XXV.

Del Manzoni si potrebbe ripetere quel ch'egli stesso ebbe a dire del Goethe, cioè ch'entrasse «nella strada del dramma storico, segnata dal genio selvaggio..., come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d'imitare». E non è casuale il confronto; giacchè al grande poeta di Weimar il nostro guardò «com'al maestro fa il discente».

Ebbe comune con lui la tranquilla, spregiudicata, acuta contemplazione dei fenomeni storici e letterarii, e la cognizione di essi vasta e profonda; sentì come lui il necessario rinnovamento dell'arte: e se l'uno lo anticipò con la varia e molteplice opera sua, l'altro lo proseguì con consapevolezza ed efficacia di mezzi forse maggiore. Non fu proprio un capriccio della fortuna, come malignamente asserì l'ingelosito ed invido Foscolo, che il vecchio ed olimpico poeta accogliesse con sì fervido entusiasmo il tentativo del modesto giovane[clix] straniero, terminandone la lunga analisi col dichiarare che «l'impressione sintetica di quel dramma era un'impressione seria e vera come quella che lasciano sempre i grandi quadri della natura umana». Nè d'altra parte fu un semplice complimento quel che il Manzoni gli espresse, trascrivendo, in fronte all'esemplare dell'Adelchi a lui destinato, le parole di riverente ammirazione che il poeta medesimo aveva fatte dire da un magnanimo giovinetto ad Egmont.

La riforma drammatica del Manzoni mette capo direttamente al Goetz von Berlichingen e all'Egmont; anzi a codesti due drammi mette capo tutto quel nuovo movimento letterario che considerò la storia quale l'unica o la più cospicua fonte d'ispirazione poetica. Si ricordi che Walter Scott («l'Omero del romanzo storico», come lo proclamò l'autore dei Promessi Sposi) fu spinto sulla via, ove incontrò la gloria e la fortuna, dalla traduzione, ch'ei fece in gioventù, del Goetz. E se questo dramma segna di quel movimento il principio, la fine n'è segnata da un monumento non meno solenne, I Promessi Sposi. I confronti, sempre odiosi, sarebbero sott'ogni rispetto odiosissimi in questo caso; e la nostra ammirazione pel sommo musagete della Germania è anche più piena e devota, dacchè egli non si peritò d'asserire che, nel Romanzo, il Manzoni «si leva tant'alto, che difficilmente si può trovare autore che gli stia a paro». O non ci fa ripensare, codesta «cortese opinione» dell'autore del Wilhelm Meister, al caro episodio dantesco del Guinizelli?

«O frate», disse, «questi ch'io ti scerno

Col dito», ed additò uno spirto innanzi,

«Fu miglior fabbro del parlar materno».

[clx]

Il poeta lombardo fece in letteratura quel che ai nostri tempi è stato fatto in politica: ruppe l'ormai sterile alleanza con la sorella latina, e strinse la mano a quella giovane e balda nazione che di là dal Reno avea levato il vessillo d'un'arte novella. Nobile, commovente e quasi filiale è il saluto alla Francia in fin della lettera allo Chauvet: a quella Francia «che non si può vedere senza provare un sentimento che somiglia all'amor della patria, e non si può lasciare senza che al ricordo d'avervi dimorato non si mescoli qualcosa di malinconico e di profondo, che rassomiglia alle impressioni dell'esilio». Ma fu un saluto di addio!

Il Conte di Carmagnola annunziò all'Europa che il nuovo poeta d'Italia era nato. Chi fin dai primi passi dava così cospicua prova di «larga, libera e incondizionata maniera d'interpretare le nuove idee e i maggiori esempi del teatro romantico e storico», i quali egli mostrava «d'intendere come pochi in tutta Europa e forse come nessun altro in Italia», non poteva fallire a glorioso porto. Di lì a poco venne l'Adelchi, che parve sciogliesse in gran parte quella promessa; e vennero poi i Promessi Sposi, che avanzarono i desiderii.

Attratti dalle opere maggiori, sogliamo metter da parte le altre. E chi legga solo per gustare il godimento estetico immediato, ha ragione di far così; ma chi voglia davvero assaporare il frutto maturo, deve, per dirla col Bonghi, «ricercare come a mano a mano si sia educata la pianta che ha dato quel frutto, quali influssi l'abbiano aiutata a germogliare e a crescere, e come si sia formata quell'attitudine che ha poi raggiunto in fine un così notevole grado di perfezione». A noi studiosi delle opere d'arte letteraria non importa soltanto d'ammirare l'estrema meta, che il poeta si è sforzato di raggiungere e che segna l'apice della sua gloria; ma altresì di ricercare e perlustrare la via ch'egli ha percorsa per giungervi. E questa desideriamo indicare agli altri; e in siffatta ricerca appagare insieme quell'innato bisogno della nostra mente «di penetrare nel lavorio interno dello spirito umano, e soprattutto di uno spirito eletto». I primi tentativi lasciano meglio scoprire i segreti di quell'arte che[clxi] tutto fa, e trasparire gl'intenti e i procedimenti dell'artista non ancora provetto. Attraverso gli strappi lasciativi dalle necessarie incertezze e titubanze, ci avviene di sorprendere un'ansia e una lotta che il poeta vittorioso ci avrebbe gelosamente nascosta; e quelle trepidazioni fanno più compiutamente gustare il definitivo trionfo.

Fine dell' Introduzione.

[clxii]

[clxiii]

[clxiv]

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