XXIV.

Alla vecchia massima del Voltaire, che tutti i generi son buoni tranne il noioso, il Manzoni contrappose l'altra, che un genere soltanto non può avere speranza d'un duraturo successo, ed è il falso. Ei proclamò «non solo sensata ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello». Ed era dunque naturale ch'ei si rivolgesse, per ispirazioni, alla storia. Egli considerò che l'essenza della vera poesia non consiste punto nella materiale invenzione dei fatti o delle circostanze che li determinano. I grandi monumenti della poesia hanno tutti per base avvenimenti forniti dalla storia, o, che vale[cxlix] lo stesso, da ciò che un tempo è stato considerato come storia. E solo ad azioni che sono o son credute storiche, gli uomini prestano attenzione: il bambino non si commuoverà più alle fiabe, se dubiterà che quei fatti non siano accaduti.

Sennonché accordare la poesia con la storia è un arduo cimento; chè questa ha pretese che la leggenda non conosce. La leggenda è quasi un'amabile fanciulla, docile e riconoscente al poeta che la raccoglie e l'adorna, potenzialmente dotata d'ogni pregio, la quale un marito contadino può rendere una contadina eccellente e un marito gentiluomo una gentildonna modello; e per contrario la storia è la superba ereditiera, austera, sdegnosa, intrattabile, specialmente con chi più le si dimostra affezionato e devoto. Masuccio Salernitano e Luigi da Porto caveranno dalla leggenda di Romeo e Giulietta due ingenue e pur commoventi novellette; e quella stessa leggenda sarà capace di diventare il dramma di Guglielmo Shakespeare. Guai però a trattare come leggenda la storia o a lasciarsene sopraffare! Ei si risica o di cadere nel falso, o in quelle insopportabili tiritere alla maniera del Trissino e del Gravina.

L'Alfieri non s'era piegato ai capricci dell'ereditiera. Non le avea richiesto se non i nomi dei personaggi e il piccolo intreccio d'un'azione già precipitante alla catastrofe; il resto aveva cavato dal proprio cuore e dal proprio cervello. Non colorito locale, non accessorii storici o domestici; del carattere dei personaggi non colto che un lato solo, e senza gradazioni e varietà; e i personaggi stessi foggiati tutti a un modo, e isolati, come direbbe il De Sanctis, dal loro mondo: al poeta quel tanto di storia non serviva che di pretesto per metter sulla scena un'altra delle memorande passioni umane portata al parossismo. Ma tutto ciò tornava a discàpito dell'opera d'arte; poiché l'azione tragica, così distaccata e allontanata dalla storica, finiva col rendere la tragedia meno poetica della storia. Per volere più violentemente e direttamente colpire il cuore degli spettatori, il poeta negava a sè stesso il modo di spiegare sulla scena quella trama di fatti umani sulla quale il carattere dei personaggi può disegnarsi, di sviluppare le gradazioni e le varietà infinite delle[cl] passioni, e le loro anomalie e le loro singolari combinazioni, che costituiscono appunto le varietà e le singolarità dei caratteri; e si vedeva costretto a ricorrere a convenzionali esagerazioni, e creava caratteri spesso uniformi.

Il gentiluomo lombardo volle esser gentiluomo anche con la storia; e vagheggiò un dramma in cui questa e il proprio genio potessero viver d'accordo, senza troppi sacrifizi dall'una parte o dall'altra. L'azione drammatica deve consistere in una serie di avvenimenti che nascono successivamente, nello stesso o in luoghi diversi, gli uni dagli altri; e al poeta non può esser permesso di alterarne l'ordine con arbitrarie anticipazioni o raggruppamenti. Il poeta non ha facoltà d'inventare i fatti o le circostanze di essi; ma di scegliere nella storia quel gruppo di avvenimenti che gli paiono tenuti insieme da ragioni intrinseche e facilmente percepibili, che si compiono in un ragionevole periodo di tempo, e tra cui uno assorge quasi meta indicata o intravista di lontano. Questa, che i tragediografi classicheggianti scambiaron per tutta l'azione, non è se non la catastrofe. E i personaggi devono comparire o sparire secondo che lo svolgimento dei fatti richieda, non già, come il capriccio dei critici pretendeva, tutti mostrarsi al primo atto, e accompagnar l'azione fino al quinto. Tuttavia, non è da pensare che il còmpito del poeta sia suppergiù quello dello storico; poichè se questi non tien conto se non di ciò solo che gli uomini hanno operato, il poeta deve scendere nell'animo loro e indovinare quel che han pensato: i sentimenti che accompagnarono le loro decisioni e i loro disegni, le loro cadute e i loro trionfi; i discorsi con cui fecero o tentarono di far prevalere le loro passioni o i loro voleri, espressero la loro collera e la loro tristezza, manifestarono insomma il proprio carattere. La vera creazione del poeta drammatico consiste appunto in codesto scovare e rinvenire in una serie di fatti storici quel che ne costituisce un'azione tragica, nel cogliere i caratteri dei personaggi, nel dare a quest'azione e a questi caratteri uno sviluppo armonico, nel completare la storia restituendole la parte perduta.

[cli]

Attuazione di siffatti nuovi ideali artistici era appunto il Conte di Carmagnola .

Al tentativo fecero subito il viso dell'armi e chi della tragedia s'era formato un certo tipo convenzionale a cui questa del Manzoni non somigliava, e chi dal poeta dell'Urania s'aspettava qualcosa di più vicino all'Aristodemo. Ma lo accolsero come un ardimento felice coloro, che, sgombra delle viete ubbie la mente, seppero scorgervi e una vena potente di poesia e una preoccupazione critica ch'era promessa sicura di avvenire più sereno. Furon dei primi lo Chauvet e il Foscolo; dei secondi, il Pellico, il Fauriel, il Mazzini e il Goethe.

[clii]

Ho detto tentativo, e non vorrei sembrasse irriverente o avventata questa parola. Benchè del capolavoro abbia molti numeri, quel primo dramma non riuscì un capolavoro. Nocque al poeta, com'ebbe già a notare lo Zumbini, «quella eccessiva consapevolezza di fini e di mezzi» onde condusse l'opera sua, «consapevolezza che talvolta costrinse l'arte a ubbidire con proprio danno a certi nuovi criteri non abbastanza sicuri e provati»; e gli nocque, mi si consenta soggiungere, quella naturale titubanza ad allontanarsi troppo dal tipo tragico che s'era venuto costituendo in Francia e in Italia. Scosso vigorosamente il pregiudizio delle due unità che, rimesso a nuovo dal Voltaire, era divenuto come l'ultima cittadella[cliii] dei difensori del teatro classico; rinnovata la maniera di sceneggiare la storia e d'introdurre il Coro; rammorbidito il verso tragico: si capisce come al Manzoni venisse poi meno il coraggio di romperla con ogni tradizione drammatica delle nazioni latine. Così, la sua tragedia serba ancora un certo fare compassato e dignitoso, che a volte produce una non so quale monotonia; è intessuta di lunghi monologhi e di non meno lunghi discorsi, e manca, soprattutto in principio, di quella vivacità e di quel movimento che conquista e trascina subito l'attenzione. Si pensi: il primo atto si apre con un'allocuzione del Doge, di ben quarantatrè endecasillabi, al Senato silenzioso, detta tutta d'un fiato; nella quale ci si mette al fatto della guerra tra il Duca di Milano e Firenze, dell'invito di questa a costituire una lega contro quello, d'un'insidia tramata dal Duca stesso al Carmagnola. Il quale è chiamato finalmente in Senato per dare il suo avviso. - Siamo, a buon conto, nè più nè meno che a una di quelle esposizioni contro di cui il poeta medesimo ebbe a inveire; spesso fredde, inerti, complicate, alle quali il tragediografo classicheggiante si sentiva costretto in grazia delle famose unità. - Si ricordino invece le prime scene dell'Otello. L'azione è quasi la stessa: il Moro è chiamato in Senato per aver affidata l'impresa di Cipro. Ma qui non da lunghi e togati discorsi lo spettatore apprende i precedenti del dramma; bensì della guerra, del valore di Otello, del suo amore, delle insidie di Jago, ei sente discorrere da Jago stesso, da Rodrigo, da Brabanzio, e le ultime notizie di Cipro le impara da quei messaggi medesimi che pervengono al Senato. Per tal modo, quando il Moro apparisce sulla scena, vi è atteso come il prode in cui la Repubblica ripone le sue speranze; e anche noi, come Desdemona, sentiamo già di amarlo pei suoi corsi perigli, e temiamo per lui così ingenuo, circondato da tanta perfidia.

Strano davvero che, con un così insigne modello sotto gli occhi, il Manzoni preferisse ancora quella gelida forma espositiva; ma più strano ancora ch'ei la preferisse dopo che, nel primo disegno della tragedia, l'aveva abilmente schivata, premettendo a quella, che ora è la prima scena, altre due, tra[cliv] i Senatori che via via giungevan nella sala del Consiglio. Un senatore Stefano, che poi fu soppresso, diceva al suo collega Marino come oramai il Doge fosse infatuato per la guerra; come gli Oratori, mandati dal Duca di Milano per consigliar la pace, non facessero invece che vieppiù accender gli animi; e soggiungeva (p. 266):

Eppure, io vedo ancora

Che il più sano consiglio avria potuto

Vincere alfine, se non era il Conte

Di Carmagnola. Egli, dal Duca offeso,

Sul cui labbro sospetta ogni parola

Esser dovea, chè il suo dolor la forma

Non l'util nostro; egli è colui che ha vinti

Col suo dir violento anche i più saggi;

Egli è che a poco men che a tutti infuse

Quella febbre di guerra, ond'egli è invaso

Al par di lui che un dì la mosse in cielo.

Marino, che non voleva «a invitar molte parole», manifestava subito il suo maltalento contro il Condottiero, rincarando (p. 267):

Quanto ad orgoglio, non gli cede al certo!

Ma a tal siam noi, che deggia e l'oro e il sangue

Profonder la Repubblica, lo Stato

Anco arrischiar, per vendicar gli affronti

D'un Francesco Busson da Carmagnola?

..........D'uno stranier? d'un figlio

Di vil guardiano del più vile armento?

D'uno che tutti quanti siamo (amara

A proferirsi ell'è questa parola;

Pur la dirò, ch'ella è conforme al vero)

Tutti ci sprezza; e se il vedemmo a molti

Inchinarsi finor, piaggiarne alcuni,

Già celar non potea con che fatica

La sua superbia ai fini suoi piegasse.

..........Oh!... non dispero

Vederti un dì verso la polve inchino,

Ed il sorriso mendicar sui volti

Su cui più imperturbabile e più fosco

Ora ti volgi!

[clv]

E Stefano ripigliava (p. 268):

...Al par di voi.

E d'altri pochi, per la pace io sono:

Ma i più voglion la guerra. Il Conte io l'amo

Al par di voi; sulla sua fe' riposo

Al par di voi; ma che possiam noi dire?

È un traditore, e traditor chiarirlo?

Ricantate i sospetti, e cento voci

Vi chiederanno prove. Egli ed il tempo

Ce le daranno, e certe, ove sappiamo

Aspettarle e vegliare.

Non si tenga conto della forma: è il primo getto, e lascia ingenuamente trasparire le intenzioni, quasi profetiche, del poeta che ha l'occhio fisso alla sua meta. Si consideri invece con quanta maggior larghezza fosse da prima iniziata l'azione, e quanto maggiore interesse avvincesse subito al dramma.

A quei due Senatori viene ad aggiungersene un terzo, Marco; il quale è tutto sossopra per la notizia recente dell'attentato, osato nei dominii della Serenissima, alla vita del Carmagnola. Egli narra (p. 270):

MARCO.

Esser vi dee di nome

Noto un Giovan Liprando.

STEFANO.

Un fuoruscito

Di Milano?

MARCO.

Quel desso: e ancor saprete

Quanto colui paresse al Carmagnola

Affettuoso e riverente amico.

Ei, confidente, come i prodi il sono,

Ogni accesso gli dava; e benchè tanto

Maggior di fama e d'animo gli fosse,

Chiamarlo amico ei si degnava; un sacro

Nodo stimando, un insolubil nodo,

La comune sventura ed il comune

Persecutor. Lo sciagurato intanto

Chiede al Duca in segreto il suo perdono:

Il Duca un pegno gli domanda, e quale!

La vita dell'amico! Ed ei, l'infame,

La pattuisce, e tiene il patto, e tenta

Dare al Conte il veleno. Il Ciel non volle

Che potesse una tal coppia di vili

Dispor così di così nobil vita:

La trama è discoverta, e salvo il Conte.

[clvi]

C'è forse in codesto racconto un po' di sovrabbondanza, che però alla recitazione avrebbe giovato anzichè nuocere; ma ad ogni modo, nella forma definitiva data dal Manzoni alla sua tragedia, esso è ridotto a un troppo magro cenno, a cui scema ancora rilievo l'esser posto in bocca al Doge, subito dopo le primissime parole, e solo in forma di argomento (I, 1ª; p. 179).

Un fuoruscito al Conte

Di Carmagnola insidiò la vita;

Fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi.

Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo

Ei l'ha nomato, ed è.... quel Duca istesso

Di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora

A chieder pace, a cui più nulla preme

Che la nostra amistà. Tale arra intanto

Ei ci dà della sua......

Né si apprende se quest'accenno scuota punto il Senato, che se ne rimane, a quanto pare, imperterrito e muto. Mentre invece, nell'abbozzo, il racconto offriva nuova occasione ai tre Senatori di meglio manifestare i loro animi, e di rivelarci così le impressioni che sui malevoli e sui fautori del Conte quel misfatto dovè naturalmente produrre.

E si potrebbe fors'anche sospettare che dal soggetto il Manzoni non traesse tutto quel partito che avrebbe potuto, se lo avesse affrontato con baldanza maggiore. Certo, il dramma, in ispecie nel primo atto, ne apparisce un po' scarno d'azione; eppure di azione son ricche le notizie storiche che il poeta medesimo (egli era troppo dotto per accontentarsi di rimanere nella via regia percorsa dallo Shakespeare; e qui l'esempio dello Schiller forse prevalse!) si vide costretto a premettergli. Ivi, per esempio, si narra che gl'invidiosi del Carmagnola calunniosamente gli alienarono l'animo del Duca; il quale perciò, desiderando di toglier di mano a lui le armi, lo mandò governatore a Genova, ingiungendogli per lettera di rinunziare pur alla scorta dei trecento cavalieri condotti con sè. Il temuto Condottiero gli rispose «pregandolo che non volesse spogliare dell'armi un uomo nutrito tra l'armi»; e, «non ottenendo risposta nè alle lagnanze, nè alla[clvii] domanda espressa d'essere licenziato dal servizio,... si risolvette di recarsi in persona a parlare col Principe», che allora dimorava nel castello di Abbiategrasso. La scena che ne seguì è narrata drammaticamente dal Manzoni storico.

«Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi aununziare al Duca, ebbe in risposta ch'era impedito, e che parlasse con Riccio [uno de' suoi nemici]. Insistette, dicendo d'aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso: e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti con sè, inseguito invano da Oldrado [un altro dei suoi nemici], il quale.... credette meglio di non arrivarlo».

Or di tutto ciò nella tragedia non son rimasti che due fugacissimi cenni, dei quali non è presumibile che un lettore, nonchè una platea, faccia caso. Tra altre cose, il Conte, fin dal suo primo apparire, narra al Senato (I, 2ª; p. 183):

Io fui fedele al Duca

Fin che fui seco, e nol lasciai che quando

Ei mi v'astrinse. Ei mi balzò dal grado

Col mio sangue acquistato: invan tentai

Al mio signor lagnarmi. I miei nemici

Fatto avean siepe intorno al trono: allora

M'accorsi alfin che la mia vita anch'essa

Stava in periglio: a ciò non gli diei tempo....

E più tardi, il Conte stesso, rimasto solo, rimugina (II, 5ª; p. 206):

Il giorno

Ch'ei non mi volle udir, che invan pregai,

Che ogni adito era chiuso, e che deriso,

Solo, io partiva, e non sapea per dove,

Oggi con gioia io lo rammento alfine.

Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,

Ma condottier de' tuoi nemici, ingrato!...

[clviii]

Bei versi senza dubbio, tocchi di pennello maestro, ma il quadro manca. Eppure la rappresentazione di quegli avvenimenti sarebbe altresì giovata a metterci meglio in grado di comprenderne i tempi e lo stato d'animo e il carattere del protagonista; di valutare più pienamente i motivi del suo disgusto con l'antico signore e l'impossibilità che si raccostasse a lui; e avremmo potuto veder sulla scena pur quel duca Filippo, che ha tanta parte nei destini del Condottiero. Oltrechè l'interesse drammatico sarebbe stato, tra quegli avvenimenti, tenuto molto più desto, che non si riesca a fare con que' semplici sommarii.

Share on Twitter Share on Facebook