XXIII.

Non posso indugiarmi qui a rilevare quant'altro il Manzoni, nelle sue tragedie, può aver derivato dallo Schiller, e in che modo e in quali limiti ha seguito gli esempii del Goethe e i modelli di quello Shakespeare, che ai suoi occhi diveniva via via sempre più immenso. Tramontarono, nella sua ammirazione, e Monti, e Alfieri, e Schiller; ma l'altissimo tragediografo ascendeva sempre. E di lui egli avrebbe[cxxxiv] potuto ripetere quel che il curato amico di Don Chisciotte disse dell'Ariosto: «lo pondré sobre mi cabeza!».

Questo ed altro spero di fare la prossima volta. Per ora, poichè «piene son tutte le carte Ordite a questa cantica seconda», soggiungerò alcune poche note, a compimento delle iniziate o accennate dianzi.

Negli appunti di critica, il Manzoni asseriva che la teoria del nuovo genere drammatico, pur da lui preferito, era «negli scritti del signor Schlegel, di mad.ᵉ di Stäel, del signor Sismondi, nel Discours des préfaces premesso alla traduzione di Shakespeare»: sono i libri medesimi che mettevan tanto scompiglio nella fantasia del povero Pellico. E continuava: «dei tratti nuovi e luminosi se ne trovano pure in varj recentissimi scritti di nostri Italiani, principalmente negli estratti ragionati di opere drammatiche che stanno nel Conciliatore». Codesti estratti, o ristretti con osservazioni critiche, eran dovuti in parte a Ermes Visconti, al De Cristoforis, a Giuseppe Niccolini, al Berchet; ma soprattutto al Pellico. Il quale nel «foglio azzurro» del settembre 1818 aveva dissertato, con larghezza d'idee nuova tra noi, dell'Alfieri e del Corneille, del Voltaire e del Racine, del Cervantes e dello Shakespeare; e nei numeri del febbraio e dell'aprile del 1819, del Philippe II di Giuseppe Chénier, comparandolo al Don Carlos di Schiller e al Filippo di Alfieri, dell'Henri VIII e del Charles IX del medesimo poeta, e della Maria Stuarda di Schiller, toccando dei Masnadieri, della Vergine d'Orléans, del Wallenstein. Il critico vi proclamava con giovanile baldanza:

«Le sane regole in ogni arte vanno sentite e trovate da per sè colla potenza dell'intelletto, e non ricevute ciecamente per tradizione. Tale era l'opinione di Schiller, e quindi risultò che in ciascuno de' suoi poemi egli sempre calcasse una nuova strada. Non solo non è vero che per giungere al bello si debba porre servilmente il piede sovra orme[cxxxv] già segnate; ma è anzi irrefragabile che ogni soggetto che un poeta assume a trattare deve essere condotto con leggi particolarmente proprie; perchè se l'ingegno umano, simile alla natura, nulla crea mai d'identico ad alcuna opera già esistente, identiche non potranno mai essere le regole da seguirsi nelle diverse creazioni».

Giustissimo; ma non è da tutti lo scoprire e il calcare nuove vie, nè basta a ciò la sola buona volontà. E quando il Pellico riuscì con uno sforzo a staccarsi dalla via consolare, andò subito a cascare in altre, aperte e inaugurate più di recente. Insieme con lo Schiller e con lo Shakespeare, uno dei suoi modelli preferiti fu Giuseppe Maria Chénier. Il quale, come si sa, aveva voluto essere, sul teatro tragico, l'epigono di Voltaire: la rivoluzione e l'epurazione che questi aveva compiuta nel campo morale e religioso, egli intese ad attuarla nel campo politico. Così che in una Epître aux manes de Voltaire si vantò:

Tes succès de bonne heure ont agrandi la scène.

Plein d'amour pour la gloire, avec moins de talens,

Voltaire, ainsi que toi, dès mes plus jeunes ans

J'offris des voeux à Melpomène.

Les obstacles nombreux ne m'ont point arrêté;

J'ai voulu rappeler la Melpomène antique;

Et dans les premiers jours de notre liberté,

J'attachai sur son front, avec quelque fierté,

La cocarde patriotique.

E l'Epistola, che l'enfatico poeta aveva pubblicata nel 1790 in fine della sua prima ed anche più famosa tragedia, Charles IX ou l'école des rois, era andata molto ai versi del Pellico; che nel Conciliatore del 7 febbraio 1819 scriveva:

«La sua Epistola a Voltaire è uno dei poemi che, dal 1800[?] in poi, sono stati accolti in Francia con maggiore applauso: essa fruttò all'autore un decreto di destituzione, e un'infinità di mercenarie invettive in tutti i fogli periodici; ma queste, come sempre avviene delle persecuzioni, non diedero fuorchè un più vivo risalto al perseguitato».

Il futuro narratore delle Mie Prigioni sentiva ribollirsi in petto quei medesimi spiriti impazienti di libertà; e non lesina[cxxxvi] davvero la lode al poeta che Beniamino Constant giudicava «le plus beau talent de son époque, comme auteur dramatique». Si esalta quando, nel Charles IX, l'ode, con accento alfieriano, inveire contro i tiranni di diritto divino, e, nel Caio Gracco, levare il grido, contro la non meno abbominevole tirannia della plebe ubriaca, Des lois et non du sang!; quando, nel Timoleone (1794), ne ascolta l'alfieriana protesta contro i nuovi decemviri del Terrore, e, nel Tiberio (1810), lo vede disegnare «coi tratti più veri l'uomo, di cui tutti guardavano l'immagine venerandola o tremando». Eppure, un così ardente rivoluzionario nelle idee politiche era perseverantemente stato, com'ebbe a notare il Constant, «le partisan le plus zélé de toutes les entraves léguées par Aristote et consacrées par Boileau». Ma non fu tale anche il liberissimo Alfieri? Anzi, non anche il Foscolo, pur sospettato di aver voluto coll'Ajace alludere, nel carattere del protagonista «all'esilio del generale Moreau, e nella spregiata santità di Calcante alle sciagure di Pio VII, e nell'ambizione d'Agamennone alla fraudolenta onnipotenza di Napoleone»? E forse appunto lo Chénier fornì al Pellico l'esempio di quell'improvvisa tirata lirica di Paolo, nella Francesca, ch'è un anacronismo storico e una stonatura artistica.

Nella 1ª scena dell'atto III del Charles IX, a un certo momento, Le Chancelier de l'Hôpital esce in queste profetiche esclamazioni:

Quel exemple aux mortels qui portent la couronne!

Laissons faire le temps; à la grandeur du trône

On verra succéder la grandeur de l'état:

Le peuple tout-à-coup reprenant son éclat,

[cxxxvii]

Et des longs préjugés terrassant l'imposture,

Reclamera les droits fondés par la nature;

Son bonheur renaîtra du sein de ses malheurs:

Ces murs baignés sans cesse de sang et de pleurs,

Ces tombeaux des vivans, ces bastilles affreuses,

S'écrouleront alors sous des mains généreuses:

Aux princes, aux citoyens imposant leur devoir,

Et fixant à jamais les bornes du pouvoir,

On verra nos neveux, plus fiers que leurs ancêtres,

Reconnaissant des chefs, mais n'ayant point de maîtres:

Heureux sous un monarque ami de l'équité,

Restaurateur des lois et de la liberté.

Non è chi non veda come qui sia chiaramente vaticinata la distruzione della Bastiglia,... ch'era già avvenuta: e l'avevano, con ingenuo entusiasmo, di cui più tardi ebbero a pentirsi o ad arrossire, celebrata Andrea Chénier e il suo amico Vittorio Alfieri. Codesti versi rappresentano appunto la coccarda patriottica, che il più giovane ma non meno audace fratello di Andrea aveva attaccata, nei primi giorni della libertà, in fronte alla vecchia Melpomene. «Non pas en composant la[cxxxviii] tragédie de Charles IX, qui était faite depuis long-temps», dichiara egli stesso in una nota, «mais en ajoutant au rôle du Chancelier de l'Hôpital seize vers où il prédit la révolution».

Ora, anche il Manzoni aveva molta stima pel teatro nazionale dello Chénier; benchè non mancasse di fare le sue solite acute riserve circa una pretesa moralità, peculiare alle opere tragiche. Osservava a proposito della frase, sovente ripetuta, «Entrambi hanno fatto il loro dovere», che essa muove dall'assurda supposizione che, in molti casi, a due persone possano incombere doveri contrarii su uno stesso soggetto.

«Si osservino tutti questi casi, e si vedrà che i due doveri supposti sono fondati su opinioni speciali e temporanee, su istituzioni ecc., e che si dimentica sempre il fine che si deve cercare nella determinazione da prendersi dalle due persone. Ora, il fine giusto non può essere che uno. Esempio: la scena, per tanti rapporti bellissima, del Tiberio di Chénier, nella quale Cneo implora Agrippina perchè desista dall'accusare Pisone padre di Cneo. Agrippina risponde che il dovere suo è di accusarlo e di perderlo, e il dovere di Cneo di far tutto per salvarlo. Questo sentimento è falso, perchè due tendenze opposte non ponno essere egualmente buone o giuste. Ora, donde viene il falso in questo caso? Dall'essersi il poeta applicato puramente ai rapporti personali delle due parti, alla sorte di Pisone e alla vendetta di Germanico, e dall'aver dimenticato la verità e la giustizia, e il fine per cui sono istituite le accuse, le difese, i tribunali e i giudici: il qual fine è tutt'altro che di dare occasione ai parenti d'un morto di vendicarlo, e di mostrarsi sensibili alla sua perdita, e di dare occasione ad un figlio di salvare suo padre».

[cxxxix]

S'intende, siffatte osservazioni e obiezioni particolari non menomavano, nel concetto del Manzoni, il merito singolare dello Chénier; ch'era d'aver cercato i soggetti delle sue tragedie nella storia nazionale del suo paese, e d'aver affidata al teatro una missione politica. Risonava ancora nel mondo latino l'esclamazione sospirosa (unica ciambella gustosa dell'infornata poetica d'un Clément avversario di Voltaire!):

Qui nous délivrera des Grecs et de Romains?

che pare il grido di sommossa provocatore del romanticismo, a cui un Berchoux, detto le gastronomique, aveva accodato:

Race d'Agamennon, qui ne finis jamais!...

E un Du Belloy, mezzo fallito imitatore del Metastasio, aveva avuto fortuna con drammi sgangherati, quali Le siége de Calais (1765), Gaston et Bayard (1771), Gabrielle de Vergy (1777); ma Pierre le Cruel aveva finito col togliergli credito, così per l'atrocità macabra e nauseante dell'azione, come perchè la povera storia vi era più che mai bistrattata e vilipesa. Tuttavia l'incanto mitologico o semileggendario era rotto; e il pubblico francese aveva chiaramente dimostrato la sua propensione per i soggetti nazionali. Giuseppe Chénier trasse profitto da queste buone disposizioni. I tempi eran mutati, ed ora era permesso ciò che non sarebbe stato nè a Corneille nè a Voltaire. «Les malheurs de la France», scrive lo Chénier nel Discours préliminaire al Charles IX, del 22 agosto 1788, «occasionnés presque toujours par la faiblesse des rois, par le dispotisme des ministres et l'esprit fanatique[cxl] du clergé, auraient nécessairement rempli de véritables pièces nationales. Le gouvernement n'était point assez raisonnable pour les permettre, et les Français n'étaient pas encore capables de les sentir». E poichè «les hommes supérieurs font marcher l'esprit humain: sans eux, il resterait immobile»; lo Chénier si propose di fare o di compiere quanto Corneille e Voltaire avevano lasciato o intentato o a mezzo.

L'attingere alla storia nazionale era, in fondo, un tornare alla grande e genuina tradizione greca: i modelli rimanevano ancora Eschilo e Sofocle. «Souvent, en faisant parler les fameux personnages des tems passés, le poète insérait dans sa pièce des détails relatifs aux tems présens. L'Oedipe à Colonne, entre autres, est plein d'allusions à la guerre du Péloponèse». Da ciò i versi profetici del Charles IX, e, più tardi, dietro quell'esempio, l'uscita lirica e carbonaresca della Francesca da Rimini.

Da ciò pure, ma non solamente da ciò, l'idea del Manzoni di mettere in tragedia un episodio della nostra storia, durante il brutto tempo in cui l'antico valore italico era malamente sprecato in guerre fratricide; e l'altra, di lumeggiare, nei suoi aspetti più reconditi e commoventi, una delle più interessanti fra quelle lotte d'invasori donde derivò tanto danno e tanta vergogna al bel paese. Non era possibile, nè l'avrebbe voluto il poeta, che la storia contemporanea non facesse capolino di tra la rappresentazione de' fatti più antichi. Questi il poeta li sceglieva lui: e non è un caso se, per esempio, nella discesa di Carlomagno in Italia, egli riproducesse quella più recente di Napoleone; e nella morte dell'innocente Carmagnola quella, così drammatica, di Gioacchino Murat; e le generose idee di questo principe egli prestasse un momento al suo diletto Adelchi. È vero che, andando avanti nella composizione dei suoi drammi, il Manzoni cercò di rimanere sempre più fedele al vero storico, così da immaginare i Cori, soltanto «destinati alla lettura», per riserbarsi «un cantuccio» dove «parlare in persona propria». Ma neanche allora riuscì del tutto a vincere «la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti», a evitare insomma un «difetto», ch'è «dei più notati[cxli] negli scrittori drammatici». Gli è che i suoi drammi erano stati concepiti con un intendimento alquanto diverso; e questo, nel primo getto, vien fuori con balda schiettezza.

Adelchi, in quegli abbozzi, è Murat: o meglio, è il principe ideale, che vagheggia la redenzione e l'unità d'Italia. Egli parla come soltanto Murat aveva osato, fino allora, parlare. Al fedele Anfrido diceva (III, I; pag. 132):

Affiderà. Poni che, al novo grido

Del conquiso Adrian, Carlo non torni,

E in altro campo non ci colga. Il poco

Sforzo di Toschi e di Campani, e gli altri

Miseri avanzi del poter Latino

Che il pontefice aduna, e a cui dal tempio,

Sedendo, orando, colla man comanda

Di ferro ignuda, svaniranno incontro

Tutta Longobardia, guidata, ardente,

Concorde, anche fedele, allor che a certa

E facil preda la conduci. Il voto

Di età tante fia pago, e Italia intera

Nostra sarà. Dì, non è questo il mio

Avvenir più ridente?...........

....Oh mi parea,

Pur mi parea che ad altro io fossi nato,

Che ad esser capo di ladron; che il cielo

Su questa terra altro da me volesse

Che, senza rischio e senza onor, guastarla.

E già prima (I, 2; pag. 123-25) aveva ammonito il padre (il quale rimane inesorabilmente sordo: proprio com'era stato Napoleone!) che

steril mai

D'un popolo il desio non è del tutto;

e ventilato il disegno di proclamar liberi i Romani, raggruppando tutta l'Italia in un unico regno.

[cxlii]

Là dove, nella tragedia a stampa, è rimasto sol questo cenno fugace (I, 2; pag. 25):

Desiderio

....... Havvi altra via di scampo

Fuorchè l'ardir? Tu, che proponi alfine?

Adelchi

Quel che, signor di gente invitta e fida,

In un dì di vittoria, io proporrei:

Sgombriam le terre de' Romani; amici

Siam d'Adriano: ei lo desia;

era, nell'abbozzo, esposto un magnifico programma di libertà, che s'appuntava in queste fatidiche parole (p. 123-25):

Togliamo i ceppi

Da quelle mani, e rendiam loro i brandi.

Siamo i lor capi, o padre. Ardua è l'impresa,

Sì, ma d'onor, ma di salute è piena,

E di pietà. Dell'itala fortuna

Le sparse verghe raccogliam da terra,

Il fascio antico in nostra man stringiamo:

Dei vincitori e dei soggetti un solo

Popol facciamo, una la legge, ed una

Sia la patria per tutti, uno il desio,

L'obbedienza, ed il periglio.

C'è bisogno di ancor richiamare i versi, con cui termina il frammento sul Proclama di Rimini: «...dell'Itala fortuna Le sparse verghe raccorrai da terra, E un fascio ne farai nella tua mano....»? Dei quali è solo rimasta un'eco nell'ultima stesura della tragedia, nelle angosciose esclamazioni di Adelchi (III, 1; p. 55):

Il mio nemico

Parte impunito; a nuove imprese ei corre:

... ei che su un popol regna

D'un sol voler, saldo, gittato in uno,

Siccome il ferro del suo brando; e in pugno

Come il brando lo tiensi.

E questi versi eran, con poco divario, pur nel primo getto (pag. 126-27):

Oh quante volte invidiai codesto

Carlo che abborro! Ei sovra un popol regna

D'un sol voler, saldo, gittato in uno

Siccome il ferro del suo brando, e in pugno

Come il brando lo tiene.

[cxliii]

Dove però l'accoramento del protagonista era meglio compreso e diviso dal lettore, che ne conosceva i magnanimi disegni.

E quando, nel Carmagnola (V, 4; pag. 256), il Manzoni fa prorompere l'imprigionato capitano nel solenne e malinconico addio alla vita, la quale portava via con sè le illusioni più dolci e i più inebrianti entusiasmi che gliela rendevano cara:

O campi aperti!

O sol diffuso! o strepito dell'armi!

O gioia de' perigli! o trombe! o grida

De' combattenti! o mio destrier! tra voi

Era bello il morir....;

noi possiamo bensì osservare che il poeta si è in buon punto ricordato (e come sottrarsi al fascino fatale?) del consimile addio di Otello (III, 3; v. 347 ss.):

O, now, for ever

Farewell the tranquil mind! farewell content!

Farewell the plumed troop, and the big wars,

That make ambition virtue! O, farewell!

Farewell the neighing steed, and the shrill trump,

The spirit-stirring drum, the ear-piercing fife,

The royal banner, and all quality,

Pride, pomp and circumstance of glorious war!....

e fors'anche dell'altro che il Goethe, variando qua e là questo di Otello, aveva messo in bocca a Egmont, pur lui languente in attesa del supplizio (V, 2); ma non dobbiamo trascurar[cxliv] di riflettere altresì che quei tristi pensieri e quelle sospirose parole, o «di tal genere, se non tali appunto», il poeta contemporaneo di Napoleone deve aver facilmente immaginato che saranno passati per la mente o fiorite sul labbro dell'eccelso coatto di Sant'Elena. E che è insomma, nel Cinque maggio, quella magnifica e icastica rievocazione del grande, che

al tacito

Morir d'un giorno inerte,

Chinati i rai fulminei,

Le braccia al sen conserte,

sta pensoso sulla «breve sponda», come un naufrago sbattuto e quasi sopraffatto dal flutto incessante e sempre più minaccioso delle memorie dei giorni irrevocati, se non una stupenda variazione lirica di quel medesimo motivo spuntato nei soliloqui di Otello, di Egmont, del Carmagnola? Gli è che anche la poesia altrui, perchè un altro grande poeta possa degnamente imitarla e rinnovarla, occorre ch'ei la risenta in sè medesimo o nel personaggio che intende ritrarre. E del resto, pur senza pretendere a poeti, quando in certe occasioni ci corrono spontanei sul labbro certi versi di grandi poeti, non è forse perchè essi ci paiono davvero la voce commossa e ispirata di quei momenti e di quelle situazioni? Sunt lacrymae rerum!

Così pure, è naturale che le scene, in cui il Manzoni ci fa assistere ai crudeli momenti che precedettero la morte del generoso e gentile Condottiero, ci facciano ripensare, chi le abbia familiari, a quelle, più ampie e fino un po' spettacolose, che il Goethe immaginò e descrisse per Egmont; ma[cxlv] non sarà senza interesse avvertire che, nel distenderle, al poeta può essersi affacciata, come accennavo dianzi, la cara e dolorosa figura del principe da lui celebrato nella canzone del 1815, così miseramente spento al Pizzo. Quella tenerezza d'affetti domestici la quale, nell'ultimo atto della tragedia, rigurgita dal cuore del Carmagnola, che si sarebbe potuto sospettare indurito al sole dei campi, il poeta non potè desumerla dalla storia. La quale è restia a commuoversi per siffatti sentimenti, e a registrare cotali particolari. Invece, quella intima affettuosità era una delle caratteristiche, e forse la più simpatica, di Murat; che nel fondo dell'animo, di sotto all'immane congerie delle ambizioni napoleoniche, era sempre rimasto il buon contadino del Quercy. Fin nelle lettere semiufficiali che, nelle varie sue missioni, veniva scrivendo all'imperiale cognato, egli trovava modo, dopo le gravi informazioni politiche e i rapporti militari, d'aggiungere, per esempio, un poscritto sulla felice dentizione del suo primogenito. Nel maggio 1801, scrive da Firenze: «Achille est charmant; il a déjà deux dents». E quando, fallitagli l'avventura unitaria, fu costretto a errare come un bandito, povero re Lear!, per il littorale e le campagne che si stendono tra Cannes e Tolosa, egli, più che di altro, si mostra travagliato dal sospetto che la moglie possa averlo abbandonato e tradito. Al generale Manhès, suo amico superstite, scrive:

«J'avais tout souffert: la perte de ma fortune, la perte de mon royaume, et quel royaume! Mais me voir trahi, abandonné par la mère de mes enfants, qui préfère se livrer à mes ennemis plutôt que de se réunir a moi,...non..., je ne résisterai pas à un pareil coup. Quelle infortune que la mienne! je ne reverrai plus ma femme, je ne reverrai plus mes enfants!».

[cxlvi]

Si buccinò che Murat s'avventurasse alla temeraria impresa dello sbarco in Calabria coi pochissimi fidi, perchè ingannato dalla polizia borbonica. Gli si tese un tranello, ed egli, sempre avventato, vi si gettò dentro. Forse si esagerava; ma anche codesta voce, che il guerriero magnanimo si lasciasse abbindolare dalle subdole arti d'un governo vile e tirannico, potrebbe esser valsa a far ravvicinare i casi del prode figliuolo del mandriano piemontese a quelli del non men prode figliuolo dell'agricoltore dell'alto Quercy. E comunque, il Murat, appunto come il Carmagnola, cadde o s'andò a porre nelle mani dei suoi nemici, incapaci d'un sentimento generoso, per un'eccessiva fiducia in sè stesso e nella fedeltà altrui. Ma accerchiato e rinchiuso nel castello ducale del Pizzo, non un sol momento di debolezza o di pusillanimità l'eroico principe ebbe di fronte ai suoi carnefici. Ei volle e seppe morire da prode e da re. Si rifiutò di rispondere al generale Nunziante comandante delle Calabrie, e di comparire innanzi alla improvvisata Commissione militare: quei giudici non eran suoi pari! E poi, a che sarebbe valso? L'atteggiamento suo, coll'inevitabile divario nei particolari, fu quello del Carmagnola davanti al Consiglio dei Dieci (V, 1ª). Non pare di sentir lui, quando, al Doge che vuol rimandarlo al Consiglio Segreto, il Conte risponde:

Io lo ricuso.

Ciò che feci per voi, tutto lo feci

Alla luce del sol; renderne conto

Tra insidiose tenebre non voglio.

Giudice del guerrier, solo è il guerriero.

Voglio scolparmi a chi m'intenda; voglio

Che il mondo ascolti le difese....?

O quando gli ribatte:

Indegno!

Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti

Ch'io chiedessi pietà, ch'io ti pregassi:

[cxlvii]

Tu forse osasti di pensar che un prode

Pe' giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai

Come si mor. Va: quando l'ultim'ora

Ti coglierà sul vil tuo letto, incontro

Non le starai con quella fronte al certo,

Che a questa infame, a cui mi traggi, io reco...?

Al re condannato non osò di rimaner fedele, e di professarglisi grato per un dono altra volta fatto alla sua chiesa, se non il canonico Masdea, un vecchio sui settant'anni, che lo assistette in quegli estremi momenti. All'ufficiale, che doveva comandare l'esecuzione, e che interruppe il dialogo suo col prigioniero facendogli notare che cinque minuti erano già trascorsi, il buon prete osservò che il quarto d'ora regolamentare non poteva cominciare se non dopo l'assoluzione; la quale nessuna potenza umana avrebbe potuto impedire a lui di dare. E rivolto al re: «Io sono qui per voi; non temete di nulla!». Il quarto d'ora trascorse. «Andiamo a compiere la volontà di Dio», disse il re, levandosi da sedere, e seguendo l'ufficiale. Nella tragedia manzoniana manca il prete forte ed austero; non però l'amico fedele, il Gonzaga, che assiste il Conte fino alla tragica catastrofe.

Al capitano Stratti, che gli faceva da carceriere, Gioacchino rimise questa lettera, scritta poco prima che giungesse il Masdea, nella quale rinchiuse una ciocca de' suoi capelli.

«Ma chère Caroline,

«Ma dernière heure est arrivée; dans quelques instants j'aurai cessé de vivre; dans quelques instants tu n'auras plus d'époux. Ne m'oublie jamais; ma vie ne fut entachée d'aucune injustice. Adieu, mon Achille; adieu, ma Laetitia; adieu, mon Lucien; adieu, ma Louise; montrez-vous au monde dignes de moi. Je vous laisse sans royaume et sans biens au milieu de mes nombreux ennemis; montrez-vous supérieurs à l'infortune, pensez à ce que vous êtes et ce que vous avez été, et Dieu vous bénira. Ne maudissez pas ma mémoire. Je déclare que ma plus grande peine dans les derniers moments de ma vie est de mourir loin de mes enfants».

Una tal lettera, in un così tragico momento, potrebbe averla scritta il Carmagnola! E a buon conto, la mirabile[cxlviii] scena che il poeta immaginò tra il povero prigioniero, la moglie e la figliuola (V, 5ª), pochi istanti prima ch'ei fosse tratto al supplizio, che cosa è mai se non l'espressione drammatica dei sentimenti stessi che Murat aveva espressi nel solo modo che gli era consentito? Perfino le parole, qua e colà, corrispondono.

Sennonchè, è poi presumibile che già prima del 1820 il Manzoni sapesse a un puntino tutta la cronaca dolorosa ed eroica della fine di re Gioacchino? Non oserei senza prove affermarlo, ma nemmeno credo che si possa, senza prove, negarlo. Abbiam da fare con un poeta che fu un curioso e sagace indagatore di fatti storici, anche contemporanei, e con un uomo ch'era in rapporti amichevoli coi personaggi più eminenti di qua e di là dalle Alpi. Certo, non tutto quello che a noi han rivelato gli archivi egli seppe; ma chi sa quanto da relazioni scritte o da informazioni orali egli apprese, che a noi non è dato sapere, e che forse non sapremo più mai! E del resto, anche noi quante cose non sappiamo degli avvenimenti compiutisi sotto gli occhi nostri, che i nostri nipoti non sapranno, o impareranno monche e travisate?

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