Milano rimaneva senza governo: il vicerè lontano e dimissionario, il Consiglio dei Ministri annullato, oltre che per la morte del Prina, per la fuga del Vaccari e del Fontanelli; il Senato disciolto. Una dittatura militare non era possibile, per la scarsezza delle milizie. La notte dello stesso giorno 20, il[lxxvii] podestà Durini trovò in sé l'energia di convocare il Consiglio Comunale; il quale decise la convocazione, pel 22, dei Collegi Elettorali e la nomina immediata d'una Reggenza Provvisoria. Tra i sette reggenti, nessuno apparteneva agl'Italici, e solo uno non era sospettabile di soverchio zelo per l'Austria, Carlo Verri; e questi fu, per prudenza o ipocrisia politica, scelto a presidente. Al general Pino, però, fu affidato il comando delle forze militari.
La Reggenza provvide a ristabilire l'ordine pubblico, ad alleggerire le tasse più odiose, ad abolire quelle leggi che peggio avevano irritati gli animi. E proclamò, su per le cantonate, ai buoni Milanesi: «Collo spirito di quiete che va felicemente a ristabilirsi, voi potrete darvi quel governo che desiderate, giacchè la vostra libera volontà sarà manifestata ai Collegi Elettorali». Questi s'adunarono il giorno fissato, il 22, a mezzogiorno, nel palazzo di Brera. Il consigliere di Stato Lodovico Giovio fu delegato a presiederli; e ne inaugurò i lavori con un elaborato ed enfatico discorso. Accennò all'abdicazione provvidenziale ed insperata di «quell'uomo che tutta avea riempiuta l'Europa di temuta meravigliosa rinomanza», e alle speranze riposte, ohimè, nelle «gesta magnanime delle Alte Potenze Alleate» e nei «principii sociali che i lumi del secolo hanno resi necessarii pel governo delle nazioni incivilite»; ed augurò che «anche la nostra Italia, pesta e sfigurata da replicati oltraggi, possa brillare sull'orizzonte dell'Europa». Continuava:
«La fermezza del carattere, la costanza nelle sciagure, la prudenza nei consigli, la rettitudine nelle amministrazioni, sono i caratteri indelebili dell'Italia, che, dopo essere stata la dominatrice del mondo, fu miseramente oppressa. Risorga essa alfine per la generosa gara delle Potenze Alleate, e si assicuri la felicità dei popoli. A così bello intento domandino i Collegi Elettorali istituzioni politiche liberali, un capo indipendente, che nuovo, non conosciuto da noi, diventi italiano, e che accolga i nostri voti e le nostre benedizioni. Assicurato della nostra lealtà, regni su cuori sensibili, generosi e fedeli, e ne faccia dimenticare la recente dominazione. La storia, maestra di tutte le cose, ci ha infallantemente provato che i regni cominciati coll'inganno finirono nei fondatori o nei figli, con vitupero e danno. Una crisi violenta è scoppiata; terribile ne fu la catastrofe, spaventoso e terribile l'esempio; ma che ne accerta come gli uomini più con l'amore che con la forza si governino».
[lxxviii]
E concludeva, esclamando:
«Possano le Alpi, le une sopra le altre ammassate, separarci per sempre da quella nazione, che sempre portò l'infortunio e la desolazione nella patria nostra!».
Le ceneri di Vittorio Alfieri avranno esultato, se gli echi lontani di Santa Croce ripercossero questa perorazione misogallica.
Certo, n'esultò il poeta di via Morone. Il quale, in quel giorno medesimo, intonò una canzone, che qua e là ricorda l'alfieriana del 1789, Parigi sbastigliato. Trattandosi d'un primo getto, preferisco riprodurla qui come un documento storico, anzi che darle posto tra le Poesie.
APRILE 1814
CANZONE
22 aprile 1814.
Fin che il ver fu delitto, e la Menzogna
Corse gridando, minacciosa il ciglio:
«Io son sola che parlo, io sono il vero»,
Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna.
Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
Chè non è sola lode esser sincero,
Nè rischio è bello senza nobil fine.
Or che il superbo morso
Ad onesta parola è tolto alfine,
Ogni compresso affetto al labbro è corso;
Or s'udrà ciò che, sotto il giogo antico,
Sommesso appena esser potea discorso
Al cauto orecchio di provato amico.
[lxxix]
Toglier lo scudo de le Leggi antique
E le da lor create, e il sacro patto
Mutar come si muta un vestimento;
O non mutate non serbarle, e inique
Farle serbar benchè segrete, e in atto
Di chi pensa, tacendo, al tradimento;
E novi statuir padri alla legge,
E, perchè amici ai buoni,
Sperderli a guisa di spregiato gregge:
Questi de' salvatori erano i doni;
Questo dicean fondarne a civil vita;
Qual se Italia, al chiamar d'esti Anfioni,
Fosse dei boschi e de le tane uscita.
Anzi, fatta da lor donna e reina
La salutaro, o fosse frode o scherno:
D'armi reina, io dico, e di consigli;
Essa che ai piè de la imperante inchina
Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
Censo agli estrani, e de gli estrani ai figli;
Che regger si dovea con l'altrui cenno;
Che ogni anno il suo tesoro
Su l'avara ponea lance di Brenno.
È ver; tributo noi dicean costoro,
Men turpe nome il vincitor foggiava.
Ma che monta, per Dio! Terra che l'oro
Porta, costretta, allo straniero, è schiava.
E svelti i figli ai genitor dal fianco,
E aprir loro le porte, ed esser padre
Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
E tratti in ceppi, e noverati a branco,
Spinti ad offesa d'innocenti squadre
Con cui meglio starieno abbracciamenti.
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde, e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato!
[lxxx]
Nè gente or voglio cagionar dei mali
Che lo stesso bevea calice d'ira,
Nè infonder tosco ne le piaghe aperte;
Ma dico sol ch'è da pensar da quali
Strette il perdono del Signor ne tira,
Perchè sien maggior grazie a Lui riferte.
Chè quando eran più l'onte aspre ed estreme,
E, al veder nostro, estinto
Ogni raggio parea d'umana speme;
Allor fuor de la nube arduo ed accinto,
Tuonando, il braccio salvator s'è mostro:
Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
Che a ragion si rallegra il popol nostro.
Bel mirar da le inospite latebre
Giovin raminghi al sospirato tetto
Correr securi, ed a le braccia pie;
E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
L'odio potente, un motto od un sospetto,
Ai soavi tornar colloquj e al die;
E un favellar di gioja e di speranza,
E su le fronti sculta
De' concordi pensier l'alma fidanza;
E il nobil fior de' generosi a scolta
Durar ne l'armi e vigilar, mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando;
E quei che a dir le sue ragioni or chiama
Lunge da basso studio e da contesa,
Parlar per lei com'ella è desiosa,
E l'antica far chiara itala brama:
Che sarà, spero, a quei possenti intesa
Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
Vedi il drappello che al governo è sopra,
Animoso e guardingo,
Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
E i ministri di Dio dal mite aringo
Nel dritto calle ragunar la greggia.
Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;
Ma qual parlar sì belle opre pareggia?
[lxxxi]
Il poeta è interprete genuino del sentimento popolare. Aveva taciuto fin allora, perchè a nulla sarebbe valso l'ardire; infranto il bavaglio, egli leva alta la voce contro l'ipocrita dominatore, che ci teneva schiavi nel sacro nome della libertà. Chè schiava era l'Italia, costretta ogni anno a deporre il suo tesoro (esecutore il Prina) «sull'avara lance di Brenno»! E i figli erano strappati ai genitori, noverati a branco, spinti contro eserciti innocenti di fratelli; e morivano lontano,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari!
Ora tutto, d'improvviso, è mutato: «quando eran più l'onte aspre ed estreme», ecco, di tra le nubi, s'è mostrato il braccio salvatore di Dio, a soccorrere i «ben pugnanti». Ed ha vinto; così che «a ragion si rallegra il popol nostro». Ora son tornati alle loro case sospirate, agli abbracciamenti pii, ai soavi colloquii («i fidati colloqui d'amor», del primo coro dell'Adelchi), quei giovani costretti a ramingare per greppi senz'orma, o tenuti, dall'odio potente del tiranno, in carceri tenebrose; ora è tutto un «favellar di gioia e di speranza», e «il nobil fior de' generosi» ora veglia nelle armi,
mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando.
Il poeta è anch'egli pieno di fiducia, che l'itala brama sarà da «quei possenti intesa Cui par che piaccia ogni più nobil cosa». E accompagna coi suoi voti i delegati che i Collegi Elettorali inviarono a Parigi, perchè la secolare brama facessero nota a quei possenti.
I delegati furono Federico Confalonieri, Alberto Litta, il marchese Gian Giacomo Trivulzio e il conte Della Somaglia,[lxxxii] milanesi, i conti Marcantonio Fè di Brescia e Serafino Sormani di Cremona, il banchiere Giacomo Ciani e Pietro Ballabio; segretario, il marchese Giacomo Beccaria, figlio d'un fratello di Cesare. Quest'ultimo si sarebbe presentato al Fauriel con una commendatizia del cugino Manzoni. Il quale così scriveva, il 24 aprile, all'amico della Maisonnette:
«Je profite d'une bonne occasion qui se présente pour rénouer avec vous ma correspondance, qui heureusement n'a pas été très longtemps interrompue, au moins par des obstacles extérieurs. M. Beccaria mon cousin part cette nuit en qualité de secrétaire d'une députation que nos Collèges Electoraux envoyent au quartier-général des Alliés; c'est lui qui vous portera cette lettre, et qui vous donnera de nos nouvelles, si vous voulez bien l'accueillir».
Risolutamente avverso, come i suoi amici francesi, all'autocrazia napoleonica, il Manzoni si compiace con essi della piega che gli avvenimenti avevan presa in Francia. Soggiunge:
«Vous pouvez vous imaginer la part que nous avons pris aux inquiétudes dans lesquelles vous avez dû vous trouver, et à la joie qu'a dû vous causer un dénouement aussi heureux et aussi tranquille. Connaissant l'affection que vous avez pour votre pays, et pour tout ce qui est généreux, sage et utile, je vous félicite de votre noble Constitution».
Una Costituzione simile anche per l'Italia era ciò che vivamente sospiravano quei nostri nobili patrioti del '14:
Ferito e stanco
Il vincitor; vôti gli erari; oppressi
Dal terror, dai tributi i cittadini
Pregan dal ciel sull'armi loro istesse
Le sconfitte e le fughe........
........A molti in mente
Dura il pensier del glorioso, antico
Rivolgon di desio là dove appena
D'un qualunque avvenir si mostri un raggio,
Frementi del presente e vergognosi.
Ma il loro sogno doveva spezzarsi dinanzi alla realtà del domani, qual era voluta e preparata dalla grettezza feroce e[lxxxiii] goffa del principe di Metternich; di codesto saccente idolatra di quella politica ciecamente conservatrice
Che del passato l'avvenir fa servo.