XVI.

Il 23 aprile, mentre a Mantova il principe Eugenio firmava una seconda convenzione militare, con la quale si consegnava all'Austria il territorio che già costituì il Regno d'Italia, «insino a che sarà conosciuta la sorte definitiva del paese»; qui a Milano i Collegi Elettorali formulavano l'indirizzo che i loro delegati dovevan presentare, in Parigi, agli Alleati. Vi chiedevano: «l'assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano; la maggiore estensione di confini del nuovo Stato; una Costituzione liberale...., che ammetta una rappresentanza nazionale a cui spetti esclusivamente formare le leggi...; un governo monarchico ereditario, primogeniale, ed un principe che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali che abbiamo sofferti durante l'ora cessato governo».

Ah sì! Il 26, l'avanguardia austriaca occupava Pizzighettone,[lxxxvi] e il commissario imperiale, generale marchese Annibale Sommariva lodigiano, giungeva a Milano, a «prendervi possesso, in nome delle Alte Potenze Alleate, dei dipartimenti, distretti, città e luoghi tutti che nel Regno d'Italia non sono ancora stati conquistati dalle truppe alleate». Il giorno stesso, la Reggenza provvisoria pubblicava un proclama al popolo, per esortarlo a ricevere «come veri liberatori» i soldati dell'Austria, «che hanno esposta la vita», diceva, «per la vostra salvezza»; e perciò «accoglieteli coll'ospitalità loro dovuta, aprendo loro le domestiche mura». E a buon conto insisteva, per paura di non esser frantesa: «La Reggenza, fidente nel carattere italiano e assicurata dalle intenzioni dei vostri liberatori, vi avverte che le loro truppe entreranno domani nella capitale, e che il debito e le circostanze esigono che alloggi privati siano posti a disposizione degli ufficiali».

Povero «carattere italiano»! Di buona o cattiva voglia, soprattutto di cattiva, bisognò schiuderle «le domestiche mura» a quelle sudice masnade di tedeschi e di boemi, di croati e di panduri. E anche al Manzoni toccò di vedersi invase, da quegli ospiti così poco gradevoli e graditi, la casa di città e le due di campagna: «un nuovo flagello»! La signora Enrichetta scriveva, il 24 maggio, alla cugina Carlotta:

«Ebbi i miei due bambini malati nei giorni scorsi.... La mamma anch'essa fu malata per un mese... Ora noi siamo ingombri di soldati. Le nostre case in città ed in campagna ne furono e ne sono ancora occupate, e non si sa troppo come bastare alla spesa».

Più tardi, il 26 luglio, la signora Giulia dava qualche nuovo particolare allo zio Michele:

«Ho avuto tanti malati in casa..... Sospiriamo tutti di andare in campagna, ma avevamo tutte le nostre case piene zeppe di soldati. Il nostro Lecco è

rovinato intieramente dal soggiorno di otto mesi di soldati, di donne e figli; anche adesso è tutta ingombrata. A Brusuglio avevamo quaranta soldati; ho ottenuto che partissero, perchè per la salute nostra, e massime d'Enrichetta che deve prendere i bagni, necessita la nostra andata colà. Difatto altro non occorrendo, vi andiamo domani. Le spese straordinarie e forzose di questo inverno ci hanno impedito di ultimare la nostra casa nuova; bisogna che abitiamo la vecchia in pessimo stato, perchè non ci conviene riadattarla. Qui fa caldissimo, Milano è piena di gente, perchè i militari vi formicolano...».

[lxxxvii]

E il 6 gennaio 1815, ritornati a Milano dalla villa di Lecco, soggiungeva:

«Grazie a Dio, si sono rimessi tutti [i bambini], mediante la buon'aria di Lecco; chè, a forza d'impegni, ci è stato permesso di andarvi; dico per impegni, giacchè la nostra povera casa era da un anno occupata intieramente da soldati, così che abbiamo dovuto far lavare tutta la casa, dai materazzi, e rimontar tutto, inclusivamente gli utensili di cucina, con una spesa non indifferente. Eravamo bene colà; ma dovemmo presto ritornare qui, perchè ci volevano occupare le nostre proprie stanze con alloggi; e notate che non ne abbiamo una che non ci sia necessaria. Venimmo dunque a Milano.... Alessandro è un po' affaticato per gli affari».

Disingannato anch'egli come i suoi generosi amici di Milano, Alessandro, in quell'angoscioso trambusto, tacque con gli amici lontani. Dopo la lettera del 24 aprile 1814, ei non riscrive al Fauriel fino al 25 marzo 1816. E quante cose non ebbe da osservare, e quante meditazioni non ebbe da fare, in quei due anni!

Il 28 aprile, l'avanguardia del Neipperg entrò in Milano, alle 4 del pomeriggio, da porta Romana. Una doppia fila di circa ottocento militi della Guardia Civica, «armati e ben montati», faceva ala. Le milizie austriache, cenciose e polverose, sfilarono a suon di musica, tra un silenzio reso più solenne e significativo dagl'isolati evviva interessati o prezzolati. Si sperava ancora che quella soldataglia un giorno o l'altro sarebbe dovuto sloggiare; e si sollecitava perciò la decisione delle Potenze Alleate.

I delegati dei Collegi Elettorali erano in via. Il primo a giungere a Parigi fu il Confalonieri, che aveva compiuto in sei giorni (un tempo che parve assai breve) il viaggio. Era lui il Beccaria. Le notizie che potè raccogliere non furon molto confortanti. Pare che allora gli sorridesse l'idea d'una Confederazione degli Stati italiani, stretta intorno alla dinastia di Savoia, «già la più forte dell'Italia nordica»; rinunziava[lxxxviii] per suo conto anche al piacere di conservar la capitale a Milano. Ma c'era ben altro a cui quei generosi avrebbero dovuto rinunziare! Gli altri delegati tardavano: il Trivulzio e il Sommi giunsero il 3 maggio, il Litta e il Somaglia, il 4; il conte Fè, che fu l'ultimo, il 13. Fin dal 3 maggio il Confalonieri scriveva intanto alla moglie: «Il Veneziano e la Lombardia sono assolutamente devoluti all'Austria: possa questa corona esser posta sulla testa d'un principe da sè, e i nostri voti avranno esito; ma l'orizzonte su di ciò mi fa tremare!». E il giorno appresso: «L'Austria è l'arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini.... Non trattasi più di domandare alle Alleate Potenze: Costituzione libera, indipendenza, regno ecc. ecc.; trattasi d'implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare!».

Pure, essi intrapresero con coraggio la via crucis. Chiesero ed ottennero d'esser ricevuti, il giorno 7, dall'imperatore Francesco. Il quale dichiarò, con decantata benevolenza: «Voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista; vi amo come miei buoni sudditi, e come tali niente mi starà più a cuore della vostra salvezza e del vostro bene». E non volle sentir parlare di condizioni o di concessioni; e quando uno dei delegati si lasciò sfuggire il nome di Regno Italico, il delicato sovrano interruppe: «Regno Italico no, perchè io non spingo le mie mire a quel che dev'esser d'altri!». - Metternich fu, se fosse stato possibile, anche più esplicito. - L'imperatore Alessandro fece sapere che li avrebbe ricevuti solo come illustri italiani, non potendo loro riconoscere nessuna veste ufficiale; e li congedò, dopo un discorsetto sul bel paese e sul bel tempo, ringraziandoli d'avergli procurato le plaisir de faire votre connaissance individuelle. - Il ministro di Prussia, Guglielmo di Humboldt, fece intendere abbastanza chiaramente che al suo paese non dispiaceva che l'Austria s'ingrandisse in Italia, lasciando così alla Prussia il modo d'allargarsi in Germania. - Rimaneva un'ultima speranza, nel Gabinetto Inglese; e la Reggenza, da Milano, spingeva i Delegati a quest'ultimo passo, con la fiducia della disperazione. Gli ammiragli e i generali inglesi, venuti in Italia, s'eran tanto piena la bocca di libertà e di[lxxxix] costituzioni liberali!.... Ma lord Aberdeen e il visconte di Castlereagh osservarono che a godere il benefizio delle istituzioni inglesi bisognava esser già preparati; e l'Italia non lo era, tanto che in Sicilia la Costituzione aveva fatto cattiva prova; si rassegnasse perciò la Lombardia al governo dell'Austria, che a buon conto non era più la Francia, che anzi era ottimamente disposta a far la felicità degl'Italiani!

Intanto, l'8 maggio, era entrato in Milano, con altri dodici mila uomini (a cui ne seguirono subito altri cinquemila), il maresciallo Bellegarde, investito, com'egli proclamò, «di pieni poteri nelle provincie del Regno d'Italia ora distrutto, e già appartenenti alla Lombardia austriaca»: questo richiamo storico non era inopportuno! Nello stesso giorno, il conte Bubna entrava in Torino come governatore militare del Piemonte, alla testa di altre milizie austriache. - Una commissione dei Collegi Elettorali, con a capo il presidente Giovio, si presentò al Bellegarde per raccomandargli: «Voi tanto vicino al monarca, che con tanta gloria siede sul trono di Carlomagno e degli Ottoni, dovete esser nostro intercessore presso le Potenze Alleate, e procurare al nostro paese l'indipendenza garantita da savie leggi e da un principe che meriti le benedizioni di noi tutti». Ma se il Maresciallo non pensava ad altro!... Che cosa essi intendevano per indipendenza?...

Il 13 maggio, monsignor Rivarola plenipotenziario di Pio VII entrava in Roma, a prepararvi l'arrivo di Sua Santità, che n'era scappato la notte del 6 luglio 1809. - Il 17, sbarcò a Genova, proveniente dalla Sardegna, Vittorio Emanuele I; e, a riceverlo come sovrano, si trovò quel medesimo lord Bentinck, che aveva destate tante speranze repubblicane. - E tra il 17 e il 20, il commissario imperiale conte Strassoldo prese possesso, in nome di Maria Luigia, dei già dipartimenti di Parma, Piacenza e Guastalla. - Il 22, giunse a Milano un messo del Confalonieri, ad avvertire la Reggenza che le Potenze avevano oramai deciso circa la nuova configurazione politica della Penisola. - Il 25, vi si videsu per le cantonate il primo avviso in cui ricomparve l'aquila bicipite. - Il giorno dopo, venivan disciolti i[xc] Collegi Elettorali, soppressi il Senato e il Consiglio di Stato. Fu conservata la Reggenza, ma decapitata dell'unico liberale, il Verri: il Commissario imperiale ne assunse egli la presidenza! - Così, dopo solo nove anni di vita, promettente se non rigogliosa, era trucidato il bello italo regno. Quella gente che si era creduta risorta, veniva scissa nuovamente in volghi spregiati,

E, a ritroso degli anni e dei fati,

risospinta ai prischi dolor.

Il 12 giugno, i banditori del comune percorrevano Milano annunziando, nei crocicchi, a suon di tromba, essere i Lombardi sudditi dell'Austria, in forza del trattato di pace concluso a Parigi il 30 maggio, tra S. M. Francesco I ed i suoi alleati. Il Maresciallo proclamò: «Popoli della Lombardia! Una sorte felice vi è destinata! Le vostre provincie sono definitivamente aggregate all'Impero d'Austria. Voi rimarrete tutti uniti ed egualmente protetti sotto lo scettro dell'augustissimo imperatore e re Francesco I, padre adorato dai suoi sudditi, sovrano desideratissimo dagli Stati che godono la felicità di appartenergli». Sarebbe stato più prudente aspettare che i nuovi sudditi esprimessero spontaneamente una tanta gioia; ma il Commissario si dichiarava così sicuro d'interpretarne fedelmente i sentimenti!.... «Noi siamo convinti», egli soggiungeva, «che gli animi vostri saranno pieni di gioia nel contemplare un'epoca felice del pari che avventurata, e che la vostra riconoscenza trasmetterà alle remote generazioni una prova indelebile della vostra devozione e fedeltà!». L'Italia, dunque, riconquistava, come non riconoscerlo?, la tanto desiderata indipendenza: non voleva essa forse l'indipendenza.... dalla Francia? Ah l'ipocrisia diplomatica!

Il 13, in tutte le chiese della città e del suburbio, fu cantato - e fin dall'alba intermittenti colpi di cannone chiamarono i fedeli al sacro rito - un solenne imperial Te Deum. La sera dopo, al teatro della Cannobiana, «fu dato per tema», narra il Mantovani, «ad un improvvisatore La battaglia di Lipsia. Verseggiando egli, come doveva, in lode degli Alleati, sorse un forte susurro, ed in mezzo ai fischi non si[xci] lasciò continuare. Il teatro fu sgombrato per ordine superiore». Il diarista soggiunge, accorato: «Pessimi preludii!». Certo, non era per rinato amore al vinto di Lipsia; ma al governo austriaco conveniva di crederlo. E fece correre e diffuse le più sconce ed ingenerose satire e caricature del paventato coatto dell'Elba; e s'affrettò a cancellare, in città, le orme del vincitore di Marengo, ribattezzando quello che già fu, ed è tornato, Foro Bonaparte, e quella che era stata chiamata Porta Marengo ed ora è Porta Ticinese, e la Contrada della Riconoscenza ora Corso Venezia, e la Piazza del Tagliamento ora Piazza Fontana. Benchè incatenato, e in gabbia, il leone metteva paura.

Anche la casa mezzo guasta del Prina dava fastidio per le memorie che destava: la sorte che ieri toccò a quel ministro, sarebbe potuta domani toccare ad altri; non c'è forse l'epidemia o la suggestione dei ricordi? E fu deciso di ampliare e regolare la Piazza San Fedele; che voleva dire spazzar via, coi rottami, ogni segno visibile della rivolta. Il 25 maggio, fu pubblicato il primo avviso d'asta per la demolizione; il 6 giugno, il secondo: e furon subito iniziati i lavori. Il 26 luglio, la madre del Manzoni scriveva allo zio Michele:

«Sono appresso a formare una piazza, atterrando la casa del fu ministro delle Finanze: siccome questa è nelle nostre vicinanze, così ve ne parlo».

[xcii]

Oggi, nel bel mezzo della tranquilla piazzetta; con la fronte rivolta a quella che fu la casa degl'Imbonati e poi dei Blondel, e che ospitò dal 1830 al 1834 Massimo d'Azeglio, e ora è il Teatro Manzoni; sorge la statua del grande poeta, opera egregia del Barzaghi, inaugurata il 22 maggio 1883, dieci anni dopo la morte. Dietro, è la chiesa di San Fedele, dove il vecchio venerando si trascinava tutte le mattine; al lato destro, il palazzo del Comune; al sinistro, lo sfondo di quella che fu la casa del Prina, ove poi, nel 1848, dimorò Giuseppe Mazzini. «Ah!», esclamerebbe forse anche qui don Abbondio, «se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male....; ma guarire, ve'!».

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