SCENA III.

Tenda del CONTE.

IL CONTE, e GONZAGA.

IL CONTE.

Ebben, che raccogliesti?

GONZAGA.

Io favellai,

Come imponesti, ai Commissari; e chiaro

Mostrai che tutta delle vinte navi

[241]

Riman la colpa e la vergogna a lui

Che non le seppe comandar; che infausta

La giornata gli fu perchè la imprese

Senza di te; che tu da lui chiamato

Tardi in soccorso, romper non dovevi

I tuoi disegni per servir gli altrui;

Che l'armi lor, tanto in tua man felici,

Sempre il sarian, se questa guerra fosse

Commessa al senno ed al voler d'un solo.

IL CONTE.

Che dicon essi?

GONZAGA.

Si mostrar convinti

Ai detti miei: dissero in pria, che nulla

Dissimular volean; che amaro al certo

De' perduti navigli era il pensiero,

E di Cremona la fallita impresa;

Ma che son lieti di saper che il fallo

Di te non fu; che di chiunque ei sia,

Da te l'ammenda aspettano.

IL CONTE.

Tu il vedi,

O mio Gonzaga; se dài fede al volgo,

Sommo riguardo, arte profonda è d'uopo

Con questi uomin di Stato. Io fui con essi

Quel ch'esser soglio; rigettai l'ingiuste

Pretese lor, scender li feci alquanto

Dall'alto seggio ove si pon chi avvezzo

Non è a vedersi altri che schiavi intorno;

Io mostrai lor fino a che segno io voglio

Che altri signor mi sia: d'allora in poi

Mai non l'hanno passato; io li provai

Saggi sempre e cortesi.

[242]

GONZAGA.

E non pertanto

Dar consiglio ad alcuno io non vorrei

Di tener questa via. Te da gran tempo

La gloria segue e la fortuna; ad essi

Util tu sei, tu necessario e caro,

Terribil forse: e tu la prova hai vinta;

Se pur può dirsi che sia vinta ancora.

IL CONTE.

Che dubbi hai tu?

GONZAGA.

Tu, che certezza? Io vedo

Dolci sembianti, e dolci detti ascolto:

Segni d'amor; ma pur, l'odio che teme,

Altri ne ha forse?

IL CONTE.

No: di questo io nulla

Sono in pensier. Troppo a regnar son usi;

E san che all'uom da cui s'ottiene il molto

Chieder non dessi improntamente il meno.

E poi, mi credi, io li guardai dappresso:

Questa cupa arte lor, questi intricati

Avvolgimenti di menzogna, questo

Finger, tacere, antiveder, di cui

Tanto li loda e li condanna il mondo,

È meno assai di quel che al mondo appare.

GONZAGA.

Se pur non era di lor arte il colmo

Il parer tali a te.

IL CONTE.

No: tu li vedi,

Con l'occhio altrui: quando col tuo li veda,

[243]

Tu cangerai pensiero. Havvene assai

Di schietti e buoni; havvene tal che un'alta

Anima chiude, a cui pensier non osa

Avvicinarsi che gentil non sia:

Anima dolce e disdegnosa, in cui

Legger non puoi, che tu non sia compreso

D'amor, di riverenza, e di desio

Di somigliarle. Non temer; non sono

Di me scontenti; e quando il fosser mai,

Io lo saprei ben tosto.

GONZAGA.

Il Ciel non voglia

Che tu t'inganni.

IL CONTE.

Altro mi duol: son stanco

Di questa guerra che condur non posso

A modo mio. Quand'io non era ancora

Più che un soldato di ventura, ascoso

E perduto tra i mille, ed io sentia

Che al loco mio non m'avea posto il cielo,

E dell'oscurità l'aria affannosa

Respirava fremendo, ed il comando

Si bello mi parea.... chi m'avria detto

Che l'otterrei, che a gloriosi duci,

E a tanti e così prodi e così fidi

Soldati io sarei capo; e che felice

Io non sarei perciò!....

(entra un Soldato)

Che rechi?

SOLDATO.

Un foglio

Di Venezia.

(gli porge il foglio, e parte)

[244]

IL CONTE.

Vediam.

(legge)

Non tel diss'io?

Mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca

Chiede la pace, e conferir con meco

Braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?

GONZAGA.

Io vengo.

IL CONTE.

Che dì tu di tal pace?

GONZAGA.

Ad un soldato

Tu lo domandi?

IL CONTE.

È ver; ma questa è guerra?

O mia consorte, o figlia mia, tra poco

Io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:

Questo è contento al certo. Eppur del tutto

Esser lieto non so: chi potria dirmi

Se un sì bel campo io rivedrò più mai?

Fine dell'atto quarto.

[245]

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