IV.

Or chi guardi serenamente, che qui vuol dire senza preconcetti confessionali, nelle opere del Manzoni che precedettero il suo ritorno alla fede, non può, a me pare, non riconoscere che l'uomo nuovo trovava già pronta e disposta nell'antico una forma, in cui adagiarsi senza veri urti o resistenze. A buon conto, ateo egli non era mai stato; e son versi appunto di quel Carme in morte dell'Imbonati, contro cui i critici ortodossi inveleniscono sì fieramente, questi, che hanno del dantesco e del petrarchesco insieme:

Mestamente sorrise, e: se non fosse

Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto

Quell'anima gentil fuor de le membra

Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo

Di Quei ch'eterna ciò che a Lui somiglia.

Dove fin le maiuscole al Quei e al Lui son del poeta, che dovrebb'essere stato miscredente. E son di quel Carme pur[xxvi] questi altri versi, che riaccennano alla città di Dio e alla vita beata che i buoni vi condurranno in eterno:

al mio

Pianto ei compianse, e: non è questa, disse,

Quella città, dove sarem compagni

Eternamente.

E non insisterò qui ancora sui precetti e sulle massime morali che in quello stesso Carme vengono, con severità e schiettezza di forma e di pensiero che ricordano il Parini dell'Educazione, inculcate e proclamate. Esse sono bensì quali ogni onesto e probo razionalista accetta e rispetta, ma altresì quali nessun credente rifiuta, o dovrebbe rifiutare. Vi si bandisce una morale profondamente ed eternamente umana, al di fuori e al di sopra d'ogni fede o contingenza religiosa.

E come nel Carme, così nell'Urania. Quel Giove, che qui ancor siede ne' palagi d'Olimpo, ma così insolitamente pietoso dei mali ond'è afflitta e dolente l'umana stirpe, non ha che da mutar nome per diventare il Dio degl'Inni sacri. Sembrandogli oramai piena la vendetta dell'ardimento di Prometeo, del rapito foco, egli accolse più mite consiglio; e fermò di richiamar dalla terra le Furie, che vi avean fatto troppo empio governo:

assai ne' petti umani

Commiser d'odj, e volser prone al peggio

Le mortali sentenze.

A ricondurre l'amore tra gli uomini, quel Padre misericordioso mandò in mezzo ad essi le Virtù. Le quali, nella reggia olimpica, gli alitavan d'intorno.

Di felici

Genj una schiera al Dio facea corona,

Inclita schiera di Virtù: chè tale

Suona qua giù lor nome.

Una novità mitologica codesta; dacchè i vecchi poeti ci avevan, sì, qualche volta riferito che presso al trono di Giove eran Temide o Dike, ma solo i Padri della Chiesa avevano immaginato intorno al Dio Padre tutto un corteo di Virtù,[xxvii] come la Verità e la Pace, la Misericordia e la Giustizia. Queste - e dalla poetica figurazione trasse partito il Milton - non avean rifinito di perorare pro o contra la redenzione dell'uomo, prima che il Verbo s'incarnasse; e avevan percorso il cielo e la terra, cercando chi potesse degnamente, e volesse, addossarsi le colpe dell'umanità, e riscattarla col sacrifizio di sè stesso.

Anche le Virtù dell'inno manzoniano, spirti obbedienti, discesero nel basso mondo, per attirare a sè gli occhi e le menti degli uomini inselvatichiti; e lo ricercarono tutto, ma in vano,

chè non levossi

A tanto raggio de' mortali il guardo;

E di Giove il voler non s'adempia.

Del Giove, s'intende, misericordioso e virtuoso; chè invece l'alto consiglio dell'iroso e tirannico Giove omerico, il quale, corrucciato, volle sacrificate all'ira di Achille «molte generose alme d'eroi», s'era bene adempito! (Iliade, I, 5).

Ma il Giove buono non si diede per vinto. Al suo desco sedevano, movendo «una concorde d'inni esultanza» che inebriava «le menti degli Dei», le Muse: egli levò la destra, accennando;

e la crescente

Del volubile canto onda ristette

Improvviso.

Il Padre le esortò a tentar esse, con le loro arti blandamente persuasive, di schiuder le ardue menti.

«La forza sol de l'arti vostre il puote.

Là giù dunque movete: a voi seguaci

Vengan le Grazie; e senza voi men bella

Già la mia reggia il tornar vostro attende».

[xxviii]

Le Muse ritrovaron nel mondo le Virtù, le quali erravano solette e dolenti. Prima Calliope mosse «i bei precetti ad avverar del Padre», e s'accostò all'orecchio di Orfeo, susurrandogli dolci parole; la imitarono le altre sorelle, ciascuna eleggendo un mortale, cui ispirare gli armoniosi ammaestramenti:

L'alme col canto ivan tentando, e l'ira

Vincea quel canto de le ferree menti.

Gli uomini, raggentiliti, assistettero a spettacoli non prima veduti:

Ove furente

Imperversar la Crudeltà solea,

Orribil mostro che ferisce e ride,

Vider Pietà che mollemente intorno

A i cor fremendo, dei veduti mali

Dolor chiedea; Pietà, de gl'infelici

Sorriso, amabil Dea.

Le personificazioni le aveva rimesse di moda il Monti. Ma codesta amabile Dea, degl'infelici sorriso, presso che sconosciuta al mondo classico, era stata negletta dai nuovi poeti del classicismo napoleonico. Essi, come quegli uomini primitivi, conoscevano bensì l'Offesa, la quale passeggiava con alta fronte, feroce e stolta, e provocatrice; non quel mite Genio che il Manzoni immagina le si opponesse:

Lo spontaneo Perdon, che con la destra

Cancella il torto, e ne la manca reca

Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.

Qui siamo in pieno mondo evangelico, e il poeta dell'Urania dà la mano a quello della Pentecoste. Sui passi del Perdono, veniva Nemesi, «seguace lenta ma certa»; la quale, quando s'accorge che le voci del Perdono non sono ascoltate, «non fa motto ed aspetta».

Un giorno al fine

Ne gl'iterati giri, orba dinanzi

Le vien l'Offesa: al tacit'arco impone

Nemesi allor l'alata pena; aggiunge

L'aërea punta impreveduta il fianco,

E l'empio corso allenta.

[xxix]

Chi non ricorda il Coro del Carmagnola?

Beata fu mai

Gente alcuna per sangue ed oltraggio?

Solo al vinto non toccano i guai;

Torna in pianto dell'empio il gioir.

Ben talor nel superbo viaggio

Non l'abbatte l'eterna vendetta:

Ma lo segna; ma veglia ed aspetta;

Ma lo coglie all'estremo sospir.

Videro, quegli uomini primitivi, la Fatica che rimaneva in un cantuccio, inonorata e inascoltata; e a lei si avvicinava, amabile compagno, l'Onore, cercando di renderla più cara.

Vider la Fede, immota

Servatrice dei giuri, e l'arridente

Ospital Genio che gl'ignoti astringe

Di fraterna catena; e tutta in fine

La schiera dia ne l'opra affaticarsi.

Videro, e novo di pietà, d'amore,

Ne gli attoniti surse animi un senso,

Che infiammando occupolli.

Codesto senso novo prenunzia, a me pare, molto vicino l'Inno del poeta, che, più risolutamente cristiano e sfranchito di quel ciarpame neoclassico, magnificherà ai «tementi dell'ira ventura» il rinnovato sacrifizio de

L'ostia viva di pace e d'amor.

Così, a quelle nuove aure di pietà e d'amore, la società umana sorrise come, dopo uno squallido inverno, la terra ai tepori primaverili. Le Muse, «de' lieti principii in cor secure», donarono agli uomini «il plettro e l'arte sacra del plettro», e le amiche Grazie «il dilettar denaro e il suader potente»:

al suon che primo

Si sparse a l'aura, dispogliò l'antico

Squallor la terra, e rise.

Era l'ultima aetas virgiliana, il sospirato ritorno dei Saturnia[xxx] regna, ovvero un'età novissima, che si rannodava a quella ch'ebbe già ad annunziare

L'Angel che venne in terra col decreto

Della molt'anni lagrimata pace?

Era un'utopia, per così dire, retrospettiva, a cui forse spingevano pur le dottrine sociali del Rousseau; o una meditata riconciliazione con la più santa utopia della fratellanza evangelica? A ogni modo, il poeta, che voleva ostentare uno spensierato neopaganesimo, ecco che rivelava, nel fondo del suo cuore, un ardore di neofita e una sete d'idealismo cristiano, che male celavan le ceneri della miscredenza volterriana. In questo Carme, così classicamente drappeggiato, il paganesimo non è che al di fuori, nella forma. La Musa ispiratrice, l'Urania del nuovo poeta, «di caduchi allori non circonda la fronte in Elicona»; e le Grazie, che ne allietano il canto, non mendicano estranei fregi da intessere al vero, o profani diletti. La Musa manzoniana è severa e pudica, e caste e immacolate le Grazie che le fanno corona.

Da lor sol vien se cosa in fra i mortali

È di gentile; e sol qua giù quel canto

Vivrà che lingua dal pensier profondo

Con la fortuna de le Grazie attinga.

Il Manzoni ha già trovata persino la formola della nuova arte sua; così che più tardi, Apollo, irato contro i Romantici milanesi, non avrà se non da ripetere, nella terribile sua sentenza:

«Tutto ei deggia da l'intimo

Suo petto trarre e dal pensier profondo,

E sia costretto lasciar sempre in pace

L'ingorda Libitina e il veglio edace».

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