La Serva di Don Abbondio.
Colla compagnia di questi pensieri [Don Abbondio] giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona, che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia Vittoria.
—Ma che cosa ha, signor padrone?
—Niente, niente.
Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva[619] aspettare, e non la contò per una risposta, e proseguì:
—Come, niente? Signor padrone, ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad intendere?...
—Quando dico niente, ripigliò Don Abbondio con impazienza, o è niente, o è cosa che non posso dire.
Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre più incalzando.—Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi rimedierà...
—Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò.
Quando Vittoria intese questo, fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la cosa era grave, e giurò a sè stessa di non lasciare andare a dormire il curato senza averla saputa.
—Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?
—Si, si, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto.
—Ma io non dirò niente, se ella mi toglie da questa inquietudine.
—Non direte niente, come quando siete corsa a ripetere alla serva del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso di domandargli scusa, come quando...
Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un secreto da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma in aria sommessa:
—Oh, per amor del cielo, che va ella mai rimescolando:[620] sono stata ben castigata; non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...
—Via, via, non giurate.
—Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma ella sa, e qui fece una voce da piangere, ella sa che i misterj non li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...
In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti, le narrò il miserabile caso: mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo e l'inquietudine del fatto, che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi e ristette colla posata alzata nel pugno, che tenne puntato sulla tavola.
—Misericordia! sclamò Vittoria: oh gente senza timor di Dio, oh prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!
—Zitto, zitto, a che serve tutto questo?
—Ma come farà, signor padrone?
—Oh! vedete, disse il curato in collera, i bei pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela.
—Sa il cielo se me ne spiace, signor padrone; ma bisogna pensarci.
—Sicuro, e nell'imbroglio son io.
—Pur troppo, disse Vittoria, ma non si lasci spaventare: eh! se costoro potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare, ma non strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde.
—Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha morso?...
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—Lo conosco e so bene che...
—Zitto, zitto, questo non serve.
—Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone.
—Ma, se non ho voglia.
—Ma se le farà bene; e, detto questo, si avvicinò al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto, come per dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in tempo qualche esclamazione, come: Una bagattella! ad un galantuomo par mio, ed altre simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare tranquillamente e ordinatamente sui casi suoi.
La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza e la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere incitata e ricevere l'incarico di proporre il partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva, senza darsi per inteso della minaccia, non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche benefizio dal tempo, ma questo anche fu rigettato, perchè non v'era spazio per eseguirlo. La celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione, avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego[622] per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo esperimento, passò in rassegna tutti i mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza (in paragone di Fermo) e la pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare.
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L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di rimbrotto, senza un perchè, quel farsi nuovo del matrimonio, che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto; il complesso insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così incoerente e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in forse di ritornare al curato per incalzarlo a parlare, ma, sentendosi caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa questa triste nuova. Sull'uscio del curato abbattè in Vittoria, che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe potuto cavar qualche cosa, e, salutatala, entrò in discorso con lei.
—Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria.
—Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino.
—Ditemi un poco, quale è la vera ragione del[623] signor curato per non celebrare il matrimonio oggi, come s'era convenuto.
—Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del signor curato?—È inutile avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole esser creduto.
—Via, ditemi quel che sapete; ajutate un povero figliuolo.
—Mala cosa nascer povero, il mio Fermino.
Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo; dirò soltanto che Vittoria, fedele ai suoi giuramenti, non disse nulla positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto, noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.; parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere; del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un galantuomo; fece insomma intender tanto, che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente, per timore, come si dice, di cantare, si separò da Fermo, raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.
—Che volete ch'io taccia, disse Fermo, se non mi avete voluto dir nulla.
—Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma vi raccomando il segreto.—Così dicendo, si mise a correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata. Fermo, che aveva acquistata tutta la certezza che una[624] trama iniqua era ordita contro di lui, e che il curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi, che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato.
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—Mi promettete ora, disse il curato, di non dir niente?
Fermo, senza rispondere, gli chiese di nuovo perdono, e
da lui, che molto anco volea
Chiedere e udir, qual lume al soffio sparve.
Don Abbondio, dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte è accaduto a personaggi assai più importanti di Don Abbondio di trovarsi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero al letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo a cercare, perchè se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno passato, l'agitazione della notte e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando dal brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria. Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati questi ordini, si[625] pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci di lui un tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo timido, il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento, merita meno pietà dello scellerato consumato, il quale, cercando il male e facendolo spontaneamente, mostra almeno di avere una gran forza d'animo e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre.
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