XIX.

Firmata la pace d'Amiens, Murat sollecitò d'esser mandato a Roma e a Napoli, per sorvegliarvi il ritiro delle guarnigioni francesi; e sul Tevere ebbe accoglienze e doni principeschi, sul Sebeto una spada con l'elsa tempestata di diamanti. Il re Borbone prese le sue misure perchè i giacobini napoletani non gli facessero le feste che avevan preparate. Qualcosa i conservatori fiutavano, e l'avevano in uggia. A Milano essi s'erano stretti intorno al Melzi, e profittavano d'ogni occasione per porre Gioacchino in sospetto presso il despota. Insinuavano ch'egli alimentasse le ubbie unitarie, e tollerasse che fin nell'esercito codeste idee fossero diffuse e inculcate. Per parare il colpo, Murat denunziò alcuni ufficiali, e si mostrò scandalizzato che il vicepresidente avesse[cv] sofferto che dei brigands applaudissero in teatro La congiura dei Pazzi e La morte di Cesare (forse il Bruto secondo?). Ma c'ebbe la peggio. Napoleone lo costrinse a rappattumarsi col Melzi; e, profittando d'un nuovo suo congedo, lo trattenne presso di sè, nominandolo governatore di Parigi.

E per la causa italiana l'allontanamento di Murat fu una vera iattura. Eugenio e Giuseppe eran troppo ligi al re ed imperatore, e la loro principale virtù consisteva nell'obbedienza e nella remissione più completa. Valevan poco più di due mediocri prefetti. E quando, nell'agosto del 1808, a Gioacchino fu concesso di ripassare le Alpi, e d'assidersi sul trono di Napoli, era forse un po' tardi: così per lui, che vi tornava di malavoglia, dopo d'avere invano sperato il trono di Polonia e quello di Carlo V; come pei popoli, disingannati circa l'égalité dei fratelli transalpini, e stanchi, sfiduciati, esausti.

Pure, le festose accoglienze che i Napoletani fecero e a lui e poi alla regina, gli ridiedero lena. Benchè sfornito di una vera flotta, egli, improvvisato ammiraglio, scacciò con un audace colpo di mano gl'Inglesi, che s'eran nientemeno che appollaiati a Capri. E poco appresso, li sloggiò nuovamente da Procida e da Ischia. Represse, con inusitata energia, il brigantaggio politico negli Abruzzi e nelle Calabrie. E intanto iniziò un illuminato riordinamento delle amministrazioni civili e militari. Aprì scuole d'ogni genere, dalle universitarie alle primarie, e non solo nella capitale ma fin nei borghi delle provincie. Si circondò di ministri paesani, non conservando che due soli francesi. Oh dunque, era mai vero che laggiù, in quelle terre così benedette da Dio e così maltrattate dai governi (si pensava che il governo nazionale avrebbe cangiato stile!), quel cavalier che tutta Italia aveva onorato e ammirato, quel signor valoroso, accorto e saggio, veniva creando uno Stato liberale? Alla bella aurora, che annunziava il nuovo sole di libertà presto a sorgere di dietro la rutilante vetta del Vesuvio, i magnanimi pochi rivolsero sospirosi lo sguardo.

Ma codesto appunto inquietava Napoleone. Murat lascia châtrer le code, accarezza il clero, prodiga decorazioni, persino[cvi] fait des singeries pour Saint Janvier: cosa dunque egli macchina con quell'ambiziosa di sua moglie? Per tagliar corto con ogni loro velleità unitaria, un decreto imperiale del 17 maggio 1809 annette gli ex-Stati della Chiesa all'Impero; ma ne pone le milizie agli ordini del Re di Napoli. Murat vede chiaramente che così si vuol renderlo inviso agl'Italiani, e cerca di far comprendere ch'ei non si sente disposto alla parte di gendarme. Nasce intanto il Re di Roma, e Napoleone invita Carolina a esserne madrina. Non è possibile sottrarsi all'insidioso onore, e Murat accompagna la regina a Parigi; ma non aspetta il giorno del battesimo, e torna a precipizio, per riaffermare in modo solenne l'indipendenza sua e dello Stato napoletano. Il 14 giugno (1811) decreta «che tutti gli stranieri, i quali abbiano un ufficio civile nel Regno, sono obbligati a farsene cittadini non più tardi del prossimo 1º d'agosto». Napoleone, inviperito, contrappone al regio un decreto imperiale del 6 luglio: il Re di Napoli, essendo francese e messo sul trono dai Francesi, non può avere inteso di rivolgersi anche ai Francesi residenti nel Regno; chè anzi tous les citoyens français sont citoyens des Deux-Siciles! E richiede diecimila soldati per la guerra contro la Russia. Murat risponde risolutamente di non potere sfornire, senza certo pericolo, i presidii napoletani; ma quanto a sè, riman titubante se debba o no partire pel campo. Napoleone riscrive, facendo appello al suo cuore di soldato; e Murat si lascia vincere. S'incontrano a Danzica. Il maggiore dei due da prima rimprovera, poi s'intenerisce e apre le braccia al figliuol prodigo, che vi si getta commosso. La sera stessa, l'imperial commediante si vantò d'aver molto ben recitata la parte dell'imbronciato e del sentimentale; car il faut tout cela, disse, avec ce Pantalon italien. Soggiunse: «Au fond, c'est un bon coeur: il m'aime encore plus que ses lazzaroni...; il subit l'ascendant de sa femme, une ambitieuse: c'est elle qui lui met en tête mille projets, mille sottises; il en est a rêver la souveraineté de l'Italie entière». Sicuro; ed egli invece sognava la sovranità su tutta la terra! E il rêve di Murat era bello, dacchè collimava coi desiderii e con gl'interessi del paese; il suo era solo il delirio della perniciosa febbre, già[cvii] contratta dormendo, come diceva, nel letto dei re. Torna a singolare onore di Murat, che, regnando in Italia, amasse tanto i suoi lazzaroni da destare la gelosia dell'incoronato e cosmopolita sans-culottes!

In molti fatti d'arme di quella guerra disastrosa, l'insigne generale di cavalleria diè nuove prove del suo coraggio. Qualche episodio vale a richiamarci ancora a mente l'Adelchi. Narrano che, dinanzi a Semenowskoë, un reggimento francese fosse preso da panico sotto l'improvvisa gragnuola delle palle nemiche; e il colonnello stesse per ordinarne la ritirata, quando si vide addosso il Re. «Che fate?», gridò, prendendo l'ufficiale pel colletto. «Voi vedete», questi rispose mostrando il suolo coperto di feriti, «che qui non è possibile rimanere». - Eh! j'y reste bien moi! - E il colonnello, guardandolo ammirato: C'est juste! Soldats, face en tête! Allons nous faire tuer! - Sennonchè la fortuna era stanca d'assecondare le stolte avventure, e l'imperatore stesso si vide costretto a ordinare una ben più vasta ritirata. Il difficile comando ne fu dato proprio a quel generale, glorioso per le sue avanzate! Il quale, quand'ebbe ricondotto l'esercito presso che al sicuro sulla linea dell'Oder, volle, sordo a ogni scongiuro, tornare al suo regno. Napoleone lo fulminò con una nota del giornale ufficiale: l'esercito, disse, è affidato al viceré Eugenio; «ce dernier a plus d'habitude d'une grande administration; il a la confiance entière de l'Empereur». Murat doveva tenersi certo oramai che un nuovo trionfo dell'imperatore avrebbe segnato la sua rovina. E cominciò a pencolare verso la diserzione. Nella sua anima, un'ambizione regale degna di Macbeth s'infrangeva tra le oneste titubanze d'Amleto; e non riusciva a sospingerlo fuori degli scrupoli l'assillo della sua lady Macbeth. Ancora una volta accorse, in Germania, in aiuto di Napoleone, e gli rese segnalati servigi a Dresda e a Lipsia; ma ancora una volta, e fu l'ultima, le cattive notizie della Penisola ve lo richiamarono in fretta. I due antichi compagni d'armi si separarono con presaga tristezza.

Murat ripassò per Milano il 31 ottobre (1813). Eugenio, l'aborrito rivale, cedeva dinanzi agli Austriaci: se Napoleone[cviii] non avesse annientato gli Alleati con una delle sue più clamorose vittorie, questi avrebbero finito col riconquistare l'Italia. Ma il tempo di quelle epiche vittorie pareva finito per sempre. La sera del 4 novembre, Murat rientrava in Napoli; e pochi giorni dopo, avviava trentamila uomini per Roma e le Marche. Che cosa tentava? Per chi quegli uomini avrebbero combattuto? Metternich adopera promesse e minacce perchè Murat si accosti all'Austria: il Regno di Napoli gli sarebbe assicurato; anche gl'Inglesi vi si sarebbero acconciati. Ma il Re non sa rinunziare al sogno d'un regno d'Italia dalle Alpi ai tre mari; ed è convinto che, con l'Austria in casa, quel sogno non si sarebbe mai potuto tradurre in una realtà. I patriotti sono impazienti, e non sanno spiegarsi gl'indugi. Perché Murat non libera al vento il vessillo dell'indipendenza e dell'unità? I generali e i soldati dell'esercito di Eugenio non aspettano che quel segno per correre a lui, e parecchi battaglioni di volontarii son pronti a Bologna!... Il napoletano Amleto esita ancora. L'eroico gregario attende dal generale un cenno, per gettarsi nell'azione: non gioverebbe forse anche all'imperatore d'avere alle spalle e di lato un'Italia sgombera del secolare nemico? d'avere qui, dietro le Alpi, non più «volghi spregiati» ma un popolo «d'un sol voler, saldo, gittate in uno Siccome il ferro del suo brando», e tenerlo «in pugno come il brando»?...

Il momento propizio trascorre. Quando il Re si decide a varcare il Taro, il suo Rubicone, e ad assalire l'esercito d'Eugenio, è troppo tardi: tre giorni dopo, cessano le ostilità. E mentre il vinto imperatore è imbarcato per l'Elba, per quest'isola che egli, il generale Murat, aveva conquistata alla Repubblica Francese all'alba del 1º maggio 1801; il re Amleto rientra, il 2 maggio del 1814, nella capitale del suo piccolo Stato, scontento di tutti, e più ancora di sè stesso.

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