XVI. Il tozzo di pane e il bicchier d'acqua del Cardinal Federigo.

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Prima però di staccarci da Federigo non possiamo a meno di non raccontare un tratto accaduto nella visita da lui fatta in quei contorni; perchè questo racconto, quale lo troviamo nel nostro manoscritto e altrove, serve assai a dipingere i costumi di quel tempo, tanto lontani dai nostri e osservabilissimi per una certa pienezza d'entusiasmo, per una esplosione dì sentimenti clamorosa, per un impeto veemente, come troppo spesso al male, così pure qualche volta verso ciò che era veramente stimabile. Oltre di che, Federigo è personaggio tanto amabile, nelle sue azioni anche le più comuni v'è sempre una tale espressione di gentilezza, di bontà, che fa riposarvi sopra la fantasia con diletto, e cogliere ogni pretesto per rimanere il più che si possa in una tale compagnia; che se qualche lettore osasse dire che noi ve lo abbiamo trattenuto troppo a lungo, osasse confessare[398] d'aver provato un momento di noja, bisognerebbe concluderne delle due cose l'una: o che noi raccontiamo in modo da annojare, anche con una materia interessante, o che questo lettore ha un animo ineducato al bello morale, avverso al decente, al buono, istupidito nelle basse voglie, curvo all'istinto irrazionale. Ma il primo di questi due supposti è manifestamente improbabile a parer nostro. Veniamo al racconto.

Dalle chiese delle quali abbiamo parlato si era Federigo trasportato a visitar quelle della valle di San Martino, che era allora nel dominio Veneto e nella diocesi milanese; e per tutto dov'egli si andava fermando, oltre la folla dei parrocchiani, la chiesa, la piazza, la terra formicolavano di moltitudine accorsa dai luoghi circonvicini. In una di quelle terre, avendo egli sbrigate nella sera stessa del suo arrivo le principali faccende, aveva egli disegnato di partire prima del pranzo, per giungere più tosto alla stazione vicina. Era la chiesa, dov'egli si trovava, posta sulla cima d'un lento pendìo, che terminava in una vasta pianura. Celebrati i santi misteri, si volse egli dall'altare per favellare al popolo, e stendendo dinanzi a sè il guardo, che dalla elevazione dell'altare poteva trascorrere, per la porta spalancata, sul pendìo e nel piano sottoposto, vide, dalla balaustrata del presbitero, nella chiesa, sul pendìo, nel piano una calca non interrotta, come un selciato continuo di teste e di volti; se non che,[399] al di fuori, quella superficie uniforme era interrotta da tende alzate, che facevano parere quel luogo un campo, o una fiera; guardando poi più fisamente, scorse fra quella moltitudine abiti diversi di ricchezza e di foggia, che dinotavano una varietà di condizioni e di paesi. Chiese egli a chi lo serviva più da vicino, che cosa volesse dire quel concorso; e gli fu detto, che era gente accorsa da tutta la diocesi di Bergamo, e dalla città stessa, per vederlo, per udirlo. E perchè, diss'egli, non gli accoglieremo noi gentilmente come si conviene con ospiti? Quindi dette alcune parole di insegnamento e di salute ai popolani, che non avendo avuto viaggio da fare avevano i primi occupata tutta la chiesa, propose loro che facessero gli onori di casa e cedessero il luogo a quegli estranei, che erano venuti da lontano per sentire un vescovo. La voce corse tosto per la chiesa e per lo spazio di fuori; questi uscivano e cedevano il luogo con pronta cortesia, quegli entravano con ritegno e con rendimenti di grazie: contadini e signori parevano in quel momento gente bene educata. Cangiata a poco a poco l'udienza, il Cardinale parlò a quei sopravvenuti come gli dettava la sua abituale carità e la simpatia particolare che aveva eccitata in lui quella ardente e comune volontà, la quale egli si sforzava di credere attirata in tutto dal suo ministero e per nulla da una inclinazione alla sua persona. Terminato il discorso, benedisse egli tutto quel concorso, lo accomiatò, e si dispose a partire.[400] Salito sulla sua mula, si mosse col suo seguito, in mezzo a quella moltitudine, ma dopo alquanto viaggio, quando credeva d'abbandonarla, s'avvide che la moltitudine lo seguiva. Si volse egli allora, ristette in faccia a quella e la benedisse di nuovo, come per congedarla ultimamente. Ma rimessosi in via, s'accorse che non era niente, e che la processione continuava. Li fece pregare di ritornarsene e di non aggravare inutilmente la stanchezza del cammino già fatto, ma tutto fu inutile: gli era come un dire al fiume torna indietro. Si erano già fatte più miglia di cammino, l'ora era tarda, quando il Cardinale, che era digiuno e già da lungo tempo combatteva con la fame, sentendo mancarsi le forze e visto che quel giorno gli era forza desinare in pubblico, si fermò sulla cima d'una salita, dove vide spicciare una sorgente da una roccia che fiancheggiava il cammino e chiese, così a cavallo, che gli fosse servito il pranzo. L'ajutante di camera tolse da un cestello un pezzo di pane e glielo presentò. Federigo lo prese, indi chiese che gli fosse riempiuto un bicchiere a quella sorgente. Mentre questo si faceva, cominciò Federigo a banchettare, non senza un qualche pudore per tutti quegli spettatori, e chiuse il banchetto col bicchiere d'acqua, che gli fu porto. Quando tutta quella folla vide quali erano le mense d'un uomo così dovizioso e così affaticato, insorse un grido di maraviglia, un gemito di compunzione: e questi sentimenti crebbero quando, fra quegli accorsi,[401] alcuni, i quali conoscevano più degli altri le costumanze del Cardinale, affermarono che questo era il suo solito pranzo quando doveva farlo in cammino, e che quello che gli era imbandito in casa non ne differiva di molto. I poveri si rimproveravano la loro intolleranza nel disagio, i ricchi la loro intemperanza; e quivi tosto molti fra questi distribuirono ai bisognosi i danari che si trovavano in dosso. Il Cardinale, così ristorato, pregò i più vicini che finalmente tornassero e persuadessero gli altri a tornare, e alzata la mano su tutta la turba, che egli dominava da quella altura, la benedisse di nuovo, stendendo poi verso di quella affettuosamente ambe le mani in atto di saluto. La turba rispose con nuove acclamazioni, e non osando più resistere al desiderio di quell'uomo, si rivolse e tornò addietro. Federigo proseguì il suo cammino.

Venga ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di gloria a quel pranzo del Cardinale, a renderlo un soggetto frequente di ammirazione e di memoria; non gli verrà fatto. È forse da dire che queste virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia degli uomini di che ammirare? non già, poichè si parla tuttavia delle magre cene di quel Curio mal pettinato, come lo chiamò Orazio; è viva e comune la memoria del salino di Fabricio e del suo piattello, sostenuto da un picciuoletto di corno. E perchè dunque il tozzo di pane di Federigo e il suo bicchier d'acqua non potranno[402] ottenere una simile immortalità di gloria? Se alcuno ha in pronto una cagione ragionevole di questa differenza, la dica; per me non ho potuto trovarne che una, ed è: che il cardinale Federigo non ha mai ammazzato nessuno. La più parte degli uomini, parlo degli uomini colti, non consente ammirare le virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù feroci un'altra ammirazione di terrore: non risguarda quelle come virtù, che quando sieno unite ad un profondo sentimento d'orgoglio e di disprezzo per qualche parte del genere umano. Se quel tozzo di pane fosse stato mangiato da un generale in presenza di ventimila cadaveri, sarebbe in tutti i discorsi, in tutti i libri; nessun fedele umanista avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una amplificazione in vita sua. Eppure, la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo d'un uomo che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne asteneva per un sentimento profondo della dignità umana, e per dar pane a chi ne mancava; quel tozzo di pane, mangiato tra le fatiche d'un ministero di misericordia, di pace e di pietà, dovrebb'essere una rimembranza più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello, che copriva la mensa d'un uomo, che era sobrio per potere esser forte contra gli uomini; che si accontentava[403] di essere un povero Fabricio, perchè fosse un potente Romano. Le idee dì cui si componeva il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili, sprezzanti, superficiali quelle di Federigo, umane, gentili, benevole, profonde. In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio dette quelle prove della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire manifestamente quel suo animo: ivi, all'udire le dottrine epicuree esposte da Cinea, disse egli quelle atroci parole, tanto lodate dagli antichi, e, chi lo crederebbe? dai moderni: Oh Ercole! (il santo era degno del voto) oh Ercole! diss'egli, fa che queste dottrine sieno ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo romano. Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sè, se avesse potuto anche un momento desiderare[404] la perversità ai suoi nemici, ai nemici del suo popolo. Egli desiderava la giustizia, la fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava per loro, per sè, per la gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta la sua vita fu spesa a promuoverla. La sua benevolenza non era nazionale, nè aristocratica, egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per dividere la condizione dei suoi fratelli poveri e per migliorarla. A dispetto di tutta la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica, Federigo Borromeo era più grand'uomo che Fabricio, o, per meglio dire, Federigo era veramente grand'uomo, per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un sì misero sostantivo.

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