XI.

Il 3 marzo, il Manzoni cominciò a mettere in carta il quarto dei suoi Inni, La Passione. Scrisse:

Cheti e gravi in dimessa figura

Oggi al tempio, fratelli, moviamo.

Come gente che pensi a sventura

Che repente s'intese annunziar...;

e andò oltre per tutta la seconda strofa:

S'ode un carme: l'intento Isaia

Profferì questo sacro lamento,

In quel dì che un divino spavento

Gli affannava il fatidico cuor.

Ma l'Isaia novello non seppe proseguire, per allora: il trambusto e lo strazio temuto di questa sua nuova Gerusalemme voleva per sè tutti i suoi pensieri e le sue cure.

Le notizie che venivan d'oltr'Alpi avvertivano che la catastrofe napoleonica era imminente. «Di quel securo il fulmine» scoppiava ancora pauroso a Brienne, a Champaubert, a Montmirail, a Montereau, a Vauchamp; ma le file di quell'ultimo esercito di adolescenti scemavan via via, senza che per il momento fosse possibile rinvigorirle. E intanto gli eserciti degli Alleati s'accavallavano e rinnovavano, e si stringevano ogni giorno più intorno a Parigi. Il 30 marzo, quando Napoleone con una suprema audacia disegnò di portarsi alle spalle del nemico, e raccogliere le guarnigioni lasciate nella Francia orientale e l'esercito d'Italia, gli Alleati precipitarono su Parigi, sconfissero re Giuseppe e Marmont, e il giorno 31 entrarono nella città e vi si accamparono. Napoleone tornò in furia da Rheims, ma comprese che tutto era perduto e si attendò a Fontainebleau, aspettando. Il 5 aprile si seppe anche a Milano della presa di Parigi; e il 15, che a Fontainebleau l'uomo fatale era stato costretto a firmare la sua abdicazione. Il formidabile di ieri si avviava, sotto scorta, al risibile staterello dell'Elba, lasciatogli come per elemosina.

[lviii]

Giorgio Byron, che nel gennaio di quell'anno, pubblicando il Corsaro, aveva espresso il proponimento di non più poetare per lungo tempo, e che il 9 aprile, al mattino, ancora scriveva: «Non più versi oramai; io ho dato le mie dimissioni»; la sera, all'annunzio dell'abdicazione, diffuso da un supplemento della Gazzetta, si sentì invaso da irrompente furore poetico, e il giorno appresso l'Ode to Napoleon Bonaparte era già composta. Essa fu subito stampata e pubblicata, senza il nome dell'autore. L'intonazione e parecchi spunti ricordano molto da vicino il Cinque maggio . Comincia:

'Tis done - but yesterday a King!

And arm'd with Kings to strive -

And now thou art a nameless thing:

So abject - yet alive!

Is this the man of thousand thrones,

Who strew'd our earth with hostile bones,

And can he thus survive?

Since he, miscall'd the Morning Star,

Nor man nor fiend hath fallen so far.

Ripiglia alla IV strofa, con un movimento che somiglia al manzoniano La procellosa e trepida..., e riconduce all'epigrafico Ei fu:

The triumph, and the vanity,

The rapture of the strife -

The earthquake voice of Victory,

To thee the breath of life;

[lix]

The sword, the sceptre, and that sway

Which man seem'd made but to obey,

Wherewith renown was rife -

All quell'd! - Dark Spirit! what must be

The madness of thy memory!

Napoleone era stato «the arbiter of others' fate»: i popoli gli si volsero «come aspettando il fato». Incatenato al tronco che vanamente egli aveva voluto abbattere, - solo - , quali sguardi non gettò egli intorno a sè?

Chain'd by the trunk he vainly broke -

Alone - how look'd he round?

Novello Milone, lo attenderà una sorte ancora più terribile: quegli morì divorato dalle bestie feroci; ma lui divorerà il suo proprio cuore:

He fell, the forest prowlers' prey:

But thou must eat thy heart away!

Napoleone («the Thunderer of the scene», lo dirà poi nel Childe Harold's Pilgrimage, III, 36) aveva avuto nelle sue mani «il fulmine»; che ora gli era stato strappato a viva forza.

But thou - from thy reluctant hand

The thunderbolt is wrung -

Too late thou leav'st the high command

To which thy weakness clung;

All Evil Spirit as thou art,

It is enough to grieve the heart

[lx]

To see thine own unstrung;

To think that God's fair world hath been

The footstool of a thing so mean.

...........

Thy triumphs tell of fame no more,

Or deepen every stain....

But who would soar the solar height,

To set in such a starless night?

Weigh'd in the balance, hero-dust

Is vile as vulgar clay;

Thy scales, Mortality! are just

To all that pass away:

But yet methought the living great

Some higher sparks should animate,

To dazzle and dismay:

Nor deem'd Contempt could thus make mirth

Of these, the conquerors of the earth.....

Then haste thee to thy sullen Isle,

And gaze upon the sea;

That element may meet thy smile -

It ne'er was ruled by thee!....

...........

What thoughts will there be thine,

While brooding in thy prison'd rage?

But one: - «The world was mine!»....

Life will not long confine

[lxi]

That spirit, pour'd so widely forth -

So long obey'd - so little worth!

Se Napoleone avesse saputo ritirarsi in tempo! Ma no! egli volle esser re, come se la porpora onde si camuffava potesse soffocare «il sovvenir»:

But thou forsooth! must be a king,

And don the purple vest. -

As if that foolish robe could wring

Remembrance from thy breast.

Or come mai un tal uomo, il protagonista d'una si grande tragedia, non aveva preferito morire da eroe e da re, gettandosi sulla propria spada come un eroe di Plutarco, al sopravvivere a sè medesimo e alla sua gloria, quasi un povero re da commedia? Fa paura di quella morte, ch'egli aveva seminata nel mondo con tanta prodigalità, ovvero speranza segreta di rilevare il capo minaccioso sulla plebe de' sovrani per la grazia di Dio, che ora gli facevan da carcerieri? Il superbo poeta, compatriotta di Nelson e di Wellington, non vuol soffermarsi a indagarlo; egli ama meglio rinfacciare al nemico sconfitto e umiliato pur quell'ultima sua coraggiosa viltà.

Is it some yet imperial hope

That with such change can calmly cope?

Or dread of death alone?

To die a prince - or live a slave -

Thy choice is most ignobly brave!....

And Earth hath spilt her blood for him,

Who thus can hoard his own!...

Or, like the thief of fire from heaven,

Wilt thou withstand the shock?

And share with him, the unforgiven,

His vulture and his rock!

Foredoom'd by God - by man accurst,

And that last act, though not thy worst,

[lxii]

The very Fiend's arch mock;

He in his fall preserved his pride,

And, if a mortal, had as proudly died!

È verosimile che, se «il massimo Fattor» fosse anche uno scrittore di tragedie sul tipo classico, avrebbe chiusa la terribile catastrofe di Fontainebleau come, poniamo, l'Alfieri il Saul. All'«empia Filiste» del Danubio, Napoleone avrebbe, passandosi il cuore, detto, con un gesto e un atteggiamento che ricordasse il repubblicano Catone (che importava la fede politica di questo antico? forse che l'imperialista Dante s'era peritato di piegare davanti a lui «le gambe e il ciglio», pur dopo d'aver visto Bruto e Cassio nel peggior luogo dell'Inferno, nella sola compagnia di Giuda Iscariota?):

«Me troverai, ma almen da re, qui.... morto!»

Ma Napoleone, nonostante le sue pretese artistiche e i suoi ukasi estetici, aveva preferito comportarsi, magari a dispetto del corifeo dei nuovi poeti romantici, come un eroe romantico.[lxiii] Anche Macbeth s'era rifiutato di seguire i nobili esempi che pure a lui, barbaro caledone, additava la magnanima storia di Roma. Chè quando codesto efferato ambizioso si vede inseguito com'una belva e senza speranza di scampo, esclama, con nuovo scatto di ferocia:

«Why should I play the Roman fool, and die

On mine own sword? whiles I see lives, the gashes

Do better upon them».

Il Manzoni, da buon filosofo della storia, e poco tenero oramai dell'arte classicheggiante e dei critici dittatori del buon gusto, dedusse dal mancato suicidio del desolator desolate, del victor overthrown, la conseguenza che la necessità ineluttabile del suicidio negli eroi e nelle situazioni tragiche sia del tutto posticcia, e punto rispondente alla realtà. Nella sua Lettre à m. C*** egli tocca, con una punta d'arguta canzonatura, di quei tragediografi che si sbarazzano degli eroi malencontreux con un sollecito colpo di pugnale; e riferisce, a dileggio, i due versi celebri nei quali «un poëte a donné la formule morale du suicide». Il poeta è, chi non lo sappia, il Voltaire; il quale mise in bocca alla sua Merope, in fine dell'atto secondo della tragedia omonima, queste parole:

«Moi vivre, moi lever mes regards éperdus

Vers ce ciel outragé que mon fils ne voit plus!

Sous un maître odieux, dévorant ma tristesse,

Attendre dans les pleurs une affreuse vieillesse!

Quand on a tout perdu, quand on n'a plus d'espoir,

La vie est un opprobre, et la mort un devoir».

[lxiv]

In verità, osserva il Manzoni, l'esperienza e la storia mostrano che nella vita i suicidii non sono così frequenti come sulla scena, e specialmente non avvengono nelle occasioni in cui i poeti tragici v'han ricorso.

«On voit des hommes qui ont subi les plus grands malheurs ne pas concevoir l'idée du suicide, ou la repousser comme une faiblesse et comme un crime. Certes l'époque ou nous nous trouvons a été bien féconde en catastrophes signalées, en grandes espérances trompées; voyons-nous que beaucoup de suicides s'en soient suivis? non; et si la manie en est devenue de nos jours plus commune, ce n'est pas parmi ceux qui ont joué un grand rôle dans le monde, c'est plutôt dans la classe des joueurs malheureux, et parmi les hommes qui n'ont ou croient n'avoir plus d'intérêt dans la vie dès qu'ils ont perdu les biens les plus vulgaires: car les âmes les plus capables de vastes projets sont d'ordinaire celles qui ont le plus de force, le plus de résignation dans les revers.»

Una delle catastrofi contemporanee più segnalate, anzi la più grandiosa e memorabile, non era appunto stata quella di Fontainebleau; anche più insigne dell'altra che seguì, di Waterloo, benchè questa avesse conseguenze più definitive?

Il poeta, fedele al suo programma d'arte, di non tradir mai il santo Vero, s'attenne a codesti insegnamenti della storia: così quando, nell'Adelchi, non permise che il protagonista, cuor del suo cuore nonostante la solenne dichiarazione di rammarico per averlo messo al mondo, desse volontaria e violenta fine ai suoi giorni; come quando, nel Romanzo, lasciò cader di mano all'Innominato, a codesto piccolissimo Napoleone secentesco della Valsassina, la pistola con la quale aveva pensato un momento di «finire una vita divenuta insopportabile» (cap. XXI). Shakespeare, il «savio gentil» che seppe meglio di qualunque altro leggere nel cuore umano, era, anche questa volta, una guida molto sicura. Vero è che la critica interessata di certi poeti, ambiziosi di dittatura, parlava di costui «come d'un genio selvaggio, d'un capo strano, con de' lucidi intervalli stupendi: una specie di montagna arida e scoscesa, dove un botanico, arrampicandosi[lxv] per de' massi ignudi, poteva trovare un qualche fiore non comune». Ma il Manzoni nè aveva i secondi fini del Voltaire, nè era un caparbio o un parvenu letterario come l'Alfieri; e non si fece scrupolo di riconoscere subito in lui il «grande e quasi unico poeta», e a darglisi tutto, come Dante a Virgilio, per sua salute . I due stupendi monologhi, di Adelchi e dell'Innominato, in cui è descritta nei più minuti particolari la storia di quelle due anime agitate, che accolgon prima come una liberatrice l'idea del suicidio e poi la respingono come una vile lusingatrice, son rimodellati su quello celebre di Amleto. S'intende; del Manzoni possiamo ripetere ciò ch'ei disse del Goethe: si mise sulla strada «segnata dal genio selvaggio,... come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d'imitare».

Sennonchè, quando, sullo scorcio del 1819 e il principio del 1820, il Manzoni scrisse la Lettre a m. C***, sapeva forse che davvero il vinto di Fontainebleau aveva tentato, e meglio che tentato, di farla finita con una esistenza che oramai gli era insopportabile? E se non allora, lo seppe egli quando componeva l'Adelchi, o almeno quando descrisse la tormentosa notte dell'Innominato? Manca il modo di accertar nulla. Comunque, sono assai rilevanti e significative le affinità che si scorgono tra codeste immaginazioni poetiche e quell'episodio storico, rivelatoci poi da testimoni oculari.

L'imperatore aveva, il 4 aprile, segnato un primo atto d'abdicazione, riservando i diritti di suo figlio e quelli della[lxvi] imperatrice reggente, e il mantenimento delle leggi dell'Impero. Ma il 7, costretto dalla diserzione di Marmont, s'era dovuto piegare a rinunciare per sè e i suoi figliuoli a qualunque diritto sui troni di Francia e d'Italia. Non bastava. Il 12, tre generali gli portaron da firmare il trattato di pace che il giorno prima gli Alleati e il governo provvisorio avevan concluso a Parigi. Napoleone, divenuto cupo, lo respinge e reclama il suo atto d'abdicazione del 7. Che cosa mulinava? Gl'intimi s'eran potuto accorgere che sinistri propositi attraversavano la sua mente. Il conte di Turenne gli aveva sottratte e scaricate le pistole; ma egli le aveva reclamate, rimproverandolo. Poi, aveva parlato con calma della sua nuova condizione. La morte, disse averla bensì cercata sul campo di battaglia, per esempio ad Arcis-sur-Aube («anch'io credea morir sul campo!»); ma il pensiero del suicidio sarebbe stato indegno di lui. Egli era cosciente e geloso della sua dignità imperiale; «Se tuer», aveva soggiunto, «c'est la mort d'un joueur!». E ancora, scoprendo tutto un abisso di meditazioni e di speranze: «Il n'y a que les morts qui ne reviennent pas!». - Solo Shakespeare avrebbe forse saputo leggere in una simile anima, in un simile momento; e queste frasi son degne di lui.

Quel giorno, sul punto di apporre la sua firma alla sentenza capitale dell'Impero, Napoleone era così sprofondato in sè stesso, che, narra il generale De Ségur, «il semblait habiter un autre monde». Alle dieci di sera, andò a letto; a mezzanotte, chiamò il servo fedele perchè ravvivasse il[lxvii] fuoco, e gli preparasse da scrivere presso il caminetto. Poi lo mandò via. Si levò agitatissimo, percorse la stanza a passi concitati, si fermò di botto, scrisse, ghermì il foglio e lo buttò sul fuoco; tornò a passeggiare, a sedere, a scrivere, a gettare il foglio sul fuoco. Poi, s'accostò al comodino, vuotò nel bicchiere il sacchetto del veleno che gli aveva preparato il dottore Yvan, e ch'ei portava sempre con sè dopo la guerra di Spagna, e bevve. Si rimise a letto. Per una lunga mezz'ora il cameriere, trepidante, rimase dietro la porta a spiare. Napoleone, maravigliato di vivere ancora, aspettava impaziente gli effetti del veleno. Poichè questi tardavano, ricorse a un altro veleno, già preparatogli dal Cabanis. Soffriva molto, ma non era la morte. Stanco, fece chiamare il medico, per chiedergli un veleno più decisivo. Yvan, atterrito, supplica l'imperatore di prendere invece un contravveleno: non voglia esporlo a terribili sospetti! Napoleone cede, si lascia curare e s'assopisce. Le tenere prove d'affetto di chi lo circondava gli ridanno la forza di vivere. Esclama: «Dieu ne le veut pas!»; domanda il trattato degli 11 aprile, e vi appone il suo nome.

La tragedia, che pareva giunta alla catastrofe, era solo alla fine del quarto atto: mancavano ancora l'Elba, Waterloo, Sant'Elena.

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