XVII. La carestia del 1628—Ragioni, rimedi e moti dell'opinione pubblica nelle carestie.

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Era quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata piuttosto scarsità che carestia: le provvigioni rimaste degli anni grassi antecedenti avevano supplito tanto o quanto al difetto di quello e la popolazione era giunta al nuovo raccolto non satolla e non affamata, ma certo affatto sprovveduta. Ora, il nuovo raccolto, nel quale erano riposte tutte le speranze, fu scarso, come abbiam detto, e lo fu d'assai più del primo, in parte per maggiore contrarietà delle stagioni, e in parte per colpa orrenda degli uomini. Si guerreggiava allora in Italia, e non lontano dal Milanese, il quale si trovò soggetto ad alloggiamenti di truppe e a gravezze straordinarie. Queste furono tanto intollerabili, e le estorsioni, le rubberie, il guasto della soldatesca portati a tal segno, che molte possessioni erano rimaste abbandonate, molte campagne incolte, e molti contadini erano andati accattando quel vitto che avrebbero procacciato a sè e ad altri col lavoro delle loro braccia. E dove[408] pure s'era coltivato, le seminagioni erano state scarse, perchè l'agricoltore, tentato dall'urgente bisogno, aveva sottratta e consumata una parte e la migliore del grano che doveva esser destinato a quelle. Ottenuto appena il raccolto, la guerra stessa, che era stata la principale cagione a renderlo scarso, fu la prima a divorarne una gran parte. Le depredazioni parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo sprecamento infinito delle une e dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel misero raccolto, che la fame fu preveduta, quasi sentita sotto la messe stessa. I territorj che circondano il Milanese, in parte afflitti dalla guerra, e tutti dalla sterilità comune di quell'anno, non lasciavano speranza di cavarne ajuto di viveri. Sorse quindi quel sentimento di ansia e di terrore nei più, di gioja avara e crudele in alcuni, che nasce da una cognizione confusa, ma viva, della sproporzione tra il bisogno di nutrimento e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame: e questo sentimento produsse il suo effetto naturale, inevitabile: la ricerca premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il rincaramento.

Questa sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra, perchè pesano ad un tempo sur una moltitudine: quando un tal male esiste, i migliori mezzi per alleggerirlo, (giacchè toglierlo non è in potere dell'uomo) sono tutte quelle cose che possono diffonderlo più equabilmente, farne sopportare al maggior numero, a tutti i viventi, se fosse possibile, una[409] picciola porzione, affinchè a nessuno ne tocchi una porzione superiore alle forze dell'uomo; fare che quel male sia un incomodo per tutti, piuttosto che l'angoscia mortale per molti; e la morte per alcuni. Quindi il primo, il più certo e il più semplice mezzo di alleggiamento comune è l'astinenza volontaria dei doviziosi, che si privino di una parte di nutrimento per lasciarne di più alla massa del consumo universale. Poi tutto quello che può aumentare nelle mani degl'indigenti i mezzi di acquistarsi il vitto, in proporzione dell'aumento delle difficoltà, cioè del rincaramento. Aumento quindi delle mercedi, e nuovi guadagni offerti per mezzo di nuovi lavori ai molti a cui cessano in quelle circostanze i lavori e i guadagni usati. Questo mezzo però sarebbe uno scarso rimedio, sarebbe anzi un accrescimento del male, se non fosse accompagnato dalla cura attenta, assidua di somministrare il vitto anche a quei molti che per debolezza, o per infermità, non lo possono ottenere col lavoro: si avrebbero allora dei lavoratori ben nutriti e degli impotenti morti di fame: e la beneficenza sarebbe crudele per molti. A questi ultimi non si può provvedere altrimenti che con l'elemosina, tanto sapientemente comandata dalla religione: quella[410] elemosina di cui molti scrittori hanno enumerati e censurati amaramente gli abusi. Nè a torto; poichè è utile scoprire e censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però cosa trista e dannosa che in soggetto di tanta importanza non si sieno quasi considerati che gli abusi; e sarebbe da desiderare che alcune pigliasse la bella e forse nuova impresa di ragionare del buon uso della elemosina, di mostrare com'ella sia uno dei mezzi più potenti, più semplici, e certo più irresponsabili a tutti quei fini che si propone una saggia e ragionata economia pubblica.

Questi, che abbiamo accennati, sono certamente i principali e più sicuri rimedj alla penuria delle sussistenze; e quando si fossero posti in opera, il meglio da farsi sarebbe sopportare quella parte inevitabile di patimento con tranquillità e con rassegnazione, giacchè tutte le ire, tutte le declamazioni, tutti i falsi ragionamenti non ponno far nascere una spiga di frumento, nè accelerare di cinque minuti il nuovo raccolto, che deve mettere alla disposizione degli uomini una nuova massa di sussistenza.

Ma, oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo, e moltissimi, per esacerbarlo, per accrescerlo, per rendere più trista e complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e questi mezzi[411] sono stati, per l'ordinario, più adoperati dei primi, e sì possono ridurre a due capi principali: le idee del popolo, e i provvedimenti dei magistrati. Nella epoca di cui parliamo, le idee e i provvedimenti concorsero potentemente a produrre quel tristo effetto in un grado singolare.

Nei tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tatti i discorsi: fatto ben naturale, ma degno di molta osservazione e di commento. Tutti ragionano delle cause del male, tutti propongono i veri rimedj, tutti dissertano di principj generali, di commercio, di monopolio, di accapparramento, di importazione, di esportazione, di circolazione. Ma la maggior parte non si è occupata mai in vita sua di questa materia: i primi pensieri sono giudizj, e l'applicazione dei principj precede alla ricerca di essi. Guaj allora a quegli che hanno pensato a questi principj nel tempo in cui nessuno vi pensava; guaj a quegli che dànno più degli altri un senso preciso a quelle parole che tutti proferiscono; guaj a quegli che hanno esaminati con una vista generale i fatti che sono l'argomento della discussione comune! Essi soli non sono ammessi a parlare: essi debbono vedere pazientemente discorrere i sofismi precipitati e baldanzosi della ignoranza, perchè chi può fermare il sofisma? la ragione in bocca loro è paradosso, e quando non si avesse altro da opporle, basterebbe quella accusa che le si fa di essere stata sui libri. La parola che suona alto, che signoreggia in quelle dolorose circostanze è quella[412] della irriflessione: ma cessata la carestia, cessano tutti i discorsi; nessuno ne vuol più parlare, nè sentire a parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino di quella materia, sono per lo più un soggetto di contraddizione per un momento, e rimangono dopo quasi dimenticati: la società è in quel caso simile ad un povero scapestrato, il quale, trovandosi all'estremo, non ha parlato d'altro che di novissimi e di penitenza; convalescente, accoglie ancora il prete per urbanità; guarito, allontana da sè tutti i pensieri di quel momento del terrore.

Cessi il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo che non ha mai avuto maestri, nè ozio; l'irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane col suo lavoro. Ma quegli che meritano rimproveri acerbi e severi, quegli che per utile loro e d'altrui vorrebbero essere sborbottati come ragazzacci caparbj, tanto che si correggessero, sono coloro, i quali potrebbero meditare a loro agio sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che ne hanno cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e procacciarsi così una opinione ragionata; e non lo fanno mai; ma, al momento del serra serra, escono in campo a sentenziare furiosamente, cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le voci che nascono da un antico pensiero, ripetono in un linguaggio meno incolto e più strano i giudizj storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono[413] ed accrescono la stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei raziocinj che potrebbero illuminare l'opinione dell'universale sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano: e infervorati in queste degne imprese non si spaventano col pensiero della loro ignoranza; anzi ne cavano argomento di gloria e di fiducia; e a tutte le obiezioni, (o alla metà delle obiezioni, perchè di rado lasciano terminare una frase ad un galantuomo) rispondono con quell'inverecondo sproposito: noi non vogliamo teorie; non riflettendo nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie; diverse da quelle dei loro avversarj, in ciò soltanto che non sono fondate sulla cognizione, o almeno sulla ricerca dei fatti.

Le storture del popolo e di questi che abbiamo detto intorno alla carestia sono molteplici per sè, e infinite nelle loro applicazioni e nei loro rivolgimenti; molte si possono vedere enumerate in alcuni libri che le hanno esaminate e ribattute con più sagacità e pazienza che profitto; ma si possono forse ridurre a due capi principali. Il primo è l'opinione che il male non esista, che il difetto di sussistenze sia soltanto una apparenza, nata da combinazioni perfide degli uomini. Questa opinione viene sempre espressa e ripetuta con una formola concisa, come tutte quelle che racchiudono un errore o un equivoco: il grano c'è. Proposizione ambigua, che può[414] intendere una verità fatua e inconcludente, o una affermazione temeraria e fanatica. Poichè se con quelle inconsiderate parole si vuol dire che esiste una indeterminata quantità di biade, si dice il vero, ma che cosa s'insegna? che cosa si vuol concludere? quella non è, nè può essere la questione. Ognun sa che i grani si raccolgono una volta l'anno, o a certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto e l'altro ci debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse assolutamente, non si parlerebbe più di stentare, ma di morire, e tutti, e in pochi giorni. Se poi dicendo: il grano c'è, s'intende (come s'intende) che ne esista una quantità eguale al consumo ordinario, proporzionata al bisogno, o al desiderio della popolazione; come mai una tal cosa si afferma senza conoscere, senza poter conoscere, senza cercar di conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la quantità del grano esistente? Eppure un fatto, che con le più minute indagini, coi calcoli più scrupolosi, con l'esame il più freddo non si conosce mai con precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza indagini, senza calcoli, senza esame: un fatto, che appena si può conoscere approssimativamente per gli indizj del prezzo, della ricerca, della distribuzione, del consumo, si afferma assolutamente contra la testimonianza di tutti questi indizj.

L'altra stortura, conseguente da questa, e pur madornale, è nel supporre che il male sia il caro prezzo[415] del grano: mentre questo non è che un effetto del male vero, la sproporzione tra il grano e il bisogno; è un effetto, e un doloroso, deplorabile, funesto, acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete, non saranno mai troppi: ma il sostantivo è: rimedio. Il caro prezzo è un rimedio, considerato parzialmente per un territorio, perchè vi attrae il grano dai paesi dove è meno scarso, e quindi a minor costo: è un rimedio considerato generalmente, perchè, forzando pur troppo migliaia d'uomini a diffalcare una parte del consumo ordinario, è cagione che si risparmj, si distribuisca per tutto l'anno fino al raccolto la scarsa e mancante vittovaglia. Se una forza qualunque potesse illudere, addormentare fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di modo che in un anno, scarso generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli anni abbondanti, ne avverrebbe certamente che il consumo, fin che grano vi fosse, sarebbe eguale a quello degli anni abbondanti: si viverebbe lietamente a discrezione per qualche tempo: e l'ultimo effetto di questo terribile beneficio sarebbe di fare sparire tutta la provvigione qualche mese prima del raccolto.

Il linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due storture è accetto al popolo, che patisce; e la cosa è troppo naturale: non riconoscendo il male nella natura delle cose, attribuendolo tutto alla perversità umana, essi mostrano nello stesso tempo una compassione, che pare più sincera per chi soffre, un grande orrore per chi fa soffrire, e fanno sempre[416] intravedere la possibilità d'un rimedio pronto ed assoluto. Ma quegli i quali veggono chiaramente la realtà del male, non hanno cose gradite da dire a chi lo sopporta; poichè chi, dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj per minorare il male, confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda la rassegnazione, può difficilmente far credere che compatisce chi nega all'addolorato che la causa prima, unica del suo dolore, sia nella volontà scellerata di alcuni; converrà che abbia ben fama di onesto e di umano perchè l'addolorato si contenti di crederlo cieco e insensato, e non lo chiami atroce, fautore, complice di quelli che creano il dolore. Sono i chiaroveggenti, in quel caso, come un medico, che giunga al letto d'un infermo circondato da una famiglia amante e ignorante, dove si trovi un ciarlatano il quale assevera che il male è tutto nella cecità, o nella impostura dei medici, e ch'egli tiene un'ampollina dov'è la salute. Se il medico, il quale vede che la malattia è incurabile, si lascia uscire dalla chiostra dei denti questo suo parere, la famiglia lo riguarderà come un pazzo crudele che desidera di veder morire le persone.

Queste false idee che, a malgrado di tanti scritti ragionati e dell'aumento di tante cognizioni, vivono tuttavia latenti e come addormentate nella mente di moltissimi, pronte a ricomparire quando una penuria (che Dio tenga lontana) dia loro occasione di mostrarsi, erano ben più universali, più pertinacemente[417] tenute, più furibondamente applicate nei tempi della nostra storia, nei quali l'ignoranza era tanto più generale, e la scienza, che era pure di pochi, consisteva in un peripateticismo, inteso come si poteva e applicato come si voleva a tutte le questioni possibili di ogni genere, in tempi in cui non esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la scritta e ridotta in trattati, perchè l'economia politica di fatto esiste nella società necessariamente, più o meno spropositata.

Gli sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità del raccolto, avevano vedute e sofferte le atroci dissipazioni della soldatesca, e gli sventurati abitanti della città le avevano pure intese raccontare: ma quando la carestia cominciò a farsi sentire, nè gli uni, nè gli altri volevano accagionare di un tanto male una causa passata e irrevocabile. Come se non avessero veduto nulla, o tutto dimenticato, attribuivano il caro prezzo soltanto alla crudele ingordigia di quegli che possedevano il grano. E una circostanza speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più freddamente, se l'esame freddo fosse possibile in quei casi. L'anno antecedente era pure stato scarso; e si era per tutto quell'anno gridato contra gli accapparratori come contra la sola cagione della carezza; si era detto che il grano abbondava, ma era tenuto chiuso, stivato, murato nei granaj degli avari. Ora l'anno era passato, si era fatto il nuovo raccolto; sarebbe stata cosa molto naturale ricercare se quel grano era stato finalmente venduto, o no.[418] Nel primo caso, avrebbero dovuto gli uomini conchiudere che s'erano dunque ingannati nell'affermare che il grano abbondava, poichè s'era venduto a caro prezzo fino al raccolto, appena aveva bastato. Che se il grano dell'anno antecedente non era venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj erano occupati; come dunque potevano essi fare ancora nuove incette? Ma la popolazione, sfogando sempre il suo dolore con imprecazioni, non pensava che le ultime contraddicevano alle prime. Si diceva anche che molti accapparravano i grani per ispedirli in altri paesi; e in questi altri paesi si gridava che i grani erano spediti a Milano. Tutti quelli che ne possedevano erano oggetto di minaccia e di abbominazione: i possessori che non lo vendevano erano tiranni; quegli che lo comperavano per rivenderlo, mostri addirittura; i fornaj che ne facevano provvista, scellerati che volevano ritirarlo dal commercio e imporgli il prezzo che sarebbe piaciuto alla loro avidità. Che ognuno provvedesse la quantità che poteva essergli necessaria fino al raccolto, era cosa impossibile. Quindi se la popolazione avesse voluto o potuto rendersi un conto esatto delle sue idee e dei suoi desiderj, avrebbe trovato ch'ella voleva che il grano non fosse in nessun luogo. Il prezzo, straordinario al momento stesso del raccolto, crebbe nell'autunno, crebbe straordinariamente al cominciare dell'inverno, e col prezzo crebbe il fremito e il clamore del popolo, il quale accusava già apertamente i magistrati di negligenza, anzi di connivenza, con coloro che lo affamavano.

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Non è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro molti spropositi; ma questi erano, in numero e in grossezza, ancora ben lontani dai desiderj e dalle richieste del popolo. Il maneggio delle cose forza a riflettere anche quelli che sono più nemici della riflessione; e chi deve operare o comandare direttamente scorge talvolta, anche a mal suo grado, anche chiudendo gli occhi, l'impossibilità o l'assurdità d'un provvedimento che è domandato con furore dai molti che lo stimano giusto, e lo credono agevole. Oltre di che, l'effetto immediato di quegli spropositi era di esacerbare la condizione universale; si sentiva crescere il male; e l'aumento si attribuiva non già alla efficacia funesta degli spropositi fatti, ma al non farne abbastanza. Era stato tassato il prezzo massimo del riso a lire quaranta imperiali il moggio per la città di Milano: la conseguenza fu che quegli che possedevano riso e potevano venderlo[420] a molto maggior prezzo per tutto altrove, non ne spedirono più un grano alla città; e questa si trovò senza riso. Altro editto che tassa il riso allo stesso prezzo massimo per tutto lo Stato: altra conseguenza, che i possessori ricusino di vendere ad un prezzo comandato quella merce a cui la rarità ne ha assegnato un maggiore. Ordine di vendere il genere a chiunque ne offra il prezzo tassato: industria dei possessori a nasconderlo, per poter rispondere: non ne ho. Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo nasconde: nuova industria, nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per evitare le pene senza esser danneggiato. Comparvero allora, come dovevano comparire, di quegli uomini i quali conoscono a perfezione l'arte di eludere gli editti, arte tanto più facile, quanto più gli editti sono assurdi. Costoro, osservato lo stato delle cose, fatte le loro ragioni, trovarono che comperando il riso ad un prezzo molto maggiore dell'assegnato arbitrariamente, si poteva fare ancor molto guadagno: offersero quel prezzo ai possessori, i quali non rispondevano di non aver riso da vendere a chi lo pagava più di quello che comandava la legge. Questi nuovi compratori trovavano poi il modo di rivendere il riso a maggior prezzo agli Stati vicini, dove non v'era tassa, o di conservarlo nascosto in onta degli editti: il modo consiste, come ognun sa, nello studiare non tanto la volontà unica donde è uscita la legge, quanto le volontà molteplici, varie, più vicine, che debbono eseguirla, e nel[421] trovare i mezzi di eludere queste volontà, o di comperarne la complicità.

Quello che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come il possederli, il farne commercio, era un rischio dell'avere e della persona, un soggetto di terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi un marchio d'infamia, così avvenne che questo commercio non fosse quasi più ricercato che dagli uomini i più esperti ad eludere il rischio, i più agguerriti contra l'odio e contra l'infamia; i quali sapevano come tutte queste cose, affrontate e sofferte con una certa sapienza particolare, possono fruttare danari.

La scarsità del frumento e i mezzi posti in opera per renderlo più comune lo avevano fatto salire ad un prezzo esorbitante. Si vendeva cinquanta lire il moggio, se crediamo al Ripamonti, allora vivente: settanta, anzi ottanta, se vogliamo stare al detto di Alessandro Tadino, medico riputatissimo di quei tempi, che scrisse anch'egli (a dir vero, con le gomita) una storia della peste e della carestia che l'aveva preceduta. Ma supponendo anche esagerata l'asserzione di quest'ultimo, il prezzo attestato dal Ripamonti era tale da porre in angustia una gran parte della popolazione.

I mali nei loro cominciamenti producono nell'uomo, generalmente parlando, una irritazione più forte del dolore. Sclama egli, da prima, che i mali sono intollerabili, che sono giunti all'estremo, e tanto fa, tanto s'ingegna, tanto s'arrabatta, che coi suoi sforzi[422] crea egli questo estremo, che naturalmente non sarebbe arrivato: s'accorge allora che si può soffrire molto di più di quello ch'egli aveva creduto dapprima, ogni nuovo colpo gli rivela una nuova facoltà dì patire e di accomodarsi, ch'egli non sospettava in sè stesso; e salta per lo più dalla rabbia all'abbattimento, senza aver toccata la rassegnazione.

Per sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo secondo i suoi desiderj, l'uomo che partecipava delle sue idee, e che, assecondandole, gli procurò una gioja corta e fallace, a cui doveva succedere un nuovo dolore senza disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza del delitto, lo spavento delle pene, e quindi la tranquillità stupida della disperazione impotente.

Il governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava allora a campo sotto Casale, per una guerra, atroce nella condotta, orrenda nelle conseguenze, e nata da certi pettegolezzi, dei quali parleremo più tardi e più laconicamente che sarà possibile. Nella sua assenza governava lo Stato il[423] gran cancelliere Antonio Ferrer. Questi, stordito dai richiami continui e crescenti del popolo, stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già dati, invece di togliere il male, lo avevano accresciuto, non sapendo più che fare e persuaso che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al partito di quelli che non veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di determinazione: fece un'ipotesi. Suppose che il frumento si vendesse trentatre lire il moggio, nè più nè meno. Ammessa l'ipotesi, tutte le cose si raddrizzavano e correvano a verso. Il prezzo del pane si trovava proporzionato alle facoltà della massima parte, cessavano quindi i patimenti, le minacce, le angustie; era un altro vivere. Animato e rallegrato dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato, Antonio Ferrer fece un altro passo: pensò che quel lieto vivere si sarebbe ricondotto se si fosse potuto far discendere il pane al prezzo corrispondente a quel prezzo ipotetico del frumento. Procedendo col pensiero, trovò che un suo ordine poteva produrre questo effetto; e conchiuse che bisognava dar l'ordine. Il pover'uomo non badò[424] che cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto, operare come se le cose fossero in uno stato diverso da[425] quello in cui erano: non pose mente a distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto[426] fosse stato conseguenza naturale della proporzione tra la ricerca e la quantità esistente, ma non un bene per sè, e in ogni modo. Non pensò a niente di tutto questo; fece come una donna di mezza età che per ringiovinire alterasse la cifra della sua fede di battesimo. L'ordine fu dato, promulgato ed eseguito.

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Ordini meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella natura stessa delle cose, ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza esecuzione, ma alla esecuzione di questo vegliava il popolo, il quale, come era ben naturale, l'aveva accolto con un grido di esultazione; e vedendo finalmente esaudito[428] e convertito in legge il suo desiderio, non sofferiva che fosse da burla. Il popolo accorse tosto ai forni a domandare il pane a quel prezzo legale, e lo domandò con quell'aria di risolutezza e di minaccia che danno la forza e la legge insieme unite.

Se era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che strillassero i fornaj: un politico avrebbe potuto dire che quello era il caso di fare soffrire un picciol numero per sollevare e tranquillare una gran moltitudine: ma il male era che questo picciol numero era appunto quello che doveva e che poteva solo dare in fatto quello che la legge comandava e prometteva in parole; e a produrre l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine preciso, non bastava che avessero molta paura, che fossero disposti a sopportare l'ultima rovina delle sostanze per salvare la persona: era necessario che potessero. Ora, la cosa comandata, era non solo dolorosa per essi, ma diveniva di giorno in giorno più difficile; ma doveva arrivare un momento in cui sarebbe stata impossibile. Il popolo stesso affrettava questo momento: quantunque gridasse risolutamente e tenesse confusamente che quel prezzo stabilito era equo, ragionevole, sentiva però anche confusamente che esso era come in guerra con tutto il resto delle cose, che era l'effetto d'una volontà e non della natura, e prevedeva pure confusamente che la cosa non avrebbe potuto andar così sempre, nè a lungo. Approfittava quindi del momento di baldoria, assediava[429] continuamente i forni, come dice il Ripamonti, si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato quasi da una ventura momentanea, e la sua pressa indiscreta gareggiava con la fretta e col travaglio dei fornaj. Così quella cieca moltitudine consumava improvvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la scarsa e preziosa provvigione, la quale però doveva servirgli, per tutto l'anno. I fornaj, costretti ad affacchinare e a scalmanarsi per discapitare, ponevano in opera tutte le arti per far perder tempo ai chieditori di pane, senza irritarli all'estremo, adulteravano il pane con tutte quelle sostanze che, senza troppo lasciarsi distinguere, ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di domandare che la legge fosse abrogata. Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i richiami, come Enea agli scongiuri di Didone. Generalmente parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da una sua ipotesi: con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei fatti, perchè finalmente l'evidenza l'ha trovata; ma l'ipotesi l'ha fatta egli; e l'ha fatta, non per ozio, nè per ispasso, ma per un gran bisogno che ne aveva, per uscire da un impaccio. Oltre questa cagione generale, si può supporre, senza temerità, che quell'uomo, benchè dagli effetti avesse dovuto conoscere quanto il suo[430] ordine era stato pazzo, non voleva revocarlo egli e perdere così tutto il favore del popolo, anzi cangiarlo in furore; giacchè certamente il popolo l'avrebbe creduto subornato e corrotto, se avesse tolto ciò che egli aveva stabilito come giusto. Prevedeva egli dunque che la cosa non sarebbe durata, ma lasciava ad altri la briga di dichiararla cessata legalmente. Come però spesse volte bisogna rispondere qualche cosa ai richiami che non si vogliono soddisfare, Antonio Ferrer rispondeva ai fornaj, a tutti quelli che per uficio erano costretti parlargli dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i fornaj avevano guadagnato assai in passato, e che era giusto che tollerassero allora quella picciola perdita. I fornaj replicavano che non avevano fatto questi guadagni, e che non potevano più reggere alla perdita presente; Antonio Ferrer ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato a tutto.

Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano, è vero, di due difetti: d'esser troppo corto e d'esser troppo lungo; di passare troppo tardamente, e d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione primaria di questi inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel tempo, il quale per sè è una gran bella[431] cosa: ed è proprio un peccato che nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli sia.

In questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi, adir vero, gl'inconvenienti erano di quelli che col durare si fanno più gravi. I fornaj avevano protestato fin da principio, che se la legge non veniva tolta, essi avrebbero gettata la pala nel forno e abbandonate le botteghe; e non lo avevano ancor fatto, perchè sono di quelle cose alle quali gli uomini si appigliano solo all'estremo, e perchè speravano di dì in dì che Antonio Ferrer, gran cancelliere, sarebbe restato capace, o qualche altro in vece sua. Alla fine i Decurioni (un magistrato municipale) vedendo che la minaccia de' fornaj sarebbe divenuta un fatto, scrissero al governatore, ragguagliandolo dello stato delle cose e chiedendogli un provvedimento. Probabilmente il signor Gonzalo Fernandez di Cordova avrà avuto molto a cuore di trovare un mezzo per nutrire stabilmente molti uomini; ma in quel momento, impedito egli e assorto in una faccenda più urgente, quella di farne ammazzare molti altri, non potè occuparsi della prima e ne diede l'incarico ad una commissione, ch'egli compose del presidente del Senato, dei presidenti dei due magistrati ordinario e straordinario e di due questori. Si riunirono essi tosto, o, come si diceva allora spagnolescamente, si giuntarono; e dopo mille riverenze, preamboli, sospiri, proposizioni in aria, reticenze, tergiversazioni, spinti sempre tutti verso un solo punto da una[432] necessità sentita da tutti, conscj che tiravano un gran dado, ma convinti che altro non si poteva fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del pane, riavvicinandolo alla proporzione del prezzo reale del frumento; e si separarono nello stato d'animo d'un minatore che avesse dato fuoco ad una mina non caricata da lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo nè quando, nè quale egli sarebbe.

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