XVII.

L'11 luglio [1814], il Manzoni riprese tra mani l'inno, che aveva lasciato alla seconda strofa, sulla Passione. Ne scrisse ancora due strofe; e lasciò di nuovo, e non lo riprese che il gennaio successivo, per nuovamente interrompersi e nuovamente riprenderlo nel settembre, e compierlo, finalmente, nell'ottobre. Decisamente le Muse pudiche si rifiutavano di dimorare in una città così ingombra di soldataglia esotica; e il poeta non le poteva ospitare in campagna, perchè le due sue ville v'eran divenute caserme!

Fra tanti danni, questo vantaggio ci fu di sicuro: che quando, pochi anni dopo, il romanziere imprese a descrivere i saccheggi e gli orrori che, due secoli prima, altre e più brutali soldatesche esotiche seminarono in quelle care borgate che s'inerpicano su pei monti o si nascondono nelle valli, intorno al San Martino e al Resegone, ei non ebbe a lavorar molto di fantasia! Quel Bellegarde secentesco e spagnolesco che fu Don Gonzalo, aveva anche lui protestato, in nome del suo re, «di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell'imperatore»; e il buon popolo ambrosiano, mentre le grandi potenze erano in armi per disputarsi la ghiotta preda, s'era anche allora sfogato con una sedizione, la quale, anche allora, non valse se[xciii] non a richiamare nuova marmaglia straniera; e allora pure, mentre l'un esercito ci stava sul collo, un altro, francese, era venuto a «inondare i nostri dolci campi». E poi, «mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando [II, d'Austria] si avvicinava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese». Codeste «truppe alemanne» eran guidate dal conte Rambaldo di Collalto, un condottiero meno incivilito del Bellegarde. Mal pagate, esse avevano già «desolata la Germania» sotto il comando del Wallenstein; e ora venivano, come uno sciame di cavallette, giù lungo «tutto il corso che fa l'Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po», e lungo un buon tratto di questo fino al Mincio. Il giorno che dalla Valsàssina quei demòni «sboccarono nel territorio di Lecco», che spavento per quella povera gente, e che danni!

«Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c'era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l'astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili; qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto».

Sono scene non solo verosimili, ma vere forse. I nipoti di quei lanzichenecchi il romanziere li aveva veduti, anzi avuti per casa! E aveva pur visto i nipoti di que' cappelletti, che mettevan nuova paura in corpo al già tanto impaurito don Abbondio. Chi non ricorda?

«Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata: ma si sapeva ch'era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva[xciv] costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, nè più nè meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano»

Sicuro: perchè anche il 29 giugno del 1814, il Bellegarde, per reprimere quel vero brigantaggio che i malcontenti d'ogni genere, soldati disertori e impiegati licenziati, esercitavano su larga scala in tutto il territorio e fin presso le mura di Milano, aveva dovuto mandare in perlustrazione uno squadrone di ottocento cavalieri; e quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini!

Oh non era punto un bel vivere a Milano, durante l'imperversare della reazione austriaca; ci si stava press'a poco come durante la guerra per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga! Il Bellegarde riferiva al suo imperatore che se la nobiltà, il clero, la popolazione del contado avevano conservato un certo attaccamento alla Casa d'Austria, le classi medie, i militari e gl'impiegati, le si dimostravano ostinatamente avverse: forse, diceva, la vicinanza di Napoleone e il contegno del Re di Napoli alimentano le loro segrete speranze. Un poliziotto mandato a posta da Vienna, il 26 giugno scriveva al suo governo: «Facendo nuove conoscenze, ho già dovuto rilevare con rammarico che noi Tedeschi siamo quasi generalmente odiati; vi assicuro che il malcontento eccede ogni limite, e che ci caccerebbero precisamente collo stesso piacere con cui ci hanno accolti or fanno sette settimane». Al Commissario imperiale occorreva procedere con una grande prudenza; la quale poi dava noia, come suole, ai reazionari arrabbiati, che gli mutarono il nome in Belletardi. Si buccinò anche d'una congiura militare, che per il 5 agosto doveva mettere a fuoco e fiamme tutta la Lombardia: le logge dei Frammassoni e le vendite dei Carbonari avevan tutto preparato, si diceva, per la proclamazione della Repubblica Italiana. Il Bellegarde sarebbe stato disposto a non prestar fede a simili fandonie; ma il Gabinetto[xcv] imperiale voleva indagare, avere liste di proscrizioni, reprimere esemplarmente. Alcuni cavalieri d'industria, un Comelli von Stuckenfeld e un Esquiron de St. Agnan, specularono su quella paura e pescarono in quel torbido. Il 5 agosto passa tranquillo; non importa, la sollevazione si seppe esser rimandata all'ottobre. Anche l'ottobre passò tranquillo; ma.... c'era stato un contrattempo. Finalmente, il St. Agnan fa il colpo; ruba alcuni documenti, e nella notte dal 3 al 4 dicembre consegna ai gendarmi il medico Rasori, l'avvocato Lattuada ed altri ardenti e imprudenti complici della terribile trama. Dell'inesorabile imperatore era alfin paga la «terribil ira!».

Fu una sconcia tragicommedia; ma che strazio assistere a un tanto avvilimento della patria, dopo tante illusioni e speranze!

E questa donna di cotanto lido,

Questa antica, gentil donna pugnace,

tornava a essere avvinta da

Genti che non vorrian toccarla unita,

E da lor scissa la pascean d'offese.

Povera, diseredata, avvilita e derelitta Italia!

Essa in disparte, e posto al labbro il dito,

Dovea il fato aspettar dal suo nemico,

Come siede il mendico

[xcvi]

Alla porta del ricco in sulla via;

Alcun non passa che lo chiami amico,

E non gli far dispetto è cortesia.

Sennonché, tra quella folla di sovrani, «tutti anelanti a farle oltraggio», ce n'era pur uno, a cui gli occhi dei patrioti si volgevano con desiderio e fiducia. Era, sì, nato di là dalle Alpi, ma la fortuna e la virtù militare gli avean posto in mano il freno delle più belle contrade della Penisola. Baldo, insofferente, generoso, perchè non avrebbe egli osato finalmente di proferir quella parola «che tante etadi indarno Italia attese?».

In te sol uno un raggio

Di nostra speme ancor vivea, pensando

Ch'era in Italia un suol senza servaggio,

Ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.

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