IX.

Le vicende politiche venivano a turbare tanto idillio domestico, e tanta operosa pace di studi e di poesia. Ricordo ancora due date: il 20 dicembre del 1813, gli Alleati avevan passato il Reno, e invaso il territorio francese; il 25 gennaio 1814, Napoleone aveva con un nuovo esercito lasciato Parigi, e andava loro incontro. Il 9 febbraio, come ho detto, il Manzoni rompeva il lungo silenzio con l'amico della Maisonnette, per riparlargli della famiglia, del giardino, del poemetto sulla vaccinazione, degl'Inni sacri. Soggiungeva:

«Ne trouvez-vous pas un peu extraordinaire qu'au milieu de tout ce tapage je vous parle de ces affaires? Mais vous savez que c'est un des plus grands mérites des poètes, fra tanti e tanti a lor dal ciel largiti, de trouver toujours le moyen de parler de leurs vers».

L'11 febbraio, la guarnigione francese di Verona, stretta dagli Austriaci, non potè più resistere, e s'arrese. Il 7 marzo, ottomila tra Inglesi e Siciliani, condotti da lord William Bentinck, il quale diceva di propugnare la costituzione di uno Stato libero italiano, sbarcarono presso Livorno; e il 14,[xlix] l'ammiraglio vi proclamò d'esser venuto a stendere la mano agl'Italiani «per liberarli dal ferreo giogo dei Bonaparte». I Napoletani, con propositi non occulti di raggruppar la Penisola in un'unica monarchia indipendente, si fortificavano in Ancona e venivano via via occupando le altre città delle Marche. Sulle lagune, sul lago di Garda, sulle rive dell'Adige e del Mincio, avvenivano frequenti scontri degli Austriaci coi franco-italiani, con varia fortuna. Tra il quartier generale di re Gioacchino, il gabinetto dell'imperatore Francesco e lord Bentinck, era un vivo scambio di lettere. Nonostante le promesse e le belle parole, si capiva che l'Austria intendeva soprattutto alla restaurazione delle antiche dinastie: e il suo esercito, a buon conto, era entrato in Roma e vi aveva occupato il castel Sant'Angelo; e il conte Starkemberg s'era insediato in Firenze; e il conte Nugent creava, nei dipartimenti del Panaro e del Crostolo, un governo militare provvisorio, in nome dell'arciduca Francesco d'Austria-Este, erede di Ercole Rinaldo ultimo duca Estense, morto duca del Brisgau.

La Lombardia, dal Mincio al Ticino, costituiva ancora il Regno d'Italia, e il vicerè Eugenio n'era tuttavia a capo. Sennonchè si presentivan prossimi, e generalmente si auguravano, possibili e più o meno radicali mutamenti. Il Beauharnais non v'era propriamente odiato, ma neanche amato. «Allevato ne' campi di vincitori e di capitani, ma più d'ogni altro sotto la verga del loro maestro, aveva imparato a guerreggiare, e a temere d'acquistarsi regno da sè. A dirne il vero», soggiunge il Foscolo «pareva nato solo a regnare in tempi tranquilli, dotato com'era di forte senso comune; di cuore perplesso a chi non sapeva incalzarlo; amorevole, non però liberale nè confidente; poco magnifico, se non in cose che potevano fruttare o rivendersi a un tratto; e prontissimo a sentirsi predominare dalle menti e dalle anime superiori alla sua». Amata invece, e da tutti, era la viceregina, la soave Augusta Amalia di Baviera, «bellissima fra le giovani, e d'indole angelica, e madre di principi nati in[l] Italia». Il Foscolo, che la definisce così, disegnava di celebrarla nell'Inno secondo delle sue Grazie; dove aveva abbozzato per lei questi versi:

O di clementi

Virtù ornamento nella reggia insubre!

Finchè piacque agli Dei, o agl'infelici

Cara tutela, e di tre regie Grazie

Genitrice gentil, bella fra tutte

Figlie di regi, e agl'Immortali amica!

Tutto il Cielo t'udia quando al marito,

Guerregiante a impedir l'Elba ai nemici,

Pregavi lenta l'invisibil Parca

Che accompagna gli eroi, vaticinando

L'inno funereo e l'alto avello e l'armi

Più terse, e giunti alla quadriga i bianchi

Destrieri eterni a correre l'Eliso.

Rispettato tuttora, ma reso poco valido dagli acciacchi, era il cancelliere Francesco Melzi duca di Lodi, il quale aveva varcata la sessantina. Odiati invece, per la loro arroganza, erano il conte Méjean, segretario del Principe, e il Darnay, zelante direttore delle Poste, che voleva dire efferato intercettatore di corrispondenze: e basterebbe sentire il Manzoni, per farsi un'idea del ludibrio a cui era ridotto il servizio postale. Mal tollerati erano altresì alcuni dei ministri: i conti Vaccari e Paradisi, in ispecie, anche perchè, dice il Foscolo, l'uno essendo bolognese e l'altro modenese, eran «nominati forestieri in Milano». Odiatissimo poi era il[li] novarese conte Prina, ministro delle Finanze, una delle più implacabili sanguisughe che mai abbiano servito alle dispendiose ambizioni del conquistatore. L'oculato duca Melzi lo aveva segnalato come agente pericoloso fin dal 1802, in un rapporto al Primo Console; ma codesti biasimi sonavano elogi all'orecchio del monarca, che della pietà non sapeva cosa farsi. Al cancelliere del piccolo Regno italico, questi avrebbe potuto rispondere quel che più tardi non si peritò di ribattere al Metternich: «Vous n'êtes pas soldat, et vous ne savez pas ce qui se passe dans l'âme d'un soldat. J'ai grandi sur les champs de bataille, et un homme comme moi se soucie peu de la vie d'un million d'hommes!».

Napoleone era ancora «in solio», ma non più «folgorante»: la «reggia» rovinava, e il fantasma del «triste esiglio» si faceva ogni giorno più minaccioso; alle voci di «servo encomio» succedevan quelle di «codardo oltraggio». Anche in Milano gli scontenti levavano il capo. E mentre gli Austriaci premevan di fuori, e richiamavano il Principe e le[lii] sue milizie al confine, di dentro gli austriacanti, per la più parte aristocratici o burocratici, e i così detti Italici, ch'eran gli zelatori di ordinamenti nuovi, facevan leva insieme per rimuovere quel governo prepotente e rapace. Le simpatie del giovane Manzoni erano, s'intende, per gl'Italici; tra' quali, com'egli si segnalava, oltre che per il resto, per la eccessiva prudenza, così si poneva in vista, con pericolosa imprudenza, il giovane conte Federico Confalonieri. Non so se già allora, certo di poi, nelle tragiche vicende di codesto audace cospiratore, il Manzoni gli si mostrò affezionato estimatore; e non esitò a manifestare, sotto gli occhi sinistri e sospettosi dell'aquila grifagna, la sua ammirazione per la eroica compagna del martire, la contessa Teresa Casati. Pel sepolcro di lei, morta di ansie e di crepacuore il 26 settembre del 1830, quando ancora il marito era imprigionato allo Spielberg, egli dettò una delle poche sue epigrafi, che fu scolpita nella tomba della famiglia Casati a Muggiò presso Monza; dove tra l'altro diceva: «Maritata a Federico Confalonieri il 14 settembre 1806 - ornò modestamente la prospera sorte di lui - l'afflitta soccorse con l'opera e partecipò con l'animo - quanto ad opera e ad animo umano è conceduto. - Consunta ma non vinta dal cordoglio - morì sperando nel Signore dei desolati... - Vale intanto, anima forte e soave!». E al Confalonieri medesimo egli non si peritò di dare una esplicita prova dell'immutabile suo attaccamento, mandandogli allo Spielberg il libro dell'abate Ph. Gerbet, Considérations sur le Dogme générateur de la piété catholique (Paris 1833), che, in quei tempi di rinnovato fervore religioso, meritò al suo autore il nome di Platone cristiano. Vi scrisse sulla prima pagina:

A Federigo Confalonieri.

Che può l'amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell'esiglio, la desolazione d'una perdita irreparabile? Qualche cosa, quando preghi: chè, se sterile è il compianto che nasce nell'uomo, e finisce in lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dio ritorna.

Alessandro Manzoni.

Milano, 23 aprile 1836.

[liii]

Dedica autografa del Manzoni a Federigo Confalonieri.

[liv]

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