AD ANGELO MAI
Recanati 30 Marzo 1821
Monsignore Veneratissimo. È sempre grave il domandare, tanto a chi domanda, quanto soprattutto al domandato. Ma molto più se chi domanda non ha diritto nessuno al benefizio, ed è primo a domandare; qual è ora il caso mio. Perché da quando ebbi la fortuna di conoscere V. S. non ho avuto mai né l’occasione né la forza di servirla, eccetto col desiderio. Bensì da V.S. sono stato sempre e sommamente favorito. Ed ora in luogo di poterla ricambiare, mi vedo anzi costretto ad implorare da Lei nuovo favore. Ma così accade agli oscuri e piccoli, rispetto agli eminenti ed insigni, coi quali non possiamo comunicare se non colla venerazione o colla gratitudine.
È stato domandato per me alla Eminenza del Segretario di Stato, il posto di professore di lingua latina, ora vacante in cotesta Biblioteca. Ma Sua Eminenza non mi conosce se non per quell’uomo oscurissimo e sconosciutissimo ch’io sono effettivamente. M’hanno assicurato che se V.S. si degnasse di fare spontaneamente a Sua Eminenza una parola in mio favore, il negozio senz’altro riuscirebbe. Ed io lo credo indubitatamente, considerando la fama e gloria, possiamo dire, unica, della quale V.S. gode, tanto costì, come da per tutto.
Io non mi sarei mai potuto indurre a molestare V.S. con questa preghiera, e a cimentare la sua benignità con questa forse temeraria e presuntuosa confidenza, se da una parte, non avessi conosciuto per mille prove la bontà squisita del suo cuore, dall’altra, la infelicità della mia vita, non mi ci avesse violentemente strascinato. V. S. che ha più volte avuto la cordialità d’interessarsi alle cose mie; saprà com’io sino dai dieci anni mi sia dato spontaneamente agli studi in maniera, che in questa età d’anni ventidue, quando la gioventù dovrebbe incominciare, ella è già terminata e passata per me. Giacché a forza di ostinatissime e indiscretissime applicazioni, ho rovinata la mia complessione crescente, indebolita la salute, e vista sopraggiungere la vecchiaia, quando era tempo di raccogliere, mediante la giovinezza, il frutto delle fatiche passate. Oltre a questo, i miei genitori sono stati sempre, e sono tuttavia fermamente determinati, di non lasciarmi uscire di qua, s’io non mi trovo un impiego da mantenermi del mio. Questo impiego non può esser altro per me, che letterario. Io vissuto sempre in un piccolo paesuccio, non ho conoscenze, non amicizie, non appoggi di sorta alcuna. Così che dopo avere perduto ogni altro vantaggio della vita, mi vedo ridotto a perdere intieramente anche quell’ultimo frutto degli studi, che è la conversazione degli uomini insigni, e quel poco di fama, che ogni piccolo uomo si lusinga e desidera di acquistare. Ma chi vive sepolto in un paese come questo, non può mai sperare di farsi, non dico famoso, ma neppur noto in nessuna parte della terra. Tutte le fatiche, tutti i dolori, tutte le perdite che ho sostenute sono vane per me. Io mi vedo qui disprezzato e calpestato da chicchessia; tutte le speranze della mia fanciullezza sono svanite; ed io piango quasi il tempo che ho consumato negli studi, vedendomi confuso colla feccia più vile degli scioperati e degl’ignoranti. Queste ragioni mi hanno fatto forza ad implorare la misericordia di V.S. Non dissimulerò che io le parlo col cuore sulle labbra, e con tutta l’ingenuità di una tenera e rispettosa confidenza. Io sarò debitore a V.S. di molto più che della vita, perché la vita non è un bene per se medesima; bensì l’infelicità e disperazione totale della vita, è un sommo male quaggiù; e chi ci libera da questa, ci libera da peggio assai che dalla morte.
M’inchino con tutta l’anima a V. S. per supplicarla di perdonarmi tanta importunità. Finalmente io son uomo da nulla, e s’io perdo tutto il frutto della mia vita; se son destinato a non provar mai, come non ho mai provata, una goccia di bene quaggiù; questo non rileva; e confesso che non disconviene per nessun conto al merito mio. Ma noi siamo naturalmente inclinati a dare grande importanza alle cose nostre: e massimamente quando si tratta di quasi tutta l’esistenza, non abbiamo riguardo d’infastidire, e anche mostrarci temerari con chicchessia. V. S. mi perdoni, ch’io ne la supplico ardentemente; e se mi pongo nelle sue mani, Ella mi accetti per servitore, o infelicissimo o no ch’io debba essere, certo e invariabilmente devotissimo e attaccatissimo alla sua persona, e alle sue virtù singolari.
A GIULIO PERTICARI
Recanati 30 Marzo 1821
Signor Conte Stimatissimo e Carissimo. È dura cosa il dimandare e peggio a chi niente ci deve, anzi di molto ci è creditore. Ma dall’una parte la vostra squisita benignità, dall’altra la disperazione della mia vita mi fanno forza ch’io vi domandi e vi preghi, anzi vi supplichi. E prima di tutto vi chiedo perdono della rozzezza di questo mio scrivere, perché la tristezza dell’animo, e l’angustia delle cose non mi lasciano tempo né spazio alla considerazione delle parole.
Io credo che voi sappiate (per la bontà che avete usata d’informarvi delle cose mie) che dall’età di dieci anni, senz’altro aiuto che l’ignoranza di chiunque ha mai conversato meco, il contrario esempio de’ miei cittadini, e la noncuranza di tutti, io mi diedi furiosamente agli studi, e in questi ho consumata la miglior parte dèlla vita umana. Ma forse non sapete che degli studi non ho raccolto finora altro frutto che il dolore. La debolezza del corpo; la malinconia profondissima e perpetua dell’animo; il dispregio e gli scherni di tutti i miei cittadini; e per ultimo, il solo conforto che mi restasse, dico l’immaginazione, e le facoltà del cuore, anch’esse poco meno che spente col vigore del corpo e colla speranza di qualunque felicità; questi sono i premi che ho conseguiti colle mie sventuratissime fatiche. La fortuna ha condannato la mia vita a mancare di gioventù: perché dalla fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto, anzi alla decrepitezza sì del corpo come dell’animo. Non ho provato mai da che nacqui un diletto solo; la speranza alcuni anni; da molto in qua neppur questa. E la mia vita esteriore ed interiore è tale, che sognandola solamente, agghiaccerebbe gli uomini di paura. I miei genitori i quali vedono ch’io mi consumo e distruggo in questa prigione, e che vivendo sempre sepolto in un paese, dove non è conosciuto neanche il nome delle lettere, se avessi l’ingegno di Dante, e la dottrina di Salomone, non potrei conseguire una menoma parte di quella fama che ottengono i più scioperati e da poco; sono immutabilissimamente deliberati di non lasciarmi partire di qua, s’io non trovo una provvisione da potermi sostenere a mie spese. E de’ miei portamenti, che son tali, quali non si raccontano o non si credono, in questa età mia, di persona che fosse al mondo, mi ricompensano con ricusare ostinatamente di aiutarmi a conseguire quello medesimo che mi dimostrano e prescrivono per necessario. Solamente mi lasciano la misera facoltà ch’io procuri con quasi nessuna conoscenza, e di lontano, quello ch’è difficile ad ottenere con moltissimi aiuti e patrocini, e colla presenza.
S’è domandato per me al Segretario di Stato il luogo ora vacante di professore di lingua latina nella Biblioteca Vaticana. Ma S. Em. non mi conosce se non per quell’uomo oscurissimo e sconosciutissimo ch’io sono effettivamente. Mi accertano che se Mons. Mai facesse un motto in mio favore al Segretariato di Stato, il negozio succederebbe. Io scrivo a Mons. Mai che da qualche tempo conosco per lettere. Ma parimente mi dicono (e m’era parso già di vederlo) ch’egli è persona d’animo freddo, e bisognoso di forti stimoli a prendersi briga per chi si voglia. Ora io posso ben chiedere il benefizio, ma non meritarlo, né generalmente parlando, né (in questa mia condizione) con veruno in particolare.
Conte mio, non monta, e niuno si deve curare ch’io viva; non desidero, anzi per nessuna cosa del mondo non vorrei vivere: ma poiché non posso morire (che se potessi, vi giuro che non finirei questa lettera, anzi che sarei morto da lungo tempo), io domando misericordia alla natura che m’ha dato l’essere appostatamente per vedermi a soffrire, domando misericordia ai pochissimi amici miei, perché m’aiutino a sopportare, non più la vita, ma gli anni. Io non so se voi tenghiate con Mons. Mai nessuna familiarità: ma sapendo che siete famoso e riverito, come per tutta Italia e fuori, così massimamente in Roma, ho creduto che forse potreste favorirmi in quel modo che vi piacesse, e preso ardire di supplicarvi. Ma perdonate s’io vi fo partecipare della miseria mia con queste odiose querele. Volendo tentare di vincere la mia nera fortuna ho rotto la legge ch’io m’ero imposta da gran tempo, che nessuno, fuori di me, dovesse venire a parte della infelicità mia. Perdonate; e non potendo altro, e in qualunque caso conservatemi la vostra benevolenza; perché se la natura mi condanna al dispregio ch’io merito, e la fortuna all’odio di molti che non merito, mi resti per ultima consolazione l’amore di pochissimi. Il vostro Giacomo Leopardi.