IX. Liberazione di Lucia.

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Scesi [il Conte del Sagrato e Don Abbondio] nel cortiletto della casa parrocchiale, trovarono la lettiga con entro la donna, instrutta dal buon curato, e presso alla lettiga le due mule, tenute per la briglia da due palafrenieri. Salirono entrambi in silenzio; i lettighieri uscirono, per porsi sulla via che conduceva al castello; e i due cavalieri su le mule, sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la cui compagnia fu molto gradita a Don Abbondio, seguirono posatamente la lettiga.

La casipola del curato era, ed è tuttavia, attergata alla chiesicciuola di quel paesello: la cavalcata, per porsi in via, doveva girare il fianco della chiesa e passare davanti alla fronte, sulla quale è voltato un arco che, appoggiandosi dall'altra parte sul muro della strada, forma tetto sopra di questa.

Già sulla porta del curato cominciava la folla di coloro che non potendo capire in chiesa, nè stare in luogo dove si vedesse quello che vi si faceva, cercavano almeno di starvi più presso che si potesse. Quella[304] pompa singolare si affacciò alla turba, e i lettighieri, che erano contadini del luogo, domandarono il passo ai primi che lo impedivano, con un certo garbo inusitato, che era loro ispirato dal sentimento indistinto che servivano a qualche cosa di santo e di gentile, dall'aver veduto il Cardinale, dalla commozione che appariva su tutti i volti. La folla faceva largo, guardando ognuno quella comitiva con maraviglia e con curiosità e il Conte con un riserbo che non era più quel solito terrore. Così pian piano la comitiva si avanzava, quando giunse sotto il portico, dove si dovette rallentare ancora più la marcia per la folla di popolo chiusa fra i due muri; il Conte, guardando nella chiesa dalla porta che era spalancata, si trasse il suo cappello piumato, e inchinò la fronte fino sulla chioma della mula: atto che eccitò un mormorio di gioja e di stupore nel popolo che poteva vederlo, e si propagò per tutta la folla, ognuno raccontandone il motivo ai suoi vicini. Don Abbondio si trasse pure il suo gran cappello senza piume, s'inchinò, sentì i suoi confratelli che cantavano, e provò, forse per la prima volta, un sentimento d'invidia in una tale occasione. Oh quante volte, diss'egli in cuor suo, queste funzioni mi son parute lunghe come la fame, e non vedevo l'ora d'andarmene in sagrestia a piegare la mia cotta, e adesso terrei volentieri di star lì a cantare fino a sera, in quella santa pace, e invece bisogna andare.... Ma Dio benedetto!—sciamò egli internamente come l'uomo che è vivamente penetrato[305] dal sentimento che gli si fa torto—giacchè m'avete ficcato in questo impiccio, almeno, almeno, ajutatemi.

Superata tutta la folla, il corteggio seguì pianamente il suo cammino: ma siccome la disposizione d'animo dei due personaggi a cavallo era sempre la stessa, anzi i pensieri dell'uno e dell'altro diventavano sempre più intensi a misura che si avvicinava la meta, così il cammino si faceva in silenzio, e noi non possiamo riferire che i soliloquj dell'uno e dell'altro.

Gran cosa, (è il soliloquio di Don Abbondio) gran cosa, che a questo mondo vi debbano essere dei tristi e dei santi, che gli uni e gli altri debbano avere l'argento vivo a dosso, che quando hanno una ribalderia, o un'opera santa da fare, debbano sempre tirare per forza in ballo gli altri, quelli che vorrebbero attendere ai fatti loro, e che tanto gli uni, quanto gli altri debbano venir tra i piedi a me, pover'uomo, che non m'impiccio degli affari altrui, e che non cerco altro che di starmene quieto a casa mia! Quel birbone di Don Rodrigo s'ha da ficcare in capo di sturbare un matrimonio, proprio nella mia parrocchia, e m'ha da venire una intimazione di quella sorte! Un pazzo che ha nascita e quattrini, casa ben piantata e parenti in alto, e potrebbe godersi la sua vita tranquilla, signorilmente: attendere a dare dei buoni pranzi, stare allegro e fare degli allegri: Signor no: ha da desiderare la donna d'altri, tanto per venire a molestarmi. Oh questa ragazza[306] benedetta vuol essere la mia morte! Deve proprio capitare in mano di costui (e così dicendo guatava di sottecchi il Conte, quasi per vedere se poteva arrischiarsi a strapazzarlo mentalmente), e costui, che è sempre stato lontano dai vescovi come il diavolo dall'acqua santa, ha da venir qui in persona a cercare l'arcivescovo, senza che nessuno ce lo abbia mandato per forza, proprio per metter me in impaccio; e questo arcivescovo, benedett'uomo, che vorrebbe drizzar le gambe ai cani, a cui pare che il mondo rovini quando la gente sta ferma, che deve sempre far qualche cosa egli, e far fare qualche cosa agli altri; subito, subito, tutto va bene, gran consolazione, la pecora smarrita, credere tutto, darvi dentro, e far trottare il curato. Che si abbiano concluso fra loro, Dio lo sa; ma, cospetto, non bisogna andar così in furia a questo mondo. La santità non basta, ci vuole un po' di prudenza, e sì che dovrebbe avere imparato: ha avuto delle belle brighe, a forza di cercarne e di volerne fare anelar le cose a modo suo: ma pare che vi c'ingrassi: non ne lascia scappare una. La carità va bene, ma la prima carità dovrebb'essere per un povero curato, che un vescovo, un vero vescovo di giudizio, lo dovrebbe tener prezioso come la pupilla degli occhj suoi. Chi sa costui che cosa gli ha cantato? che fini ha? potrebb'essere una trappola: ahi! ahi! ahi! Ma se anche, come spero, fosse convertito costui (e qui guardava il Conte) dovrebbe sapere Monsignore illustrissimo che dei peccatori[307] inveterati non è da fidarsi così subito, bisogna provarli; i primi momenti sono bruschi; e la forza dell'abito fa ricadere uno quasi senza che se ne avvegga, e intanto... chi è sotto è sotto: ahi! ahi! ahi! S'aveva mo a mandar così un povero curato galantuomo sotto la bocca del cannone?

Don Abbondio era a questo punto della sua meditazione quando la cavalcata giunse alla taverna, dove cominciava la salita, e ne uscirono bravi secondo il solito, i quali videro con istupore il Conte con un prete dietro una lettiga. Pensarono che potesse essere, non lo seppero indovinare, e non fecero altro che inchinarsi al Conte, il quale, con viso serio, proseguì il suo cammino. Ma Don Abbondio continuava: ci siamo: Oh che faccie! Questa è la porta dell'inferno! E costui, vedete, che faccie stralunate fa anch'egli! Un po' pare Sant'Antonio nel deserto quando scacciava le tentazioni, un po' pare Oloferne in persona! Dio mi ajuti, e lo deve per giustizia.

Infatti i pensieri che si affollavano nella mente del Conte, passavano, per dir così, rapidamente sulla sua faccia, come le nuvolette, spinte dal vento, passano in furia a traverso la faccia del sole; alternando ad ogni momento una luce arrabbiata e una fredda oscurità. Pensava a quello che avrebbe detto e fatto, mettendo il piede nel suo castello, trovandosi con quegli dai quali in un punto s'era fatto così diverso. Avrebbe voluto render gloria a Dio, confessare il cangiamento che era accaduto nel suo animo, rinnegare la sua[308] scellerata vita in faccia a quelli che ne erano stati i testimonj, i complici, gli stromenti. Ma... diceva un altro pensiero: guaj se costoro credono un momento ch'io non sia più quello da stendere in terra colui che ardisse resistermi!

Così pensando, egli pose macchinalmente la mano al luogo dov'era solito tenere una pistola, e si ricordò di averle lasciate con le altre armi in casa del curato—Ohè! continuava fra sè, perchè mi obbedirebbero costoro? e se veggiono che questo pane infame è finito per loro, chi sa che cosa la rabbia può suggerire a costoro. E quello che importa è di non far parole, di non perder tempo, di ricondurre Lucia tranquillamente; quella poveretta! il pegno del mio perdono! Se in questa casa, se in questa caverna, cessa un momento la disciplina, il terrore del padrone, diventa un inferno! peggio di prima! Costoro saltano il confine, e sono in sicuro; eh gli ho avvezzi io così! Ma che! dovrò io dunque umiliarmi a fingere dinanzi a costoro! a questi scellerati? Scellerati? costoro? chi sono costoro? i miei scolari, i miei amici, quelli che ho ammaestrati io! Facciamo il bene per l'unica via che è aperta. Bisogna dissimulare; si dissimuli. Così pensando, egli si guardò attorno, e visto che nessuno dei suoi era in vicinanza, alzò la voce, ordinò ai lettighieri di restare, scese da cavallo, si avvicinò alla lettiga, e salutata la buona donna, che v'era seduta, le disse sottovoce: L'opera di carità che voi fate ora, vuol essere condotta con[309] prudenza assai. Lasciatevi regolare da me in tutto; e sopra ogni cosa non dite parola che a quella poveretta; e a chi ardisse interrogarvi, dite che parli con me. Voi entrerete nella stanza dov'è quella giovane, le direte brevemente che siete venuta a liberarla; non ne dubiterà, quando vedrà il suo curato. Sarà spaventata, poveretta! vedete di annunziarle la cosa in modo che la sorpresa non le faccia male: la lettiga verrà nella stanza, e ripartiremo tosto. La buona donna rispose che farebbe come le era detto. Mentre il Conte le dava questa istruzione, Don Abbondio, il quale fino allora si era spaventato ad ogni bravo che s'incontrava, e che per consolarsi guardava ai lettighieri e ai palafrenieri, stava tutto in incertezza per questa fermata, e sospirava. Il Conte, spiccatosi dalla lettiga, si avvicinò alla mula di Don Abbondio, che aspettava quello che avvenisse, con gli occhi sbarrati, egli disse sottovoce: Signor curato; ella non ha bisogno che io le insegni ad esser prudente; ma in questa casa è necessaria una prudenza che io solo pur troppo posso conoscere appieno. Se le sta a cuore la riuscita di questo pio disegno, non dica parola, non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, nè di quello che si vuol fare, nè di quello ch'io penso. Perdoni, signor curato, se non le dico di più, se non le faccio più scuse dell'incomodo ch'ella patisce per mia cagione, ma ella ne spera la ricompensa dal cielo, e verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia riconoscenza.

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La voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il poveretto che è stato colto dalla caduta d'una fabbrica e vi si trova sepolto vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse quella del Conte al povero nostro Don Abbondio.

—Ah! signor Conte, diss'egli, confondendo il sentimento che voleva esprimere con quello che provava realmente, ella mi dà la vita. Dio sia benedetto! queste sono grazie di lassù. Tocca a me farle scusa se sono stato incivile....

—Zitto, per amor del cielo, interruppe il Conte: ad altro tempo le cerimonie: ella non faccia vista di nulla, si contenga in modo che nessuno possa sapere qui s'ella giunge in casa d'un amico...... o d'un tiranno.

—Lasci fare, lasci fare a me; rispose Don Abbondio. Il Conte salì di nuovo sulla mula, e volto ai lettighieri e ai palafrenieri disse loro: Silenzio e obbedienza: non dite, nè rispondete una parola in quel castello: non parlate nemmeno fra voi; silenzio insomma.... e il primo di voi che fiata.... Ma no, continuò, ravvedendosi, in tuono più dolce, figliuoli non fiatate, perchè potreste far molto male a voi e ad altri—Andiamo—

I lettighieri, che avevano deposta la lettiga, ascoltata a borra aperta questa arringa, ripresero le cinghie su le spalle, continuarono la loro strada, le mule seguirono, e si giunse alla porta del castello.

Gli scherani del Conte, che al suo avvicinarsi al[311] castello s'incontravano sempre più frequenti, già stupiti di quel suo uscir solo al mattino in un giorno di tanto movimento e di tanto concorso, lo erano ancor più allora di vederlo tornare al seguito d'una lettiga chiusa, a paro d'un prete, con quelle cavalcature sconosciute: ma quello che portava al sommo il loro stupore si era di vedere il loro padrone senz'armi. Quella partenza aveva dato luogo a molte congetture, e fatta nascere una aspettazione di qualche cosa di nuovo, ma il ritorno, invece di soddisfare la curiosità, la cresceva e la impacciava da vantaggio. Era una preda? Come l'aveva fatta il padrone solo? e perchè il vincitore tornava disarmato? O che diamine era? Chinandosi umilmente davanti al padrone, che passava, cercavano essi di spiare sul suo volto qualche indizio di questa faccenda, ma il volto del Conte era impenetrabile: e gli scherani rimanevano a guardarsi l'un l'altro con la bocca aperta.

Alla porta, il Conte scese dalla mula, e fece cenno di fare altrettanto a Don Abbondio, che lo guardava attentamente, appunto per non perdere un cenno; e veduto questo, si lasciò tosto sdrucciolare dalla sua mula. Il Conte disse ai palafrenieri: aspettate qui; disse al curato di seguire la lettiga; andò egli dinanzi, e disse ai lettighieri: seguitemi. Tutto si fece come egli aveva imposto: il Conte entrò col suo seguito nel cortile, si avviò alla stanza dov'era Lucia, ed entrato in quella che le era vicina, fece restare i lettighieri, si chiuse dentro, e comandò che la[312] lettiga fosse posta a terra. Aprì allora lo sportello, diede la mano alla buona donna, la fece uscire e disse sottovoce, in modo da non essere inteso che da quelli che lo vedevano: In quella stanza è la giovane da condursi via: e con lei una vecchia malandrina.... una vecchia. Io la chiamerò fuori: voi entrate, e voi pure, signor curato. Annunziate a quella giovane che è libera, che deve partir tosto con voi, che la cosa deve passare quietamente; non perdete tempo: quando ha inteso, quando è disposta, bussate, la lettiga verrà nella stanza: fatela sedere in essa, ponetevi al suo fianco, tirate le cortine e venite qui: io vi aspetto: andrò innanzi, poi la lettiga, poi il signor curato; dritto alla porta; quivi saliremo sulle nostre mule, e ripartiremo. E voi, disse rivolto ai lettighieri, zitti. Così detto condusse la buona donna ed il curato sulla soglia della porta chiusa, che dava alla stanza di Lucia, bussò: s'udì la voce della vecchia, che disse: chi è egli? Io, rispose il Conte: la vecchia aprì, e vide le due faccie inaspettate col padrone; restò come incantata. Uscite, le disse il Conte; quella uscì tosto, e i due salvatori entrarono. Fermatevi qui, disse allora il Conte alla vecchia; e non disse altro: egli, la vecchia e i lettighieri stettero tutti immobili, egli a tender l'orecchio e a numerare i movimenti, i lettighieri ad attendere, e la vecchia a smemorare.

Lucia aveva passata la notte in un letargo, agitato da sogni tormentosi e da risveglimenti più tormentosi[313] ancora. Al mattino la vecchia, destandosi, aveva chiamata Lucia, e non udendo risposta, s'era levata in fretta, aveva aperte le finestre, e avvicinatasi alla captiva, chinatasi a guardarla, le aveva chiesto se dormisse, se volesse togliersi da quel cantuccio e ristorarsi di cibo, che doveva averne bisogno. No, lasciatemi quieta, ricordatevi del vostro padrone, era stata la sola risposta di Lucia. La vecchia brontolando s'era ritirata, e per far qualche cosa s'era posta a rifare il suo letto. Quindi era andata ad una tavola, dov'erano le reliquie della cena, vi si era seduta e s'era messa a mangiare, accompagnando questa operazione con le parole e con gli atti ch'ella credeva più opportuni ad eccitare l'emulazione di Lucia e a vincere il suo proposito: poichè la vecchia non poteva supporre che si resistesse a lungo ad una tentazione di questa fatta, principalmente dopo un lungo digiuno, come quello che aveva patito Lucia. Cominciò dunque a sclamare: Ih! quanta roba! ce n'è per quattro bravi! e che grazia di Dio. Quindi stese un mantile e cominciò a trinciare un pezzo di stufato, regolando ogni movimento in modo che il romore eccitasse nella mente di Lucia una immagine chiara di quello che ella faceva. E questa sua cura era spinta al segno (la delicatezza dei lettori ci perdoni se per seguire fedelmente il manoscritto in tutto ciò che può essere una rappresentazione del costume, ripetiamo anche questa particolarità) che, postasi a mangiare, ella andava rimasticando[314] nella sua bocca ssdentata il boccone, producendo con affettazione quei suoni che a ragione proscrive Monsignor della Casa, perchè ella s'immaginava che in quei suoni ci fosse qualche cosa di appetitoso; la sua educazione e le sue antiche abitudini avevano talmente elevata sopra le sue idee, l'idea di mangiare di quei bocconi che non sono concessi a tutti, che tutto ciò che era associato a questa idea era per lei importante, leggiadro, irresistibile. Buono! diceva di tratto in tratto. Buono! viva l'abbondanza! muoja la carestia! Bella cosa vivere in casa dei signori! E pure di tratto in tratto dava una occhiata alla sfuggita al cantuccio, ma vedendo Lucia insensibile, si adirava dell'inutilità dei suoi artifici così reconditi, e mescolava alle esclamazioni di ammirazione e di gioja, un brontolio sordo di ehu! ehu! smorfia, smorfia, smorfia! venne finalmente all'ultima prova e al più forte esperimento. Prese con la sua destra rugosa e scarnata un fiasco, che stava sulla tavola, con la sinistra un bicchiere, e fattili prima cozzare un tratto e tintinnire, sollevò il fiasco, lo inclinò sul bicchiere, lo riempì, se lo pose alla bocca, tracannò un sorso, ritirò il bicchiere, battè due o tre volte un labbro contra l'altro, e sclamò: Ah! questo risusciterebbe un morto! Bella felicità averne dinanzi un buon fiasco! Al diavolo i rangoli e i pensieri! Non mi duole più nemmeno d'esser vecchia, ma se fossi giovane, ah! come vorrei godermela! Detto questo, ripose il bicchiere alla bocca, lo vuotò, e cheta cheta si volse al[315] cantuccio, e rimase tra lo stupore e la stizza vedendo che anche l'incanto più forte non aveva prodotto alcun effetto.

—Non volete mangiare un boccone e bere un sorso? diss'ella a Lucia. No, fu la risposta; proferita in modo da non lasciare alla vecchia la lusinga che la resistenza produrrebbe maggior effetto. Finalmente la vecchia si levò dalla tavola, prese una scranna, la portò presso una finestra, e tolta la sua rocca si pose a filare, pensando ai casi suoi ed aspettando la venuta del padrone con molta inquietudine.

Per comprendere i pensieri stranamente molesti che ronzavano nella mente della vecchia filatrice è necessario avere una idea di quella mente e dei casi che l'avevano modificata.

Era costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte, o per dir meglio del padre del Conte, dieci anni prima di questo. Ciò ch'ella aveva inteso, ciò ch'ella aveva veduto dai suoi primi anni le avevano dato un concetto grande, indeterminato, predominante del potere e del lustro de' suoi padroni. La massima principale ch'ella aveva attinta dalle istruzioni, dagli esempj, da tutto, era che bisognava obbedir loro: che ciò fosse per dovere, fosse per interesse, fosse per destino, erano questioni che non s'erano mai presentate al suo spirito: ella sapeva che bisognava obbedire. Ebbe ella poi l'onore di sposare il custode del castello quando i padroni non facevano ivi che una breve villeggiatura,[316] abitando in Milano la maggior parte dell'anno. L'uficio del marito doveva presentare cento occasioni che rinforzassero ed estendessero l'idea che la nostra allora giovane donna aveva del potere della famiglia per lei sovrana; e la parte ch'ella doveva prendere nei servizj del marito le furono occasione di applicare la sua obbedienza, di esercitarla e di avvezzarla a tutto. Quando il Conte divenne padrone, quel potere divenne ancor più grande e più attivo in proporzione dell'attività violenta dell'animo di lui: e coloro che erano ministri di questo potere dovettero divenire ancor più obbedienti e più soperchiatori, essere più spaventati e fare più spavento: pochi servitori, ai quali la coscienza disse che era troppo, si ritirarono: quegli che rimasero, crebbero nella perversità, come una pianta velenosa cresce di grandezza e di forza malefica quando si trova in un terreno confacente. Il marito della nostra eroina fu di quelli che rimasero. Quando poi il Conte, carico già di delitti e bandito capitalmente, venne ad abitare stabilmente il castello, che fu per lui un asilo ed un campo allo stesso tempo, per condurvi quella vita della quale abbiamo dato un cenno, è facile immaginarsi quale dovesse essere allora l'attività e l'obbedienza di coloro che stavano al suo servizio e presso di lui. La sciagurata fu madre di una figlia, dir a suo tempo fu sposata ad uno scherano del Conte, e di due figli, che furono scherani e furono soprannominati, il Nato-in-casa e lo Spettinato. Alla[317] morte del marito ella rimase senza servizio determinato, ma destinata a tutti quelli che potevano essere prestati da una donna accostumata com'ell'era.

Tener disposto il pranzo pei bravi a qualunque ora tornassero da una spedizione, medicare i feriti, accudire insomma ad essi, era la sua occupazione più ordinaria. Quasi tutte le sue idee erano ricavate dai loro colloquj, ma tutte erano dominate da una idea principale, quella di non dispiacere al padrone.

Le impressioni della infanzia l'avevano abituata ad una riverenza tremante per lui; vissuta ai suoi servizj, ella non poteva immaginare che fuori di lui vi potesse essere per essa un asilo, un sostegno; e aveva tanto inteso dire, tanto aveva veduto degli effetti della collera di lui, che il minimo grado di quella collera la metteva in un'angoscia mortale. In tutto ciò che ella aveva a fare e a dire non aveva quindi da gran tempo altra cura che di accontentarlo; ogni altra regola taceva dinanzi a questo unico interesse, che era quasi divenuto un istinto; anzi ogni altra regola si era a poco a poco quasi smarrita affatto dalle sue idee. Quei pochi pensieri e documenti di religione, che le erano stati dati confusamente nella infanzia, erano obliterati dal disuso, dal non sentirli mai rammemorare, e l'idea di giusto e d'ingiusto, che pure è deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolta nel suo fin dal principio, insieme con le passioni del terrore e della cupidigia servile, accomodata per abito ai principj che tutto[318] giorno sentiva predicare e dalle azioni che vedeva compiersi, e alle quali ella partecipava, era divenuta una applicazione mostruosa di tutte queste idee e di tutte quelle passioni.

La volontà capricciosa, irregolare, violenta del Conte era per lei una specie di giustizia fatale; spiacergli era colpa, o sventura; male insomma. La ragione o il torto stavano per essa nella approvazione, o nel malcontento del terribile padrone; poichè quale altro argomento di ragione comune poteva aver luogo in quella casa e fra quelle persone? quale principio generale di equità avrebbe potuto essere invocato da coloro che non li riconoscevano nei rapporti con gli altri che li violavano tutti? E come mai avrebbe potuto aver ragione una volta quella che, servendo alle soperchierie e rallegrandosene, rinunziava di fatto ad ogni principio di diritto, e nello stesso tempo non aveva forza alcuna, non aveva una minaccia per sostenere un diritto quando il suo interesse la portasse a sentirlo e ad ammetterlo? A tutte queste abitudini di servitù e di annegazione perversa, si aggiungeva un sentimento, in origine, migliore, che le rinforzava: il sentimento della riconoscenza. Avvezza costei a ricevere il suo sostentamento dal Conte, riconosceva la vita come un dono della volontà di lui, come un beneficio della sua potenza. E avvezza pure a risguardarsi dalla infanzia come cosa del suo signore, provava un certo orgoglio di consenso per quella sua potenza, pel terrore[319] ch'egli incuteva; le pareva di essere qualche parte di un sistema molto importante.

La gioja orrenda ch'ella aveva provata tante volte nella sua vita pel buon successo delle imprese del Conte, gioja che nasceva da tutti i sentimenti abituali che abbiamo descritto, l'avevano resa non indifferente, ma propensa ai patimenti altrui, ed ella gli procurava con compiacenza ogni volta che il timore del padrone le avesse permesso o consigliato di farlo. Bersaglio sovente degli strapazzi e degli scherni dei bravi, ella aveva imparato a tollerare, rodendosi quando non poteva ripetere, ma quelle poche volte che le era lecito di straziarli impunemente senza dispiacere del padrone, le uscivano dalla bocca cose tanto argute, tanto profonde, tanto inaspettate, che il diavolo vi avrebbe trovato da imparare.

Intendete ora perchè la vecchia, guardando Lucia, faceva saltare il fuso con istizza e di tempo in tempo lo lasciava oscillare penzolone per aria; tutta assorta nei pensieri del terrore? Dagli ordini che il padrone le aveva dati partendo, e dal tuono con cui gli aveva proferiti, ella aveva compreso che al padrone premeva quella ragazza, ch'egli l'aveva fatta pigliare e la riteneva chi sa perchè; ma che voleva ch'ella fosse contenta. Vedendo ora che tutti i suoi tentativi per raddolcirla erano inutili, che la obbedienza, il garbo quasi servile, gli inviti amichevoli non avevano servito a nulla, stava in angoscia, pensando a quello che avrebbe detto il padrone quando, tornando, avrebbe[320] trovata Lucia in quello stato di abbattimento. Poter dire: io non ci ho colpa, non era un pensiero che rassicurasse la vecchia, perchè ella era solita a vedere che il padrone misurava il suo tratto con gli uomini dalla soddisfazione o dalla noja che sentiva, e non da altro. Che colpa avevano tanti ch'egli aveva mandati all'altro mondo, e alla sorte dei quali ella stessa aveva applaudito? Tentava ella dunque di tempo in tempo Lucia con qualche parola dolce, nella quale, a dir vero, ella stessa poneva poca fiducia, dopo d'aver veduto Lucia resistere alla tentazione del mangiare; e in fatti non otteneva da Lucia altra risposta che un no, talvolta replicato, al quale ella ammutoliva: e si stava, come abbiam detto, aspettando con la venuta del padrone la rivelazione del destino.

Ma la povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, intero, e, per dirla con un calzante modo milanese, non aveva mai potuto dormire serrato, così a giorno fatto, nella luce chiara, non era desta perfettamente. Le memorie, i timori, le speranze si agitavano e si succedevano nella sua mente con quell'impeto volubile, con quel vigore incerto dei sogni, e il corpo, sbattuto, estenuato dai travagli, dal digiuno e dalla febbre, non concedeva allo spirito il pieno esercizio della coscienza. In questo stato era Lucia, sempre rannicchiata, quando fu bussato dal Conte; la porta s'aperse, la vecchia uscì, e la buona donna entrò con Don Abbondio. Tutto questo fu un istante; ma un istante di nuovo batticuore[321] per Lucia, alla quale se lo stato presente era intollerabile, ogni mutazione era però una contingenza di spavento. Fissò ella gli occhi nei sopravvegnenti, vide una donna e si rincorò, vide un prete e le sue speranze si accrebbero; guardò più attentamente: è egli, o non è? son'io trasognata? È il mio curato!

La buona donna si avvicinò a Lucia, che, senza quasi pensarvi, si alzò, e salutatala con un volto di pietà cortese, si pose l'indice della destra su le labbra e stesa la manca la abbassava e la rialzava lentamente, come si dipinge il Salvatore che acquieta i flutti del mare di Tiberiade, e disse con voce sommessa: allegramente, veniamo a liberarvi.

—È dunque la Madonna che vi manda? disse Lucia, con un giubilo ancora incerto, ma pur vivissimo.

—Può essere, rispose la buona donna.

—Chi siete? come avete potuto...? cominciò Lucia alla buona donna; indi tosto, rapita da un'altra brama di sapere, si rivolse al curato e continuò: e lei, signor curato, come....?

—Ah! vedete? rispose Don Abbondio; son qui io, il vostro curato, a liberarvi dal lago dei leoni, senza riguardi per me, in una giornata fredda, a cavallo....

—E mia madre? domandò ancora Lucia, a cui le idee si succedevano in folla.

—La vedrete presto, oggi, rispose Don Abbondio: ma prima dovete vedere ben altro personaggio.

[322]

—Chi? dove? richiese Lucia.

—Monsignore illustrissimo, che ci aspetta, che vuol vedervi. Ma abbiate giudizio: badate a quel che dite; voi non potete avere pratica di quello che va detto e taciuto ai signori grandi. Vi chiederà delle vostre vicende: non istate a troppo ciarlare; vi può far del bene; ma bisogna guardarsi dal toccar certe corde; non parlate del matrimonio, perchè, vedete, se sapesse che avete voluto sorprendere il curato, fare un matrimonio clandestino, guai, guai...!

—Chi è Monsignore illustrissimo, domandò Lucia?

—È il Cardinale arcivescovo, rispose Don Abbondio, un uomo di Dio, ma bisogna saperlo pigliare, perchè....

—Andiamo tosto, disse la buona donna.

—È vero, disse Don Abbondio, andiamo, perchè qui non è troppo bello stare: ma ricordatevi di quello che v'ho detto.

—Come faremo ad uscire? disse Lucia, e se ci veggono?

—Non temete, disse la buona donna, il padrone del castello viene egli stesso a cavarvene; qui fuori è la lettiga, voi entrerete con me, e partiremo col signor curato.

—Ho da vederlo ancora il padrone, chiese ansiosamente Lucia, per la quale il Conte era ridivenuto orrendo, da poi ch'ella aveva veduti due visi umani. E continuò: ho paura di lui, ho paura.

—Che paura? disse Don Abbondio, siete con me, ed è mio amico. Risolvetevi.

[323]

—Non lo vedrete, disse la buona donna; noi ci chiudiamo nella lettiga e si parte, e in un momento siamo a Chiuso.

—Ah! Chiuso! sclamò Lucia: dov'è quel buon curato! andiamo, andiamo. Oh Madonna santissima, vi ringrazio! Ma lo sentivo in cuore che non mi avreste abbandonata!

La buona donna aperse un filo della porta, tanto da poter far un cenno, che fu tosto veduto dal Conte, il quale comandò ai lettighieri di andare nell'altra stanza. Queglino vi portarono la lettiga, Lucia vi entrò, e la buona donna dopo lei, si tirarono le cortine, i lettighieri uscirono, il curato dietro: nell'altra stanza il Conte si accompagnò con lui: disse alla vecchia: aspettatemi qui un'ora, e se non torno, andate a fare i fatti vostri. Nel cortile, alla porta del castello, il Conte e il curato a cavallo, la lettiga davanti, giù per la discesa, e dritto a Chiuso.

A misura che la carovana si avanzava nel suo viaggio, tutti quelli che la componevano, respiravano più liberamente. Appena la buona donna fu nella lettiga, al momento che i portatori la sollevavano per partire, ella raccomandò a Lucia di non parlare finch'ella non gliene desse avviso. Ma poi che dallo scalpito delle mule, che seguivano, s'accorse che era varcata la soglia, cominciò a guardare un po' fuori delle cortine, e vista la strada libera, ruppe ella stessa il silenzio dicendo a Lucia: Povera giovane! l'avete passata brutta! Ma Dio ha pensato a voi, e tutto è finito.

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Queste parole diedero campo a Lucia d'interrogare la buona donna, che cercava di soddisfare alle sue domande, dicendo quel poco che sapeva, e come lo sapeva.

Lucia a poco a poco vedeva un po' più di lume nelle sue strane e terribili avventure; le risposte della buona donna la rimettevano sulla via e l'ajutavano a spiegare tanti misteri della sua sventura e della sua inaspettata salute; tanto che in quel viaggio, Lucia potè farsi una idea del suo stato, comprendere qualche cosa, ed uscire da quella affannosa confusione d'idee nella quale lo strano, l'insolito di quello che si vede e si soffre non le lascia riposare la mente in alcuna, non lascia altra certezza che quella di esistere, e questa stessa diviene un tormento.

—Oh quando potrò vedere mia madre! sclamò Lucia appena si sentì rassicurata e potè discernere quello che era reale, quello che era possibile. La buona donna le promise che appena suo marito tornerebbe dalla chiesa, ella lo determinerebbe ad andarne in cerca, ad informarla, a condurla presso di lei.

Don Abbondio pigliava fiato ad ogni passo; la conferenza che il Cardinale avrebbe con Lucia gli dava un po' di briga per le cose che si dovevano rivangare di quel tale matrimonio: vedeva in lontano dei pericoli per parte di Don Rodrigo; ma il sentimento predominante era allora la gioja di uscire sano e salvo da quella spedizione. Pieno di questo[325] sentimento, Don Abbondio aveva una parlantina che nessuno gli avrebbe supposta vedendolo così silenzioso nella prima andata; e non avrebbe rifinito di ciarlare col Conte se questi avesse fatto tenore ai suoi inviti. Ma il Conte, benchè lieto di ricondurre Lucia al Cardinale, era tuttavia troppo compreso da tanti sentimenti per prestarsi alla garrulità di Don Abbondio. Ed, oltre il resto, era anche un po' umiliato internamente dell'inquietudine che aveva provata nella spedizione, delle precauzioni che aveva prese in casa sua, di una prudenza che gli pareva pusillanimità. Ma il Conte non si conosceva: s'era fatta nel suo animo una rivoluzione, della quale egli non s'era reso ben conto; v'eran nati dei sentimenti, vi s'erano svolte delle disposizioni, ch'egli non aveva ancora potuto ben raffigurare: e non s'avvedeva che questa pusillanimità era una nuova sollecitudine pia e gentile per una debole innocente, una delicatezza fin allora estrania all'animo suo, un timore che non si sarebbe presentato a quell'animo se non si fosse trattato che d'un proprio pericolo - .

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