XX.

L'Italia tornava più serva e più derisa a gemere sotto l'orrida verga. Eppure, il glorioso fianco di tal madre non languiva infecondo; nè essa aveva le vene scarse del latte[cix] antico; nè nutriva figli a cui fosse grave per essa il sangue donar! Gli è che

eran le forze sparse,

E non le voglie; e quasi in ogni petto

Vivea questo concetto:

«Liberi non sarem se non siamo uni;Ai men forti di noi gregge dispetto,

Fin che non sorga un uom che ci raduni».

Quell'uomo volle esser Murat. Evaso dall'Elba il 26 febbraio del 1815, Napoleone era sbarcato tre giorni dopo, coi suoi Mille, sul suolo francese; e il 10 marzo, entrava in Lione. Il 15, Murat s'affrettava a dichiarare, per conto suo, guerra all'Austria; e il 17, mosse, alla testa di quaranta mila uomini, alla volta di Roma. Luigi XVIII e Pio VII si salvaron con la fuga. Mentre l'imperial cognato veniva accolto trionfalmente a Parigi, Murat invadeva le Marche; e il 30 marzo, da Rimini, dalle falde di quel monte Titano ch'è quasi simbolico baluardo di libertà e d'indipendenza, diffuse il magnifico proclama agl'Italiani, scritto forse da Pellegrino Rossi. Esordiva:

«Italiani! L'ora è venuta che debbono compirsi gli alti destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: l'indipendenza d'Italia!».

Gli stranieri han preteso di togliervela questa indipendenza, continuava; ma «a qual titolo signoreggiano essi le vostre più belle contrade?... Invano adunque levò per voi Natura le barriere dell'Alpi? Vi cinse invano di barriere, più insormontabili ancora, la differenza de' linguaggi e de' costumi, l'invincibile antipatia de' caratteri?».

[cx]

«No, no; sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d'oppressioni e di stragi.... Ogni nazione dee contenersi ne' limiti che le diè Natura. Mari e monti inaccessibili: ecco i limiti vostri.... Trattasi di decidere se l'Italia potrà essere libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio. La lotta sia decisiva, e vedremo assicurata lungamente la prosperità d'una patria sì bella, che, lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere....».

E lasciando intendere che i governi liberali d'Europa, soprattutto l'Inghilterra, avrebbero applaudito alla nobile intrapresa, Gioacchino concludeva giustificando le sue esitazioni dell'anno avanti.

«Italiani! Voi foste lunga stagione sorpresi di chiamarci in vano; voi ci tacciaste forse ancora d'inazione, allorchè i vostri voti ci sonavano d'ogn'intorno. Ma il tempo opportuno non era peranco venuto; non peranco avea io fatto pruova della perfidia de' vostri nemici, e fu d'uopo che l'esperienza smentisse le bugiarde promesse, di cui ne erano sì prodighi i vostri antichi dominatori nel riapparire tra voi. Sperienza pronta e fatale!.... Italiani! Riparo a tanti mali; stringetevi in salda unione; ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una costituzione degna del secolo e di voi, garantiscano la vostra libertà e proprietà interna, tosto che il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza. Io chiamo d'intorno a me tutt'i bravi per combattere. Io chiamo del pari quanti hanno profondamente meditato sugl'interessi della loro patria, a fine di preparare e disporre la costituzione e le leggi che reggono oggimai la felice Italia, la indipendente Italia».

La tanto attesa parola era dunque stata finalmente proferita! Le terre d'Italia risonaron di carmi: nella Romagna e nelle Marche, le canzoni di Giulio Perticari, di Dionigi Strocchi, di Francesco Cassi; nella Toscana e nel Lazio, di Francesco Benedetti e di Luigi Biondi; nel Napoletano, di Francesco Salfi, del colonnello Gabriele Pepe, di Gabriele Rossetti. Il quale, novello Tirteo, seguiva l'esercito:

[cxi]

Tirteo d'Italia chi sarà nel campo?

Son io, son io!....

O sol d'Italia, che sì vivo sfoggi

Tutta la pompa de' tuoi raggi ardenti,

Quanti qui siamo ci vedrai quest'oggi

Liberi o spenti!

Ai primi d'aprile, l'avanguardia napoletana sloggia gli Austriaci da Cesena, inseguendoli per Imola fino a Bologna, dove entra e aspetta il grosso della spedizione. Il 4, li ricaccia dietro la Samoggia e il Panaro, e occupa Modena; intanto che altre legioni prendon Ferrara, Cento, San Giovanni. Un passo ancora, ed invade Reggio e Carpi, e si spinge fino alla Secchia. Sospinto dalla sua «indole impetuosa» e dalla necessità di ottenere «sollecite vittorie», il re investe furiosamente il ponte d'Occhiobello sul Po; ma non riesce a passarlo. Quest'episodio sfortunato viene ad arte strombazzato come l'inizio della catastrofe. Tornato a Bologna, Murat vi apprende che la divisione mandata a sollevar la Toscana ha commesso irreparabili errori, e che gl'Inglesi minacciano Napoli. Di più, «le speranze ne' rivolgimenti d'Italia erano anch'esse svanite, perocchè», narra il Colletta, «gli editti e i discorsi del re non altro avean prodotto che voti, applausi, rime pubblicate, orazioni al popolo, ma non armi e non opere: si aprì registro di volontari, e restò quasi vuoto; i tenuti in prigione dai Tedeschi per colpe o sospetti di Stato, fatti liberi da noi, tornarono queti alle case, ammaestrati non irritati dal carcere». Al re comincia a mancar la lena; e il nemico ne profitta per assalire e riprender Carpi, e ricacciare i Napoletani di là dal Panaro. Il 15, sorprende e riguadagna Spilimbergo; e Gioacchino si ritrae dietro al Reno, dove ottiene ancora una vittoria. Ma oramai egli non pensa che a ritirarsi. Discende indisturbato a Imola, a Faenza, a Forlì, a Cesena; infligge una nuova sconfitta agli Austriaci sul Ronco; ma discende tuttavia a Rimini, a Pesaro,[cxii] a Fano, a Sinigaglia, e il 29 giunge ad Ancona. Gli eserciti son quasi al contatto, e nei primi di maggio, tra Macerata e Tolentino, avviene l'urto, che fu terribile e sanguinoso. Il re fece prodigi di valore, e si moltiplicò in quelle giornate decisive; ma fu sopraffatto. E lasciando al Colletta e al Carascosa la cura di trattare col generale nemico (ahimè! era un italiano anche lui, il Bianchi d'Adda!), egli quasi solo, e da privato, rientrò in Napoli, sull'imbrunire del 18 maggio. Fu però «dal popolo scoperto e salutato come re e come ancora felice». Andò alla reggia, negli appartamenti della regina, «e giunto a lei, l'abbracciò, e con voce ferma disse: La fortuna ci ha tradito, tutto è perduto!». Prepararono insieme la partenza, e si congedarono dai più fidi e più cari. Poi, «provvide co' ministri a molte cose di regno, ultime, benefiche, ricordevoli; fu sereno, discreto, confortatore della mestizia de' circostanti; ed a' Francesi che partivano ed ai servi che lasciava, liberale così come principe che ascende al trono».

Al Manzoni le notizie del rovescio giunsero mentr'egli intonava la quinta strofa della sua petrarchesca canzone. Invocato quel Dio che trascelse Mosè tra' giovinetti ebrei e lo fece duce e salvatore del suo popolo; che «all'uom che pugna per le sue contrade L'ira e la gioia de' perigli infonde»; il poeta, fiducioso, incuorava il baldo capitano:

Con Lui, signor, dell'itala fortuna

Le sparse verghe raccorrai da terra,

E un fascio ne farai nella tua mano....

Ma la parola gli fu stroncata sulle labbra. Pure, egli che condannò senza rimpianto tutta la sua opera poetica giovanile, non facendo grazia nemmeno al Carme per l'Imbonati lodatogli dal Foscolo e all'Urania invidiatagli dal Monti, volle conservato quel frammento; e non appena gli fu possibile, all'aurora delle belle «giornate del nostro riscatto», nel 1848, lo pubblicò insieme con l'ode Marzo 1821, e poi, nel 1860, lo aggiunse alle tragedie e agl'Inni sacri, nel volume già fin dal 1845 stampato delle sue Opere varie .[cxiii] Gli è che l'impresa tentata dall'infelice principe era, fra quante a lui parevan suscettibili di poema, quella che più faceva palpitare il suo cuore d'uomo, di cristiano, d'italiano, di poeta. Gioacchino, de' signori cui la sorte commise il freno delle belle contrade, fu il primo, e rimase lungamente il solo, che avesse coscienza dei doveri del principe e dei diritti del popolo italiano; fu il primo che rivolgesse l'animo a

Sanar le piaghe c'hanno Italia morta;

e consacrò col martirio il tentativo generoso. Fu una dannosa ubbia quella che consigliò tanti patriotti a non assecondarne lo sforzo. Se verso Napoleone ei poteva parer macchiato d'ingratitudine, toccava forse a noi, raggirati e disingannati dal geniale megalomane, di fargliene carico? Anche Manfredi svevo era accusato d'orribili peccati; ma così avesse vinto lui a Benevento, invece del nasuto paladino delle sacrileghe ambizioni teocratiche! Il Manzoni, checchè una critica partigiana sia venuta arzigogolando, riprese la grande tradizione poetica e religiosa di Dante; e non si peritò mai di manifestar tutta la sua più cordiale simpatia a principi che, per amore dell'unità politica, ritolsero a Pietro quel che è, e dev'esser, di Cesare. E la musa schifiltosa e sagace, la quale aveva assistito in silenzio al tripudio che accompagnò il singolare capitano sino ai fastigi d'ogni mondano potere, sciolse subito un cantico d'incitamento e d'encomio al baldo gregario che, pur contro il volere dell'arbitro supremo, s'accinse alla santa opera di ridarci una patria:

O delle imprese alla più degna accinto!....

E quel suo cantico, pur così monco, il poeta non permise che morisse.

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