XII.

Or che sarebbe avvenuto dell'Italia, dopo che il colosso era stato gettato «nella polvere»? che cosa di questo che fu detto, e pareva nome di buono augurio, Regno d'Italia? Il 16 aprile [1814], fu concluso, nel castello di Schiarino Rizzino presso Mantova, un armistizio tra l'esercito franco-italiano di Eugenio e l'austriaco di Bellegarde, in attesa che le Potenze decidessero della sorte di queste contrade. Si compiva ancora una volta l'avito destino del Lombardo:

L'altrui voglia era legge per lui;

Il suo fato, un segreto d'altrui;

La sua parte, servire e tacer.

[lxviii]

Il momento era solenne; ma gli uomini non si mostraron pari al bisogno. Il solo cancelliere Melzi pare si rendesse conto della gravità dei pericoli; e s'arrogò, nell'assenza del vicerè, l'autorità di convocare il Senato. Oh questo non era più l'antico Senato milanese, che Giuseppe II aveva abolito; e del quale il Manzoni notava, non senza amarezza verso i governanti stranieri:

«Il Senato era una vera rappresentanza nazionale: le leggi dovevano passare per quello, e non divenivano esecutive se non le avesse interinate. È vero ch'era degenerato, divenuto nulla meglio che un tribunale, e le sue decisioni troppo sovente erano goffe o triste. Ma per questo aveva diritto Giuseppe II di distruggerlo? Finchè sussisteva, poteva ringiovanirsi: se egli intendeva far bene, doveva restituirlo alla condizione primitiva, e non già cassarlo».

Il Senato del 1814 era quello creato da Napoleone col decreto 21 marzo 1808, col nome di «Senato Consulente»; e i senatori erano stati scelti parte dai Collegi Elettorali, parte dall'Imperatore, seguendo i suggerimenti del Melzi. Il quale, dunque, ora li convocò d'urgenza, per provocarne un voto alle Potenze: facessero cessare del tutto le ostilità sul territorio italiano, e riconoscessero l'indipendenza del Regno d'Italia e la sovranità di Eugenio. Era risaputo che lo zar Alessandro nutriva una certa predilezione per codesto principe; il quale aveva altresì un naturale protettore nel suocero, Massimiliano Giuseppe re di Baviera. Pareva poi lecito sperare che pur le provincie traspadane (Modena, Bologna, Ravenna, Ancona) si sarebbero dichiarate per la conservazione del Regno. Si trattava, insomma, di sventare abilmente, e senza provocazioni, i disegni ferocemente conservatori dell'imperatore d'Austria e del suo onnipotente e prepotente cancelliere. Ma tutto volse al peggio. Il Melzi, assalito durante la notte dai suoi acciacchi, non potè intervenire alla seduta del Senato; e dovè limitarsi a un messaggio in iscritto. Così, l'opposizione austriacante, diretta dal conte Diego Guicciardi, ebbe agio di sollevare meschine questioni di forma e cavilli di procedura; e non si decise se non di sospender la seduta,[lxix] per permettere ai senatori Guicciardi, Carlo Verri e Dandolo di recarsi a casa del Melzi e discuter con lui. Alle otto della sera di quello stesso giorno 17 aprile, il Senato si radunò nuovamente; e dopo un nuovo interminabile dibattito, si prese una di quelle deliberazioni insulse ma rovinose, a cui troppo di frequente conducono le chiacchiere boriose e saccenti delle assemblee: d'inviare bensì alle Potenze una deputazione che sollecitasse la conservazione del Regno, ma col divieto di raccomandare comunque la candidatura di Eugenio! Il Verri s'era affrettato a proclamare: il popolo di Milano non volerne sapere d'un re Eugenio, il quale da vicerè lo aveva spogliato e spregiato! «Il me semble», aveva avuto già occasione d'osservare il Montesquieu, «que les têtes des plus grands hommes s'etrécissent lorqu'elles sont assemblées; et que, là où il y a plus de sages, il y ait aussi moins de sagesse. Les grands corps s'attachent toujours si fort aux minuties, aux vains usages, que l'essentiel ne va jamais qu'après».

Nessuno a Milano seppe esattamente quel che il Senato avesse deciso, ma tutti se ne mostrarono scontenti: tanto quell'alto consesso era caduto in discredito! I fautori del passato ne presero coraggio per preparare una sommossa che giustificasse l'intervento delle milizie imperiali; e gl'Italici lasciaron fare, quasi che essi in quel torbido fossero stati acconci a pescare. Per proprio conto compilarono una nobile e dignitosa quanto ingenua protesta, con la quale si sconfessava il voto, qualunque esso fosse, del Senato, e si domandava l'immediata convocazione dei Collegi Elettorali, «nei quali solamente», dicevano, «risiede la legittima rappresentanza della nazione». E provvidero che codesto documento fosse sottoscritto da quanto di meglio Milano vantava nell'aristocrazia del blasone, del censo, dell'ingegno, dell'industria. La prima firma fu quella del general Pino; seguirono i Porro, i Trivulzio, i Confalonieri, i Borromeo, i Visconti, i Greppi, i D'Adda, i Cicogna, i Sormani, i Trotti, gli Arese, i Giovio, i Castelbarco.....Firmarono il conte Gian[lxx] Luca della Somaglia, presidente del Consiglio comunale, e il conte Antonio Durini, podestà, con tutti i Savii (gli Assessori). Firmò il poeta Carlo Porta, e l'architetto Luigi Cagnola, e, centoduesimo nella lista, Alessandro Manzoni.

Il Giornale Italiano del 19 pubblicò la convenzione militare del giorno 16, e insieme il proclama del vicerè che congedava le milizie francesi. «Soldati francesi», diceva, «voi ripiglierete il cammino pei vostri focolari!». Carlo Porta mandò dietro a quelle soldatesche, che al focolare francese portavano un grosso bottino, un sonetto riboccante d'amarezza e di una, purtroppo, non ingiustificata sfiducia. La poesia rimaneva la nostra sola arma d'offesa!

Paracar che scappée de Lombardia,

Se ve dan quaj moment de vardà indrée,

Dée on'oggiada e fée a ment con che 'legria

Se festeggia sto voster sanmichèe.

E sì che tutt el mond sa che vee via

Per lassà el post a di olter forestée,

Che per quant fussen pien de cortesia

Vorraran anca lor robba e danée.

Ma n'havii faa mo tant violter balloss,

Col ladrann e copann gent sora gent,

Col pelann, tribolann, cagann adoss,

Che infin n'havii redutt al punt puttanna

De podè nanca vess indiferent

Sulla scerna del boja che ne scanna.

Sull'imbrunire di quello stesso giorno 19, furon visti entrare in città drappelli di contadini, in ispecie del Novarese, dall'aspetto e dal contegno sospetti. Intanto, una parte della guarnigione ne era fatta uscire, col pretesto che fossero da rinforzare alcuni punti a Varese e a Sesto Calende, che nessuno minacciava! S'avvicinava, per i reazionarii e i liberali - stranissimo connubio! - , la gran giornata.

[lxxi]

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