, che io possa sperare d’averlo d’ora innanzi a maestro, son cose che appena posso credere. Né Ella se ne meraviglierebbe se sapesse per quanto tempo e con quanto amore io abbia vagheggiata questa idea, perché le cose desideratissime paiono impossibili quando sono presenti. Voglio che a tutto quanto le scriverò ora e poi Ella presti intiera fede, anche alle piccolissime frasi, perché tutte, e le lo prometto, verranno dal cuore. Questo voglio: di tutto l’altro la pregherò. La mia prima lettera fu opera più del rispetto che dell’affetto, perché questo, grato ed onorevole cogli eguali, spesso è ingiurioso co’ superiori. Ora che Ella con due carissime lettere me ne dà licenza, sia certa che con tutto l’affetto le parlerò. Del quale Ella ben s’appone che sia stata causa la sua eccellenza negli studi amati da me. Di Lei non mi ha parlato altri che i suoi scritti, perché qui dove sono io, non è anima viva che parli di Letterati. Ma io non so come si possa ammirare le virtù di uno, singolarmente quando sono grandi ed insigni, senza pigliare affetto alla persona. Quando leggo Virgilio, m’innamoro di lui; e quando i grandi viventi, anche più caldamente. I quali Ella ottimamente dice che sono pochissimi, e però tanto più intenso è l’affetto diviso fra tre o quattro solo. Ella che sa quanta sia la rarità e il prezzo di un uomo grande, non si meraviglierà di quello che scrivo al Monti e al Mai, né penserà che io non senta quello che scrivo, né che volessi umiliarmi e annientarmi innanzi a loro, se fermamente non credessi di doverlo fare: e certo in farlo provo quel piacere che l’uomo naturalmente prova in fare il suo debito. Non so dirle con quanta necessità, stomacato e scoraggiato dalla mediocrità che n’assedia, e n’affoga, dopo la lettura de’ Giornali e d’altri scrittacci moderni (ché i vecchi non leggo, facendomi avvisato della piccolezza loro il silenzio della fama) credendo quasi che le lettere non diano più cosa bella, mi rivolga ai Classici tra i morti, e a Lei e a’ suoi grandi amici tra i vivi, co’ quali principalmente mi consolo e mi rinforzo vedendo ch’è pur viva la vera letteratura. Quando scrivendo o rileggendo cose che abbia in animo di pubblicare m’avvengo a qualche passo che mi dia nel genio (e qui le ricordo la promessa fattale di parlarle sinceramente) mi domando come naturalmente, che ne diranno il Monti, il Giordani ? perché al giudizio de’ non sommi io non so stare, né mi curerei che altri lodasse quello che a Lei dispiacesse, anzi lo reputerei cattivo. E quando qualche cosa che a me piace non va a gusto ai pochi ai quali la fo leggere, appello alla sentenza di Lei e dell’amico suo, e per vero dire sono ostinato; né quasi mai è accaduto che alcuno in fatto di scritture abbia cangiato il parer mio. Spesso m’è avvenuto di compatire all’Alfieri, il cui stile tragico, in quei tempi di universale corruzione, parea intollerabile, né so cosa sentisse quel sommo italiano, vedendo il suo stile condannarsi da tutti, i letterati più famosi disapprovarlo, il Cesarotti allora tanto lodato, pregar lui pubblicamente che lo dovesse cangiare; né come potesse tenersi saldo nel buon proposito, e rimettersi nel giudizio della posterità, che ora è pronunciato, e le sue tragedie dice immortali. Certo quel trovarsi solo in una sentenza vera fa paura, e a noi medesimi spesso la costanza par caponaggine, la noncuranza degli sciocchi giudizi, superbia, il credere d’intenderla meglio degli altri, presunzione. Buon per l’Alfieri che tenne duro, se non l’avesse fatto, ora sarebbe di lui quel ch’è de’ suoi giudici.
Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria, ma non posso soffrire che le cose mie che a me non piacciono, siano lodate, né so perché si ristampino con più danno mio, che utile di chi senza mia saputa le ridà fuori. Le quali cose Ella leggendo, avrà riso, ma quel riso certo non fu maligno, e di ciò son contento. E perché mi perdoni la pazzia d’averle messe in luce, le dico che quasi tutto il pubblicato da me, non si rivedrà mai più, consentendo io, e che altre due veramente grosse (non grandi) opere già preparate e mandate alla stampa ho condannato alle tenebre.
Del secondo dell’Eneide che ancora non ho sentenziato, non ha da me avuto esemplare altro Letterato che i tre a Lei noti. A questi soli e con effusione di cuore ho scritto, soddisfacendo. benché con alquanto palpito, a un vecchio e vivo desiderio. Che il mio libro avesse molti difetti lo credea prima, ora lo giurerei perché me lo ha detto il Monti; carissimo e desideratissimo detto. A lui non iscrivo perché temo d’increscergli, ma Lei prego che ne lo ringrazi in mio nome caldamente. Ma ad un cieco è poca cosa dire Tu esci di strada; se non se gli aggiunge Piega a questa banda. Niente m’è tanto caro quanto l’intendere i difetti di una cosa mia, perché ne conosco l’immensa utilità, e mi pare che visto una volta e notato un vizio, abbia poi sempre in mente di schivarlo. Ma a niuno ardisco chiedere che me li mostri, perché so esser cosa molestissima il ripescare i difetti di un’opera, singolarmente quando il cattivo è più del buono. Intanto Ella sappia che una copia del mio libro è già tutta carica di correzioni e cangiamenti. Vorrei qualche volta essermi apposto e aver levato via quello che a Lei e al Monti dispiace, ma non lo spero. Ella dice da Maestro che il tradurre è utilissimo nella età mia, cosa certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perché quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace. Il suo giudizio m’inanimisce e mi conforta a proseguire.
Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’Odio della patria, per la quale se Codro non fu timidus mori, io sarei timidissimus vivere. Ma mia patria è l’Italia per la quale ardo d’amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto Italiano perché alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche, ne certo Ella vorrebbe che la fortuna l’avesse costretto a farsi grande col Francese o col Tedesco, e internandosi ne’ misteri della nostra lingua compatirà alle altre e agli scrittori a’ quali bisogna usarle; come spessissimo è avvenuto a me, che tanto meno di lei conosco la mia lingua, la quale se mi si vietasse di adoperare con darmisi pieno possedimento di una straniera, io credo che porrei la speranza di divenir qualche cosa nella vera letteratura, e lascerei gli studi.
Quello ch’Ella dice del bene che i nobili potrebbon fare alle lettere, è verissimo, e desidero ardentemente che il fatto lo mostri una volta. Il suo dire m’infiamma e mi lusinga: ma io non credo di poter vincere la mia natura e l’altrui. Nondimeno Ella può esser certa che se io vivrò, vivrò alle Lettere, perché ad altro non voglio né potrei vivere.
Ma per le lettere mi dà grandissima speranza il suo Libro, dono grato a me quanto sarebbe stato una nuova opera del Boccaccio o del Casa, e tanto più che de’ suoi scritti con niun danno suo e moltissimo nostro Ella è sempre stata avara col pubblico. Ho già cominciato a leggerlo, né posso credere che con questi esempi innanzi agli occhi la gioventù Italiana voglia seguitare a scriver male. A ogni modo s’è guadagnato assai, e niuno ora vorrebbe tornare alla metà o al fine del settecento. Dagli altri suoi scritti avea argomentato la dilicatezza del suo cuore e la finezza rarissima della sua tempera: ma in questi e nelle sue carissime lettere ne veggo leggiadrissime dipinture. Niente dico dell’avvenenza dello scrivere, perché queste cose mi paion sacre e da non profanarsi col parlarne a sproposito.
Tanto ho ciarlato che le avrò fatto venir sonno. Le sue Lettere m’han dato animo. Ho veduto ch’Ella è un signore da sopportarmi, e da acconciarsi anche ad istruirmi. E perché vedesse quanto io confidi nella bontà sua, ho scritto allo Stella che le mandi un mio manoscritto. Vorrei che lo esaminasse, e prima di tutto mi dicesse se le par buono per le fiamme alle quali io lo consegnerei di buon cuore immantinente. È brevissimo, ma non voglio che s’affanni a leggerlo e molto meno a rispondermi. Mi brillerà il cuore ogni volta che mi giungerà una sua lettera, ma l’aspettazione e il sapere ch’Ella ha scritto a suo bell’agio m’accresceranno il piacere. Con tutta l’anima la prego che mi creda e mi porga occasione di mostrarmele vero e affettuosissimo servo Giacomo Leopardi.
Recanati 30 Aprile 1817.
Oh quante volte, carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovare un uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l’amicizia sua. E in verità credeva che non sarei stato esaudito, perché queste tre cose, tanto rare a trovarsi ciascuna da sé, appena stimava possibile che fossero tutte insieme. O sia benedetto Iddio (e con pieno spargimento di cuore lo dico) che mi ha conceduto quello che domandava, e fatto conoscere l’error mio. E però sia stretta, la prego, fin da ora tra noi interissima confidenza, rispettosa per altro in me come si conviene a minore, e liberissima in Lei. Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor mio perché vedesse gli affetti che v’ha destati la lettura delle sue parole, i quali se ‘l cuore non muta forma e materia, non periranno mai, certo non mai. E per rispondere come posso a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la mia complessione non è debole ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po’ risentita delle fatiche che le ho fatto portare per sei anni. Ora però le ho moderate assaissimo; non istudio più di sei ore il giorno, spessissimo meno, non iscrivo quasi niente, fo la mia lettura regolata dei Classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si portano in mano agevolmente, sì che studio quasi sempre all’uso de’ Peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto spesso per molte e molte ore l’orribile supplizio di stare colle mani alla cintola. O chi avrebbe mai pensato che il Giordani dovesse pigliar le difese di Recanati? O carissimo Sig. Giordani mio, questo mi fa ricordare il si Pergama dextrâ. La causa è tanto disperata che non le basta il buon avvocato né le ne basterebbero cento. È un bel dire: Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Le amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; or dico di odiarla perché vi son dentro, ché finalmente questa povera città non è rea d’altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori. Del luogo dove s’è passata l’infanzia è bellissima e dolcissima cosa il ricordarsi. È un bellissimo dire, qui sei nato, qui ti vuole la provvidenza; dite a un malato: se tu cerchi di guarire, la pigli colla provvidenza; dite a un povero: se tu cerchi d’avvantaggiarti, fai testa alla provvidenza; dite a un Turco: non ti salti in capo di pigliare il battesimo, ché la provvidenza t’ha fatto Turco. Questa massima è sorella carnale del Fatalismo. Ma qui tu sei dei primi, in città più grande saresti dei quarti e dei quinti. Questa mi par superbia vilissima e indegnissima d’animo grande. Colla virtù e coll’ingegno si vuol primeggiare, e questi chi negherà che nelle città grandi risplendano infinitamente più che nelle piccole? Voler primeggiare colle fortune, e contentarsi di far senza infiniti piaceri, non dirò del corpo del quale non mi preme, ma dell’animo, per amore di comando e per non istare a manca, questa mi par cosa da tempi barbari e da farmi ruggire e inferocire. Ma qui puoi esser utile più che altrove. La prima cosa, a me non va di dar la vita per questi pochissimi, né di rinunziare a tutto per vivere e morire a pro loro in una tana. Non credo che la natura m’abbia fatto per questo, né che la virtù voglia da me un sacrifizio tanto spaventoso. In secondo luogo, ma che crede Ella mai? Che la Marca e ‘l mezzogiorno dello Stato Romano sia come la Romagna e ‘l settentrione d’Italia? Costì il nome di letteratura si sente spessissimo: costì giornali accademie conversazioni librai in grandissimo numero. I Signori leggono un poco. L’ignoranza è nel volgo, il quale se no, non sarebbe più volgo: ma moltissimi s’ingegnano di studiare, moltissimi si credono poeti filosofi che so io. Sono tutt’altro, ma pure vorrebbero esserlo Quasi tutti si tengono buoni a dar giudizio sopra le cose di letteratura. Le matte sentenze che profferiscono svegliano l’emulazione, fanno disputare parlare ridere sopra gli studi. Un grand’ingegno si fa largo: v’è chi l’ammira e lo stima, v’è chi l’invidia e vorrebbe deprimerlo, v’è una turba che dà loco e conosce di darlo. Così il promuovere la letteratura è opera utile, il regnare coll’ingegno è scopo di bella ambizione. Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini dell’Alfieri del Monti, e del Tasso, e dell`Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c’è uno che si curi d’essere qualche cosa, non c’è uno a cui il nome d’ignorante paia strano. Se lo danno da loro sinceramente e sanno di dire il vero. Crede Ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato ? Come la gemma nel letamaio. Ella ha detto benissimo (e saprà ben dove) che gli studi come più sono rari meno si stimano, perché meno se ne conosce il valore. Così appuntino accade in Recanati e in queste provincie dove l’ingegno non si conta fra i doni della natura. Io non sono certo una gran cosa: ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa: tutto questo non ha fatto mai altro recanatese a Recineto condito. Parrebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i giornali, voler leggere le mie coserelle, chiedermi notizia dei letterati della età nostra. Per appunto. I Giornali come sono stati letti nella mia famiglia, vanno a dormire nelle scansie. Delle mie cose nessuno si cura e questo va bene; degli altri libri molto meno: anzi le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch’ella è fatta anche per li cittadini e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la frequentino? Nessuno mai. Oh veda Ella se questo è terreno da seminarci. Ma e gli studi, le pare che qui si possano far bene? Non dirò che con tutta la libreria io manco spessissimo di libri, non pure che mi piacerebbe di leggere, ma che mi sarebbero necessari; e però Ella non si meravigli se talvolta si accorgerà che io sia senza qualche Classico. Se si vuol leggere un libro che non si ha, se si vuol vederlo anche per un solo momento bisogna procacciarselo col suo danaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere né conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via. Qui niun altro fa venir libri, non si può torre in prestito, non si può andare da un libraio, pigliare un libro, vedere quello che fa al caso e posarlo: sì che la spesa non è divisa, ma è tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l’impresa di procacciarsi tutto è disperata. Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel serbarsi tutti i pensieri per sé, quel non potere sventolare e dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de’ propri studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel sollazzo? Io da principio avea pieno il capo delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava, lo studio della lingua nostra, tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal Francese, disprezzava Omero Dante tutti i Classici, non volea leggerli, mi diguazzava nella lettura che ora detesto: chi mi ha fatto mutar tuono? la grazia di Dio ma niun uomo certamente. Chi m’ha fatto strada a imparare le lingue che m’erano necessarie? la grazia di Dio. Chi m’assicura ch’io non ci pigli un granchio a ogni tratto? Nessuno. Ma pognamo che tutto questo sia nulla. Che cosa è in Recanati di bello? che l’uomo si curi di vedere o d’imparare? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si possano frenare? che siano ingiusti soverchi sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L’aria di questa città l’è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce. So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria, la quale, se m’è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, come Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? e come far che cessi l’effetto se dura la causa ? Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio la noia, ma questa mi cresce com’è naturale, la malinconia, e quando io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia. Non m’è possibile rimediare a questo né fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al male e lo fomenta e l’accresce ogni dì più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane, ma per far questo io voglio un mondo che m’alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa) ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore, non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m’attristi e mi forzi di ricorrere per consolarmi a quello da cui volea fuggire. Ma già Ella sa benissimo che io ho ragione, e me lo mostra la sua seconda lettera nella quale di proprio moto mi esortava a fare un giro per l’Italia, benché poi (e so ben io perché) con lodevolissima intenzione della quale le sono sinceramente grato, abbia voluto parlarmi in altra guisa. Laonde ho cianciato tanto per mostrarle che io ho per certissimo quello che Ella ha per certissimo. Le dirò sinceramente, poiché mel chiede, in qual maniera il cielo (che per questo ringrazio di cuore) m’abbia fatto conoscere Lei e desiderare ch’Ella lo sapesse. Il povero Marchese Benedetto Mosca (il quale so che ella amava) Cugino carnale di mio padre, venne un giorno a fare una visita di sfuggita ai suoi parenti, e quell’unica volta noi due parlammo insieme, dico parlammo, perché quando io era piccino ed egli fanciullo avevamo bamboleggiato insieme qui in Recanati per molto tempo ed allora io gli avrò cinguettato. Dopo non l’ho veduto più, ma so che m’amava e volea rivedermi, e forse presto ci saremmo riveduti, per lettere certamente, perché io appunto ne preparava una per lui che sarebbe stata la prima, quando seppi la sua morte, e di questa morte che ha troncato tanto non posso pensare senza spasimo e convulsione dell’animo mio. Mi disse dunque di Lei questo solo: che conosceva e, se non fallo, avea avuto maestro il Giordani il quale, soggiunse (ed io ripeto le sue stesse parole, e la sua modestia sel soffra per questa volta), è adesso il primo scrittore d’Italia. O pensi Ella se i primi scrittori d’Italia si conoscevano in Recanati. Io avea allora 15 anni, e stava dietro a studi grossi, Grammatiche, Dizionari greci ebraici e cose simili tediose, ma necessarie. Non vi badai proprio niente. Ma nel cominciare dell’anno passato, visto il suo nome appiè del manifesto della Biblioteca Italiana, mi ricordai di quelle parole, e avuti i volumetti della Biblioteca, seppi quali fossero gli articoli suoi prima per conghiettura e poi con certezza quanto a uno o due e questo mi bastò per ravvisarli poi tutti. Ora che vuole che le dica io? Se le dirò che essi diedero stabilità e forza alla mia conversione che era appunto sul cominciare, che gustato quel cibo, le altre cose moderne che prima mi pareano squisite, mi parvero schifissime, che attendea la Biblioteca con infinito desiderio e ricevutala la leggea con avidità da affamato, che avrò letti e riletti i suoi articoli una diecina di volte, che ora che non ci son più mi vien voglia di gittar via i quaderni di quel giornale, ogni volta che ricevendoli non vi trovo niente che faccia per me, la sua modestia s’irriterà. Le confesserò candidamente che non so se non i titoli e di due sole delle sue opere, voglio dire della versione di Giovenale e del Panegirico, e colla stessa schiettezza le dirò che io pensava di procacciarmi qualche sua cosa quando ricevetti da Lei veramente graditissime le sue prose tutte d’oro, sulle quali ho certe cose da dirle, ma perché poco vagliono certamente, e la lettera è già lunga assai e m’ha cera di voler esser lunghissima, le serberò a un’altra volta.
Vedo con esultazione che Ella nella soavissima sua dei 15 Aprile discende a parlarmi degli studi. Risponderò a quanto Ella mi scrive, dicendole sinceramente quando le sue opinioni si siano scontrate nella mia mente con opinioni diverse, acciocché Ella veda quanto io abbia bisogno ch’Ella mi faccia veramente da maestro, e compatendo alla debolezza e piccolezza de’ pensieri miei si voglia impacciare di provvederci. Che la proprietà de’concetti e delle espressioni sia appunto quella cosa che discerne lo scrittor Classico dal dozzinale, e tanto più sia difficile a conservare nell’espressioni, quanto la lingua è più ricca, è verità tanto evidente che fu la prima di cui io m’accorsi quando cominciai a riflettere seriamente sulla letteratura: e dopo questo facilmente vidi che il mezzo più spedito e sicuro di ottenere questa proprietà era il trasportare d’una in altra lingua i buoni scrittori. Ma che quando l’intelletto è giunto a certa sodezza e maturità e a poter conoscere con qualche sicurezza a qual parte la natura lo chiami, si debba di necessità comporre prima in prosa che in verso, questo le dirò schiettamente che a me non parea. Parlando di me posso ingannarmi, ma io le racconterò, come a me sembra che sia, quello che m’è avvenuto e m’avviene. Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e far mio quello che leggo, non han dato altri che i poeti, e quella smania violentissima di comporre, non altri che la natura e le passioni ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire, fra me: questa è poesia, e per esprimere quello che io sento ci voglion versi e non prosa, e darmi a far versi. Non mi concede Ella di leggere ora Omero Virgilio Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei astenermene perché leggendoli provo un diletto da non esprimere con parole, e spessissimo mi succede di starmene tranquillo e pensando a tutt’altro, sentire qualche verso di autor classico che qualcuno della mia famiglia mi recita a caso, palpitare immantinente e vedermi forzato di tener dietro a quella poesia. E m’è pure avvenuto di trovarmi solo nel mio gabinetto colla mente placida e libera, in ora amicissima alle muse, pigliare in mano Cicerone, e leggendolo sentire la mia mente far tali sforzi per sollevarsi, ed esser tormentato dalla lentezza e gravità di quella prosa per modo che volendo seguitare, non potei, e diedi di mano a Orazio. E se Ella mi concede quella lettura, come vuole che io conosca quei grandi e ne assaggi e ne assapori e ne consideri a parte a parte le bellezze, e poi mi tenga di non lanciarmi dietro a loro? Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente, mi sento così trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù, e a voler divenire buon prosatore, e aspettare una ventina d’anni per darmi alla poesia, dopo i quali, primo, non vivrò, secondo, questi pensieri saranno iti; e la mente sarà più fredda o certo meno calda che non è ora. Non voglio già dire che secondo me, se la natura ti chiama alla poesia, tu abbi a seguitarla senza curarti d’altro, anzi ho per certissimo ed evidentissimo che la poesia vuole infinito studio e fatica, e che l’arte poetica è tanto profonda che come più vi si va innanzi più si conosce che la perfezione sta in un luogo al quale da principio né pure si pensava. Solo mi pare che l’arte non debba affogare la natura e quell’andare per gradi e voler prima essere buon prosatore e poi poeta, mi par che sia contro la natura la quale anzi prima ti fa poeta e poi col raffreddarsi dell’età ti concede la maturità e posatezza necessaria alla prosa. Non dona Ella niente niente a quella mens divinior di Orazio? Se sì, come vuole ch’ella stia nascosta e che chi l’ha non se n’accorga nel fervor degli anni alla vista della natura, alla lettura dei poeti? e accortosene com’è possibile che dubiti e metta tempo in mezzo e voglia prima divenire buon prosatore, e poi tentare com’Ella dice, quasi con incertezza e paura, la poesia ? O vuol Ella che quella mente divina sia una favola o se ne sia perduta la razza ? e quale è dunque il vero poeta? Chi ha studiato più? E perché non tutti che hanno studiato ed hanno un grande ingegno sono poeti ? Non credo che si possa citare esempio di vero poeta il quale non abbia cominciato a poetare da giovanetto; né che molti poeti si possano addurre i quali siano giunti all’eccellenza, anche nella prosa, e in questi pochissimi, mi par di vedere che prima sono stati poeti e poi prosatori. E in fatti a me parea che quanto alle parole e alla lingua, fosse più difficile assai il conservare quella proprietà senza affettazione e con piena scioltezza e disinvoltura nella prosa che nel verso, perché nella prosa l’affettazione e lo stento si vedono (dirò alla fiorentina) come un bufalo nella neve, e nella poesia non così facilmente, primo, perché moltissime cose sono affettazioni e stiracchiature nella prosa, e nella poesia no, e pochissime che nella prosa nol sono, lo sono in poesia, secondo, perché anche quelle che in poesia sono veramente affettazioni, dall’armonia e dal linguaggio poetico son celate facilmente, tanto che appena si travedono. Io certo quando traduco versi, facilmente riesco (facendo anche quanto posso per conservare all’espressione la forza che hanno nel testo) a dare alla traduzione un’aria d’originale, e a velare lo studio; ma traducendo in prosa, per ottener questo, sudo infinitamente più, e alla fine probabilmente non l’ottengo. Però io avea conchiuso tra me che per tradur poesia vi vuole un’anima grande e poetica e mille e mille altre cose, ma per tradurre in prosa un più lungo esercizio ed assai più lettura, e forse anche (che a me pare necessarissimo) qualche anno di dimora in paese dove si parli la buona lingua, qualche anno di dimora in Firenze. E similmente componendo, se io vorrò seguir Dante, forse mi riuscirà di farmi proprio quel linguaggio e vestirne i pensieri miei e far versi de’ quali non si possa dire, almeno non così subito, questa è imitazione, ma se vorrò mettermi a emulare una lettera del Caro, non sarà così. Per carità, Sig. Giordani mio, non mi voglia credere un temerario, perché le ho detto sì francamente e con tanto poco riguardo alla piccolezza mia, quello che sentiva. Non isdegni di persuadermi. Questa sarà opera piccola per sé, ma sarà opera di misericordia. e degna del suo bel cuore.
Della mia Cantica, e dell’affinità del Greco coll’Italiano, e dell’utilissimo consiglio ch’Ella mi dà ed io presto metterò in pratica di leggere e tradurre Erodoto e gli altri tre, avrei mille cose da dirle, ma vedendo con affanno che questa lettera è eterna, e vergognandomi fieramente della mia sterminata indiscretezza, le lascio per un’altra volta, m’affretto di dirle che la ringrazierei se trovassi parole, dell’esame che ha fatto della mia Cantica, e il manoscritto non occorre che lo renda allo Stella, il quale non ne ha da far niente, ma se Ella crede che sia costì qualche suo amico il quale non isdegnerebbe di esaminarlo, Ella potrà darglielo o no secondo che giudicherà opportuno: che del Terenzio del Cesari non ho veduto altro che il titolo, e che vorrei sapere, se Ella crede che l’opera del Cicognara mi possa esser utile, perché io oramai non mi curo di leggere né di vedere se non quello che mi può esser utile veramente, perché il tempo è corto e la messe vastissima.
Quanto al Belcari io mi struggo di proccurarle associati e di mostrarle il desiderio ardentissimo che ho di servirla come posso. Scrivo e fo scrivere a Macerata, a Tolentino a Roma e ad altri luoghi, raccomandando caldamente la cosa. Intendo però che molti domandano del prezzo, il quale vorrei che Ella a un di presso mi potesse dire. Farò il possibile, ma con gran dolore le dico, che ci spero poco perché quanto agli amatori della buona lingua, se di questa io parlassi ad alcuno qui, crederebbero che s’intendesse di qualche brava lingua di porco; e quanto ai devoti i quali Ella dice che vorranno piuttosto leggere una cosa bene che male scritta, questo m’arrischio a dirle che non è vero. Io con tutta la poca età, ho molta pratica di devoti, e so che anzi amano molto singolarmente i libri che a noi fanno stomaco, prima per un loro gusto particolare, del quale la sperienza m’ha chiarito che c’è veramente e non è favola; poi perché a certi concetti non già alti ma che non vanno proprio terra terra, non arrivano i poveretti, in fine (e questa è ragione onnipotente) perché se la lingua ha punto punto del non triviale, è come se ‘l libro fosse in Ebraico, non s’intendendo nessun devoto di Dantesco, perché bisogna sapere che qui tutto quello che non è brodo o se è brodo non è tanto lungo, si chiama Dantesco; sì che il Salvini, per esempio, è Dantesco; il Segneri, il Bartoli, e tutti i non cattivi sono Danteschi, ed oltre i non cattivi, fino la mia traduzione di Virgilio. E queste opinioni non sono già della plebe ma dei dottissimi e letteratissimi, tanto che nella capitale della molto excellentissima et magnifica provintia nostra, è un cotal letteratone che ne’ suoi scritti per tutto toscanesimo ha l’e’, che quando ci capita il mi pare immancabilmente gli fa da lacchè, e tutti hanno che dire sul suo stile che ha troppo dell’esquisito, al che egli risponde modestamente che lo stile del cinquecento è un bello stile. O qui sì che le raccomando di tenersi bene i fianchi, se non vuol far la morte di Margutte. Ma come credono che Belcari e Scaramelli e Ligorio sieno cose simili, così finattantoché il libro non si vede e’ se la berranno. Basta: farò quanto potrò, e lo stesso pel suo Palcani, il quale con vero piacere ho letto come cosa piaciuta a Lei e che viene da Lei, e di eleganza certo rarissima in materie scientifiche, le quali trattate così, sarebbero veramente piacevoli, dove ora sono ispide e orribili.
Mio Padre la ringrazia de’ saluti suoi, e caramente la risaluta. Io poi che le dirò, caro Sig. Giordani mio, per consolarla della disgrazia che l’affligge? se non che questa a me pure passa l’anima, e che prego Dio acciocchè il più ch’è possibile in questo mondo la faccia lieta? Consolazione non le posso dar io con questa mia eloquenza d’accattone. Gliela daran certo e copiosa il suo gran sapere e la sua vera filosofia. A scrivere a me (se vuol continuarmi questo favore) non pensi se non nei momenti di ozio, e in questi pure solo quando le torni comodo. In somma non se ne pigli pensiero più che delle cose minime, perché se vedrò ch’Ella faccia altrimenti, mi terrò dallo scriverle io, e così sarò privo anche di questo piacere. In verità mi dorrebbe assai ch’Ella volesse stare sul puntuale, primieramente con me, di poi in cosa che non lo merita, anzi non lo comporta.
Come farò, signor Giordani mio, a domandarle perdono dell’averle scritto un tomo in vece di una lettera? Veramente ne arrossisco e non so che mi dire, e contuttociò gliene domando perdono. La sua terza lettera m’avea destato in mente un tumulto di pensieri, la quarta me lo ha raddoppiato. Mi sono indugiato di rispondere per non infastidirla tanto spesso, ma pigliata in mano la penna non ho potuto tenermi più. Ho risposto a un foglietto de’ suoi con un foglione de’ miei. Questa è la prima volta che le apro il mio cuore: come reprimere la piena de’ pensieri? Un’altra volta sarò più breve, ma più breve assaissimo. Non vorrei ch’Ella s’irritasse per tanta mia indiscretezza: certo l’ira sarebbe giustissima, ma confido nella bontà del suo cuore. Mi perdoni di nuovo, caro Signor mio, e sappia che sempre pensa di Lei il suo desiderantissimo servo Giacomo Leopardi.
Recanati 8 Agosto (1817)
Quando un giovane, Carissimo mio, dice d’essere infelice, d’ordinario s’immaginano certe cose che io non vorrei che s’immaginassero di me, singolarissimamente dal mio Giordani, per il quale solo io vorrei essere virtuoso quando bene non ci avesse altro Spettatore né alcun premio della virtù. Però vi voglio dire che benché io desideri molte cose, e anche ardentemente, come è naturale ai giovani, nessun desiderio mi ha fatto mai né mi può fare infelice, né anche quello della gloria, perché credo che certissimamente io mi riderei dell’infamia, quando non l’avessi meritata, come già da qualche tempo ho cominciato a disprezzare il disprezzo altrui, il quale non crediate che mi possa mancare. Ma mi fa infelice primieramente l’assenza della salute, perché, oltreché io non sono quel filosofo che non mi curi della vita, mi vedo forzato a star lontano dall’amor mio che è lo studio. Ahi, mio caro Giordani, che credete voi che io faccia ora? Alzarmi la mattina e tardi, perché ora, cosa diabolica! amo più il dormire che il vegliare. Poi mettermi immediatamente a passeggiare, e passeggiar sempre senza mai aprir bocca né veder libro sino al desinare. Desinato, passeggiar sempre nello stesso modo sino alla cena: se non che fo, e spesso sforzandomi e spesso interrompendomi e talvolta abbandonandola, una lettura di un’ora. Così vivo e son vissuto con pochissimi intervalli per sei mesi. L’altra cosa che mi fa infelice è il pensiero. Io credo che voi sappiate, ma spero che non abbiate provato, in che modo il pensiero possa cruciare e martirizzare una persona che pensi alquanto diversamente dagli altri, quando l’ha in balia, voglio dire quando la persona non ha alcuno svagamento e distrazione, o solamente lo studio, il quale perché fissa la mente e la ritiene immobile, più nuoce di quello che giovi. A me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali martirii, per questo solo che m’ha avuto sempre e m’ha intieramente in balia (e vi ripeto, senza alcun desiderio) che m’ha pregiudicato evidentemente, e m’ucciderà se io prima non muterò condizione. Abbiate per certissimo che io stando come sto, non mi posso divertire più di quello che fo, che non mi diverto niente. In somma la solitudine non è fatta per quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi. In questi giorni passati sono stato molto meglio (di maniera però che chiunque sta bene, cadendo in questo meglio, si terrebbe morto) ma è la solita tregua che dopo una lunga assenza è tornata, e già pare che si licenzi, e così sarà sempre che io durerò in questo stato, e n’ho l’esperienza continuata di sei mesi e interrotta di due anni. Nondimeno questa tregua m’avea data qualche speranza di potermi rifare mutando vita. Ma la vita non si muta, e la tregua parte, e io torno o più veramente resto qual era.
Recanati 2 Marzo 1818.
Non guardate, o mio Carissimo, a quello che la malinconia e molto più l’amore immenso m’ha potuto far dire, e per l’avanti scrivetemi a vostro agio e brevemente e come vi piace: non voglio che l’amicizia mia v’accresca le brighe e le molestie che vi dovrebbe scemare se potesse. Il piego arrivò in Ancona il 17 di Febbraio: n’ebbi subito avviso, ma mio padre, mandandola d’oggi in domani, ancora non l’ha fatto venire: venuto che sarà ne scriverò a voi e al Mai che probabilmente infastidirò; pure non mi voglio mostrare ingrato. Dei Belcari, se non sono col Senofonte, che non credo perché voi non me n’avvertiste, non ho notizia. Se consegnerete allo Stella la lettera sul Dionigi, vorrei che me n’avvisaste, se non crederete più bene di consegnargliela, per qualunque cagione sia, non accade che me ne parliate, e fate come vi pare. Mi domandate del soggetto di quell’altra lettera lunga ch’io diceva di volervi scrivere. Ma sapete che siete un curiosaccio? Nondimeno perché l’incertezza produce o accresce l’aspettazione, e io temo sempre il Parturient montes, ve lo dirò: è il Frontone. Della salute sic habeto. Io per lunghissimo tempo ho creduto fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma di qua ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel giorno ch’io misi piede nel mio ventesimo anno ina ti kai daimonion endo to pragmati, ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile. che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purchè m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima. Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente, e m’accorgessi di quello che sono, e dl cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile. Io so dunque e vedo che la mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e così potesse ella esser utile a qualche cosa, come io proccurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni così acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire: contuttociò non dispero di soffrire anche di più: non ho ancora veduto il mondo, e come prima lo vedrò, e sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare amaramente in me stesso, non già per le disgrazie che potranno accadere a me, per le quali mi pare d’essere armato di una pertinace e gagliarda noncuranza, né anche per quelle infinite cose che mi offenderanno l’amor proprio, perché io sono risolutissimo e quasi certo che non m’inchinerò mai a persona del mondo e che la mia vita sarà un continuo disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni; ma per quelle cose che mi offenderanno il cuore: e massimamente soffrirò quando con tutte quelle mie circostanze che ho dette, mi succederà, come necessarissimamente mi deve succedere, e già in parte m’è succeduta una cosa più fiera di tutte della quale adesso non vi parlo. Quanto alla necessità d’uscire di qua; con quel medesimo studio che m’ha voluto uccidere, con quello tenermi chiuso a solo a solo, vedete come sia prudenza, e lasciarmi alla malinconia, e lasciarmi a me stesso che sono il mio spietatissimo carnefice. Ma sopporterò, poiché sono nato per sopportare e sopporterò, poiché ho perduto il vigore particolare del corpo, di perdere anche il comune della gioventù: e mi consolerò con voi e col pensiero d aver trovato un vero amico a questo mondo, cosa che ho prima conseguita che sperata. L’ultima vostra ha in data quello stesso giorno ch’io l’anno addietro vi scrissi la prima mia. È finito dunque un anno della nostra amicizia, che se noi non mutiamo natura affatto, non potrà essere sciolta fuorché da quello che tutto scioglie. Conservatemi la mia consolazione in voi, e pensate che non essendo voi più vostro che mio, non v’è lecito, se m’amate, d’avervi poca cura. Starò aspettando la vostra visita, la quale giacché non può più essere in Maggio, pazienza: ma spero che mi compenserete il ritardo con una maggior durata. E visto che v’avrò, potrò dire che non tutti quei desiderii più focosi ch’io ho sentiti in mia vita, sono stati vani. Addio.