VIII. Colloquio del Conte del Sagrato col Cardinal Federigo.

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Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in quell'ora ritirato in una stanza, dove, dopo aver recitate le ore mattutine, impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che il popolo fosse ragunato nella chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini e le altre funzioni del suo ministero.

Entrò con un passo concitato ed inquieto il cappellano crocifero, e con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso, disse al Cardinale: Una strana visita, Monsignore illustrissimo.

—Quale? richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza.

—Quel famoso bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti.... il Conte del Sagrato.... è qui.... qui fuori, e chiede con istanza d'essere ammesso.

—Egli! rispose il Cardinale: è il ben venuto, fatelo entrare.

—Ma.... replicò il cappellano.... Vostra Signoria[278] Illustrissima lo debbe conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze....

—E non è egli una buona ventura, disse il Cardinale, che ad un tal uomo venga voglia di presentarsi ad un vescovo?

—È un uomo capace di qualunque cosa, replicò il cappellano.

—E anche di mutar vita, disse il Cardinale.

—Monsignore illustrissimo, insistette il cappellano, lo zelo fa dei nemici, sono arrivate più volte fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono vantati....

—E che hanno fatto? interruppe Federigo,

—Ma se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi, costui che non si spaventa di nulla, venisse ora.... fosse mandato, Dio sa da chi, per fare quello che gli altri....

—Oh! che disciplina è questa, interruppe ancora, sorridendo severamente, il vecchio, che un officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete voi che la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede qualche cosa, domanda[279] qualche cosa di più? e che a questo modo, di cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri d'un vescovo?

—Ma questo è un caso straordinario, continuò il cappellano, caparbio per affezione: Vostra Signoria non può così esporre la sua vita. Costui è un disperato, Monsignore illustrissimo, lo rimandi; troveremo qualche onesta scusa....

—Ch'io lo rimandi? rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale, per farmene un rimprovero per tutta la vita e renderne poi conto a Dio? Via, via; già egli ha troppo aspettato. Fatelo entrar tosto, e lasciatemi solo con lui.

Il cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino partì per obbedire, dicendo in cuor suo: non c'è rimedio; tutti i santi sono ostinati; epiteto che, nel senso in cui l'adoperiamo, il più sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.

Uscito nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli altri presenti si stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare sommessamente, il cappellano gli si accostò, e gli disse che Monsignore lo aspettava; facendo nell'istesso tempo, in modo da non esser veduto dal Conte, un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: Quell'uomo benedetto; accoglierebbe Satanasso in persona.

Il Conte allora prese tosto una cintura con la quale[280] teneva appeso l'archibugio e facendolo passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e fatto un fascio di tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli consegnò quel fascio, dicendo: sotto la vostra custodia.

Signor sì, disse il prete, e non senza impaccio, allargando ben bene le mani e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza come avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte. Restava ancora un pugnale, di cui il manico d'avorio intarsiato d'oro, sporgeva tra il farsetto e la veste: e gli occhi erano rivolti sul Conte, per osservare se egli compisse la buona opera di disarmarsi e desse anche questo al curato. Ma il Conte non n'ebbe pure l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui: gli sarebbe sembrato di andar nudo.

Il cappellano aperse la portiera ed introdusse il Conte; il Cardinale si alzò, gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì. Il Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto. Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo: gli anni avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli toccasse la vecchiezza, le[281] astinenze stesse e lo studio avevano tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio, l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza, una, per così dire, bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quel semplice fasto della porpora, che, nuda di ornamenti ambiziosi, tutto ravvolgeva il vecchio. Stava questi aspettando che il Conte parlasse, onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacchè Federigo, benchè non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio animale avesse dinanzi; e avendo preso di questa venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe [voluto] dire, nè far cosa che potesse guastare. Stava egli dunque tacito ed invitava il Conte a parlare con la serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti e sforza talvolta[282] i dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate: ma il Conte stava sopra di sè, perchè era venuto ivi, spinto piuttosto da una smania, da una inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse dire ed udire dal Cardinale. Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio con queste parole: Monsignore illustrissimo.... dico bene? In verità, sono da tanto tempo divezzato dai prelati, che non so se io adoperi i titoli che si convengono.... che si usano.

—Voi non potete errare, rispose sorridendo gentilmente Federigo, se mi chiamate un uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile.

—Si? rispose il Conte: davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune.... dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che per servire altrui. Ma per voi.... tutti dicono che non è un semplice linguaggio di cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente umile? Se fossi venuto per soddisfare ad una mia curiosità?

—No, no, replicò, sempre sorridendo, ma con una seria espressione di affetto il buon vescovo, non è curiosità in voi di vedere quest'uomiciattolo, che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che una cagione più importante vi conduce.

—Lo sentite, Monsignore? qual cagione, di grazia? dicono tanti che voi sapete discernere i pensieri degli[283] uomini? discernetemi il mio, che per.... voi mi farete piacere: mostrandomi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga; parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare.

—E che? disse il Cardinale, come affettuosamente rimproverando: voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?

—Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che io son venuto qui, trascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia, una vergogna di esser dinanzi a voi... così, come una pinzochera.... Oh, ditemi un po', quale è questa buona nuova?

—Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo; rispose tranquillamente il Cardinale.

—Dio? ci siamo, replicò il Conte. Dio! quella parola che termina tutte le quistioni. Dov'è questo Dio?

—Voi me lo domandate, rispose Federigo, voi? E chi l'ha più vicino di voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che[284] v'inquieta, che non vi lascia stare, e vi dà nello stesso tempo una speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo confessiate?

—Certo! certo! rispose dolorosamente il Conte, ho qualche cosa che mi tormenta, che mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto quello che dicono, la mia sola consolazione è nel pensare che nemmeno il diavolo non mi vorrebbe.

Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da spiritato, ma Federigo, con una calma solenne, che comandava il silenzio e l'attenzione, replicò: Che può far Dio di voi? Quello che d'altri non farebbe. Cavarne da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare. Fare di voi un gran testimonio della sua forza.... e della sua bontà. Poichè finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla e si lamenta, è un giudizio facile, poichè è sopra altrui, fors'anche in taluno sarà invidia, forse v'ha chi vi maledice, perchè vorrebbe far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato. Questo può far Dio di voi—e salvarvi.

—No: Dio non vuol salvarmi, replicò il Conte, con un dolore disperato.

Non vuole? disse il Cardinale. Io che sono un[285] uomo miserabile, mi struggo dal desiderio della vostra salute; voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità che mi divora; è Dio che me la ispira; quel Dio che ci ha redento non sarà grande abbastanza per amarvi più ch'io non vi ami?

La faccia del Conte, fino allora stravolta dall'angoscia[286] e dalla disperazione, si ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi, che dall'infanzia non conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente.

—Dio grande e buono! sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perchè tu mi facessi degno di assistere ad un sì giocondo prodigio? Così dicendo egli stese la mano per prendere quella del Conte.—No, gridò questi, no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella che volete stringere?

—Lasciate, disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, lasciate ch'io stringa con tenerezza—e con rispetto—questa mano, che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica, a tanti nemici.

—È troppo, disse il Conte singhiozzando. Lasciatemi, Monsignore.... buon Federigo; un popolo affollato vi aspetta.... tanti innocenti, tante anime buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi trattenete.... con chi!

—Lasciamo le novantanove pecorelle, rispose Federigo amorevolmente; sono in sicuro, sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita. Quella buona gente sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il suo vescovo. Chi sa che Dio, il quale[287] ha operato in voi il prodigio della misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo; forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto.

Al fine di queste parole, stese egli le braccia al collo del Conte, il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il Cardinale, e abbandonò il suo terribile volto su le spalle di lui. Le lagrime ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da gran tempo non avevano posato che le armi della violenza e del tradimento.

Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte: parlate, parlate: apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più vi tormentano; quello che hanno di più amaro si sperderà passando su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di giocondità, sarà una giocondità esso[288] medesimo; non vi lasceranno altra puntura buona che il desiderio di riparare al già fatto. Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora.

—Ah sì, interruppe il Conte: v'è una cosa a cui si può riparare tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma non è compiuto. Lodato Dio, che non lo è! Per farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia confessione, quello ch'io sono, uno scellerato.... e un vile birbone; ma, non importa, quello che importa è di cessare una crudele iniquità.

Federigo stava ansioso attendendo, e il Conte narrò dell'infame contratto di Lucia, del rapimento, dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei primi pensieri che a cagione di queste gli erano venuti.

Il buon vescovo impallidì alla storia dei patimenti e dei pericoli di quella giovinetta; ma quando intese ch'ella si trovava ancora al castello: Ah! disse, è salva, è intatta: togliamola tosto da quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le ore dell'angoscia; abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?

—Dio? sciamò il Conte, che uomo son'io, se mi si richiede come un dono ciò ch'io non ho in mio che per la più vile prepotenza! se mi si chiede per misericordia di non essere più un infame!

—Il male è fatto, rispose Federigo: quello che è da farsi è il bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi benedica. Dio vi ha benedetto. D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù e di be-neficenza.[289] Sapete voi di che paese sia questa poveretta?

Il Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto quel tempo era stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata, umile, commossa del Conte, e su quella del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella sua tranquilla compostezza, restò colla bocca aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro. Ma il Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione, mezzo estatica e mezzo stordita, dicendogli: Fra i parrochi qui radunati ci sarebbe mai quello di....?

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—V'è, Monsignore illustrissimo, rispose il cappellano.

—Lodato Dio, disse il Cardinale: chiamatelo e con lui il curato di questa chiesa.

Il cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano il suo ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un colloquio che gli teneva tutti sospesi. Tutti gli occhi furono rivolti sopra di[291] lui: egli alzò le mani e movendole l'una contra l'altra con un gesto come involontario, tutto trafelato, come se avesse corso due miglia, disse: Signori, signori: haec mutatio dexterae Excelsi. Il signor curato della chiesa e il signor curato di.... sono chiamati da Monsignore.

Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria illustre, se la virtù sola[292] bastasse a dare la gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale; la sua cura continua, di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era tutto il bene possibile; credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù che egli possedeva in un grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale era egli nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti. I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere, pareva a quei semplici che il mondo dovess'esser commosso, poichè un gran giusto ne era partito. Ma dicci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa; non lo saprà mai; e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno[293] splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone curato di Chiuso.

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All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio, dove stava pregando tacitamente, e si mosse, senza altra premura che di obbedire, senz'altra curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche opera utile e pia da intraprendere.

L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio era stato in gran parte cagione di tutto questo guazzabuglio. Egli non poteva sapere, nè avrebbe mai pensato che questa chiamata avesse la menoma relazione con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre. Si avanzò anch'egli, incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del cappellano, quelle sue parole che annunziavano oscuramente cose grandi, e ciò che più stava a cuore di Don Abbondio, cose quiete.

Ambedue i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava col Cardinale. Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi e guardava l'uno e l'altro, ma specialmente il Conte; e aspettava[295] che si dicesse qualche cosa, per esser certo che non v'erano imbrogli.

Il Cardinale prese in disparte il curato di Chiuso, e dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la sua intenzione di spedir tosto in lettiga una donna al castello a prender Lucia, affinchè questa alla prima nuova della liberazione si trovasse con una donna, il che sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e una sicurezza, non meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le sue parrocchiane la donna più atta a questo ufficio per saviezza, e la più pronta per carità ad assumerlo. Ne corro in cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona.

Detto questo uscì: i radunati nell'altra stanza lo guardarono curiosamente, ma nessuno lo fermò per interrogarlo, giacchè si sapeva ch'egli era così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare senza rispetto quando il dovere lo richiedesse.

Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli disse: Una buona nuova per voi, signor curato di.... Una vostra pecorella, che avrete pianta come perduta, vive, è trovata; e voi avrete la consolazione di ricondurla al vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio le provvederà.

—Monsignore illustrissimo, non so niente, rispose Don Abbondio; il primo pensiero del quale era sempre di scolparsi a buon conto e di lavarsene le mani.

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—Come! disse Federigo, non conoscete Lucia Mondella, vostra parrocchiana, che era scomparsa...?

—Monsignore sì; rispose tosto il curato, che non voleva passare per un pastore spensierato.

—Or bene, rallegratevi, disse il Cardinale, che Dio ce la restituisce: e questo signore, continuò (accennando il Conte), è lo stromento di che Dio si serve per questa opera buona. In altro momento voi mi informerete dei casi e delle qualità di questa giovine.

—Ahi! ahi! pensava fra sè Don Abbondio. Bell'impiccio a contar la storia! Questa donna è nata per la mia disperazione.

—Per ora, proseguì Federigo, quello che preme è di riaverla e di riporla nelle braccia di sua madre, e in casa sua, se potrà esservi sicura. Andrete voi dunque con questo mio caro amico (e così dicendo prese la mano del Conte, il quale lasciava dire e fare, troppo contento che un tal uomo lo governasse e parlasse per lui), andrete al suo castello, accompagnando una buona donna di questo paese, che ricondurrà quella giovine nella mia lettiga. Per far più presto, darò ordine tosto che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui. Vedete, continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò che dice, vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate; e servi inutili, che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza misericordiosa.

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Le parole del Cardinale potevano essere belle, ma in questo caso erano veramente perdute; Don Abbondio, all'udire un tal ordine, sentì tutt'altro che consolazione, si trattava di ricondurre in trionfo, alla presenza dell'arcivescovo, quella Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un po' sporcamente, nella cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui avrebbe voluto render ragione era certamente quel Federigo Borromeo. Ma questo non era ancora il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte, di entrare nel suo castello e senza saper chiaramente a che fare. Tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare in tanti anni della audacia, della crudeltà, della bizzarria, della iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione e metteva in moto tutta quella sua naturale paura. Ma questa timidezza stessa poi non gli permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso. Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don Abbondio stava guatando come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare sicuramente un suo cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a cento persone; sente il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura, la miglior bestia del mondo; guarda il padrone e non osa contraddire, per non offenderlo, e per non essere tenuto un dappoco; guarda il cane e non gli si avvicina,[298] perchè teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi, perchè teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte, che l'ha portato in quel gagno, in quella compagnia. Tali erano i sensi e gli atti del nostro povero Don Abbondio. Pure, componendosi al meglio che potè, fece egli un inchino al Cardinale per accennare che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte, accompagnato con un sorriso, che voleva dire: sono nelle vostre mani; abbiate misericordia: parcere subjectis. Ma il Conte, tutto assorto nei suoi pensieri, sbalordito egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a riconoscersi, per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una certa gioja tumultuosa, corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo, e con un aspetto sul quale si confondevano tutti questi sentimenti in una espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don Abbondio ancor più sopra pensiero di prima.

Il Cardinale si trasse in un angolo della stanza col Conte, che teneva per mano, e gli disse: Vi pare egli, amico, che la cosa vada bene così? Siete contento di queste disposizioni?

—E che? rispose il Conte, commosso e umiliato, dopo aver tanto tempo fatto il male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare nel ripararlo? e da Federigo Borromeo?

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—Da Dio tutti e due, rispose questi, perchè siamo due poveretti. Andate, continuò poi con tuono affettuoso e solenne; andate, figliuolo mio diletto, a toglier di pene una creatura innocente, a gustare i primi frutti della misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto, non è vero? noi passeremo insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in questa giornata?

—Se io tornerò? rispose il Conte. Ah! se voi mi rifiutaste, io mi rimarrei ostinato alla vostra porta come il mendico. Ho bisogno di voi! Ho cose che non posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire ad altri che a voi. Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete dirmi.

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