SCENA III.

IL DOGE, e SENATORI.

IL DOGE.

Dissimil certo da sì nobil voto

Nessun s'aspetta il mio. Quando il consiglio

Più generoso è il più sicuro, in forse

Chi potria rimaner? Porgiam la mano

Al fratello che implora: un sacro nodo

Stringe i liberi Stati: hanno comuni

Tra lor rischi e speranze; e treman tutti

Dai fondamenti al rovinar d'un solo.

Provocator dei deboli, nemico

D'ognun che schiavo non gli sia, la pace

Con tanta istanza a che ci chiede il Duca?

Perchè il momento della guerra ei vuole

Sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.

Il nostro egli è, se non ci falla il senno,

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Nè l'animo. Ei ci vuole ad uno ad uno;

Andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa

La prima volta che il Leon giacesse

Al suon delle lusinghe addormentato.

No; fia tentato invan. Pongo il partito

Che si stringa la lega, e che la guerra

Tosto al Duca s'intimi, e delle nostre

Genti da terra abbia il comando il Conte.

MARINO.

Contro sì giusta e necessaria guerra

Io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,

Che il buon successo ad accertar si pensi.

La metà dell'impresa è nella scelta

Del capitano. Io so che vanta il Conte

Molti amici tra noi; ma d'una cosa

Mi rendo certo, che nessun di questi

L'ama più della patria; e per me, quando

Di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.

Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,

Serenissimo Doge, oppormi a voi,

Non è il duce costui quale il richiede

La gravità, l'onor di questo Stato.

Non cercherò perchè lasciasse il Duca.

Ei fu l'offeso; e sia pur ver: l'offesa

È tal che accordo non può darsi; e questo

Consento: io giuro nelle sue parole.

Ma queste sue parole importa assai

Considerarle, perchè tutto in esse

Ei s'è dipinto; e governar sì ombroso,

Sì delicato e violento orgoglio,

O Senatori, non mi par che sia

Minor pensiero della guerra istessa.

Finor fu nostra cura il mantenerci

La riverenza de' soggetti; or altro

Studio far si dovria, come costui

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Riverir degnamente. E quando egli abbia

La man nell'elsa della nostra spada,

Potrem noi dir d'aver creato un servo?

Dovrà por cura di piacergli ognuno

Di noi? Se nasce un disparer, fia degno

Che nell'arti di guerra il voler nostro

A quel d'un tanto condottier prevalga?

S'egli erra, e nostra è dell'error la pena,

Chè invincibil nol credo, io vi domando

Se fia concesso il farne lagno; e dove

Si riscotan per questo onte e dispregi,

Che far? soffrirli? Non v'aggrada, io stimo,

Questo partito; risentirci? e dargli

Occasion che, in mezzo all'opra, e nelle

Più difficili strette ei ci abbandoni

Sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,

Forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli

Quanto di noi pur sa, magnificando

La nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

IL DOGE.

Il Conte un prence abbandonò; ma quale?

Un che da lui tenea lo Stato, e a cui

Quindi ei minor non potea mai stimarsi;

Un da pochi aggirato, e questi vili;

Timido e stolto, che non seppe almeno

Il buon consiglio tôr della paura,

Nasconderla nel core, e starsi all'erta;

Ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:

Tale è il signor che inimicossi il Conte.

Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo

Che gli somigli. Se destrier, correndo,

Scosse una volta un furibondo e stolto

Fuor dell'arcione, e lo gettò nel fango;

Non fia per questo che salirlo ancora

Un cauto e franco cavalier non voglia.

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MARINO.

Poichè sì certo è di quest'uomo il Doge,

Più non m'oppongo, e questo a lui sol chiedo:

Vuolsi egli far mallevador del Conte?

IL DOGE.

A sì preciso interrogar, preciso

Risponderò: mallevador pel Conte,

Nè per altr'uom che sia, certo, io non entro;

Dell'opre mie, de' miei consigli il sono:

Quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto

Che guardia al Conte non si faccia, e a lui

Si dia l'arbitrio dello Stato in mano?

Ei diritto anderà; tale io diviso.

Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca

Occhio che tosto ce ne faccia accorti,

E braccio che invisibile il raggiunga?

MARCO.

Perchè i princìpi di sì bella impresa

Contristar con sospetti? E far disegni

Di terrori e di pene, ove null'altro

Che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio

Che all'util suo sola una via gli è schiusa;

Lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa

Dee sovra ogni altra far per lui fidanza?

La gloria ond'egli è già coperto, e quella

A cui pur anco aspira; il generoso,

Il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia

Dall'altezza calar de' suoi pensieri,

E riporsi tra i vili, esser non puote.

Or, se prudenza il vuol, vegli pur l'occhio;

Ma dorma il cor nella fiducia; e poi

Che in così giusta e grave causa, un tanto

Dono ci manda Iddio; con quella fronte,

E con quel cor che si riceve un dono,

Sia da noi ricevuto.

[189]

MOLTI SENATORI.

Ai voti, ai voti!

IL DOGE.

Si raccolgano i voti; e ognun rammenti

Quanto rilevi che di qui non esca

Motto di tal deliberar, nè cenno

Che presumer lo faccia. In questo Stato

Pochi il segreto hanno tradito, e nullo

Fu tra quei pochi che impunito andasse.

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