Della Unità di Tempo.

Benchè la regola della così detta Unità di Tempo sia stata combattuta presso altre nazioni, io credo ch'ella sia tenuta in Italia per legge in fatto e in dottrina, almeno per la Tragedia, giacchè tutte le tragedie lodate sono ordinate secondo essa, e non conosco scrittore che di proposito vi abbia contradetto. Io non so se l'opinione siasi (come accade sovente) internata in questa questione più che gli scritti, ma in iscritto io la credo questione nuova. Ma siccome appunto gli stranieri, come dissi sopra ed ognuno sa, la vanno da qualche tempo ventilando, non è possibile trattarla senza ridire cose già dette da essi. Non sapendo io medesimo sceverare, astrarre, e dispiccare, per così dire, le idee mie proprie su questo soggetto da quelle che possono essere ricavate o suggerite da opere anteriori, e non volendo essere nè parere plagiario, cito a piè di pagina quelle di queste opere che io ho lette.

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In esse si vuol provare che questa regola è arbitraria e nocevole all'arte; e per quello che a me sembra, ciò vi è provato più che a sufficienza. Ma egli è certamente un danno pel progresso delle idee intorno alla drammatica, che gli argomenti posti in mezzo da questi scrittori non sieno nè generalmente ricevuti, nè confutati. Essi hanno discusse le ragioni di coloro che tengono l'opinione contraria, hanno addotte le ragioni per cui quelle sembrano loro insussistenti; e queste ragioni essi (singolarmente i tre più moderni) le hanno ricavate da principj certo più alti e più riposti che quelli a cui gli avversarj loro fossero giunti mai. Eppure si ode sovente ripetere la regola, ed i principj su cui essa è fondata, come se le opposizioni non meritassero il pregio di farne parola. Ciò si vede sovente nelle dispute letterarie. Eppure esse meritano d'essere, se non ricevute, almeno confutate. Questi scrittori avranno in qualche parte errato trattando questa questione; ma se non hanno trovato sempre la verità, sono iti a cercarla, per vie nuove, profonde e difficili, in quella lontana e vasta regione ov'ella si trova; essi portano novelle di quel paese, e all'aria loro, ai loro discorsi, fanno sentire di esservi stati.

La regola dell'Unità di Tempo è stata difesa prima colla autorità e poscia coi principj. A questi tempi, quando uno cita Aristotele in questa questione, io credo che lo nomini non come giudice, ma, dirò così, come testimonio: voglio dire che non lo fa per confermare la regola coll'autorità dell'opinione di quel filosofo, ma perchè il nome suo è stato tante volte unito a questa, che va con essa per abitudine. Egli è riconosciuto ormai che l'autorità degli uomini non vale che a confermar quelle cose, che quegli uomini soli potevano sapere per mezzi che non sieno concessi agli altri. Così, per esempio, l'autorità storica, la quale, benchè fallibile, pure si segue, quando non ripugni alla ragione; e in questo[416] si largheggia assai per l'innato amore alla certezza. Il fondamento di quest'autorità non è altro che il non poter noi con altri mezzi renderci sicuri dei fatti accaduti prima di noi, che per l'attestato di quelli che ne furono testimonj. Un altro genere di autorità, il quale non è più tanto in vigore, si è quello appunto per cui tante opinioni di Aristotele, o credute di Aristotele, furono tenute giudizj irrefragabili; ed è fondato su questo argomento: quell'uomo vide tanto addentro nelle cose, che è difficilissimo, quasi impossibile, che egli si sia ingannato. Ma siccome Aristotele non è testimonio di fatti veduti da lui solo, ma della verità di idee le quali rimangono in perpetuo esposte alla contemplazione degli uomini, così doveva venire, e venne assai prima d'ora, il momento in cui fossero ascoltati coloro che dissero: Esaminiamo le idee e le ragioni di Aristotele col giudizio nostro. E a quelli che dissero che l'autorità di Aristotele era superiore a questo, risposero perentoriamente che quest'autorità stessa era fondata sul solo giudizio nostro; poichè l'idea di questa autorità deriva dall'esame e dal paragone delle cose trattate da Aristotele colle idee di Aristotele intorno ad esse, e dal giudizio della conformità tra quelle cose e queste idee. Questo giudizio adunque, dissero essi, è potente a scoprire alcune verità nella natura delle cose, poichè vi ha scoperto la uniformità con le idee di Aristotele: serviamocene adunque per cercare di scoprire la natura delle cose. D'allora in poi, se uno propone di provare che Aristotele, per esempio, ha detto uno sproposito, il lettore sta attento bene agli argomenti, e li vuole di peso, prima di arrendersi a credere che un tale la indovini meglio di Aristotele; quando prima non si ammetteva alcuno a provare che Aristotele avesse detto uno sproposito. Io vo ricantando cose vecchie, ma forse non del tutto inutili, poichè questo modo di valersi dell'autorità, benchè non sostenuto da alcuno in principio, è usitatissimo in pratica; e quando in una discussione letteraria, o altra che sia, uno può citare l'opinione conforme alla sua d'un uomo riputato, se ne serve ordinariamente più che la ragione nol comporti, e fa di tutto per poter chiudere la disputa con questa come ultima ragione.

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E anche in questo caso, gli scrittori che non vogliono ammettere l'Unità del Tempo, non solo enumerarono le ragioni contro di essa, ma dovettero combattere l'autorità di Aristotele con argomenti estrinseci alla questione particolare; facendo vedere in sostanza che Aristotele, colla sola esperienza del teatro greco, non poteva comprendere tutti i possibili modi di verosimiglianza teatrale: ed enumerando molti altri motivi, per cui un uomo non poteva fare questa legge all'arte.

Ma uno di questi, il signor Schlegel, non solo nega il diritto di far la legge, ma nega l'esistenza della legge stessa. Il codice c'è, e ognuno puo accertarsi del fatto. Il signor Schlegel cita il solo passo della Poetica, dove si tratta di questa Unità di Tempo; ed io lo trascrivo qui dalla traduzione del Castelvetro: «Ora l'Epopea accompagnò la Tragedia in fino a questo termine solo, che con parole è rassomiglianza de' nobili. Ma sono differenti in questo, che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa e fornita di lunghezza, e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l'Epopea è smoderata per tempo, e in ciò è differente dalla Tragedia. Egli è vero che da prima similmente facevano questo stesso nelle Tragedie e ne' versi Epici». (Parte principale seconda, particella settima).

«Il faut remarquer d'abord», aggiunge il signor Schlegel [lez. X], «qu'Aristote ne donne ici aucun précepte, mais qu'il assigne à deux genres un caractère distinctif, tiré historiquement des exemples qu'il a sous les yeux». E ciò che dimostra che qui non è precetto, si è che Aristotele non ne dà ragione alcuna; e quelle che si sono addotte per provare che questo è un precetto, sono state cavate fuori da quelli che, ritenendo esser questo un precetto perchè lo videro esser conforme alla pratica più usuale dei Greci, credettero essere necessario[418] di ragionarlo. Nè questo è il solo caso che questioni lunghissime, passate d'una in altra generazione, e agitate ancora, si sieno fatte sopra un libro, che appunto non sia letto da una millesima parte di coloro che pigliano parte nella questione. Forse che gli uomini amano di tenere oscuri gli argomenti disputati, per timore di venire ad accordo?

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«Dans les lettres et dans les arts, les règles sont les leçons de l'expérience, le résultat de l'observation sur ce qui doit produire l'effet qu'on se propose». (Marmontel, Elem. de Litt., alla parola Règles). - Come le parole influiscono sul senso, accade sovente che ad una voce, presa per analogia da un'altra serie d'idee, e che è metaforica, si dia tutto il valore che ha nel suo significato proprio. Così accadde alle Regole; e dietro a questo nome, è venuto nelle lettere il corredo degli altri nomi che vanno con esso, quando è preso nel senso naturale. Quindi si ode dire: trasgressione, osservanza ecc. Si dice: pigliarsi una licenza, quando uno scrittore non segue strettamente il modo dimostrato in questa scuola dell'esperienza; e ciò per ottenere un maggior effetto. E questo vocabolo licenza è improprio assai, perchè il giudizio di quel tal modo di trattare l'argomento non deve ricavarsi dalla esperienza del modo con cui furon trattati gli argomenti anteriori, ma dal modo con cui si gusti quello di cui si tratta; e così le Regole non ci hanno che fare. Le Regole risultano da ogni particolare soggetto, e sono per esso il modo con cui piace agli uomini di concepirlo. Ogni cosa difforme da questo modo è fallo, e ogni cosa conforme non è licenza, ma convenienza, non dovendosi raffrontare che col soggetto stesso.

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Per convincersi che la regola arbitraria delle due Unità nuoce all'arte, basti osservare la progressione dei loro effetti nelle opere di Corneille. Nel Cid, egli tralasciò quella di Luogo, evidentemente; e quella di Tempo la seguì più in apparenza che in realtà, poichè diede e ai sentimenti e ai fatti un corso, che non si può comprendere verisimilmente in un giorno. E come sì gli uni che gli altri sono dedotti con progressione non men naturale e verisimile che maravigliosa, la regola non ha fatto danno, e basterebbe cangiare le parole che accennano l'unità per toglierne l'idea, come gli effetti non ci sono. Il grand'uomo fu, come ognun sa, straziato da uomini, il cui giudizio la posterità non vede senza fremito essere stato anteposto al suo (benchè sia pronta a far lo stesso). Allora egli, per aver pace e per godere senza ostacoli quella riputazione che aspettava dai suoi lavori, difese prima quella divina tragedia dagli oppositori, non già provando che i principj loro erano sciocchezze, ma che la tragedia era conforme a quei loro principj; d'indi in poi, egli si attenne sempre alle Regole, e storpiò gli argomenti, e abbandonò quelli che non si potevano storpiare così facilmente. E quale è quella sua tragedia dove si trovino quei pregi originali, e di un carattere moderno e nuovo, come nel Cid?... (Verificar questo, rileggendo le tragedie e le prose di Corneille, e distinguere meglio la differenza tra il Cid e le altre).

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Veniamo ora alle ragioni, colle quali si è voluto provare che la regola dell'Unità di Tempo non è punto arbitraria, ma che deriva dalla costituzione organica del Dramma. Siccome il fondamento che si pone a questa regola e a quella dell'Unità di Luogo è il medesimo, così verrà a trattarsi dell'una e dell'altra insieme, e gli esempj si prenderanno promiscuamente dall'una e dall'altra.

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La necessità intrinseca che il fatto rappresentato nella Tragedia non oltrepassi lo spazio d'un giorno, e che la rappresentazione si mantenga sempre in un luogo, è dedotta da un solo principio. Io lo rapporterò colle parole di un celebre spositore della Poetica, il Castelvetro; benchè, a dir vero, le ragioni per cui sembra a lui che sia inverisimile la rappresentazione che oltrepassi quello spazio e quel luogo, vi sieno enumerate con maggior diligenza che delicatezza.

Ecco quello ch'egli dice, nella sposizione al passo della Poetica citato poco sopra: «Aristotele parla spezialmente dello spazio che può al più occupare la Tragedia, che è un giro del sole, là dove lo spazio dell'azione dell'Epopea non è determinato. Perciocchè l'Epopea, narrando con parole sole, può raccontare un'azione avvenuta in molti anni ed in diversi luoghi senza sconvenevolezza niuna, presentando le parole all'intelletto nostro le cose distanti di luogo e di tempo; la qual cosa non può fare la Tragedia, la quale conviene avere per soggetto un'azione avvenuta in picciolo spazio di luogo ed in picciolo spazio di tempo, cioè in quel luogo ed in quel tempo dove e quando i rappresentatori dimorano occupati in operazione, e non altrove, nè in altro tempo. Ma così come il luogo stretto è il palco, così il tempo stretto è quello che i veditori possono a loro agio dimostrare sedendo in teatro, il quale io non veggo che possa passare il giro del sole, cioè ore dodici: conciosia cosa che per la necessità del corpo, come è mangiare, bere, diporre i superflui pesi del ventre e della vescica, dormire, e per altre necessità, non possa il popolo continuare oltre il predetto termine così fatta dimora in teatro. Nè è possibile dargli ad intendere che sieno passati più dì e notti, quando essi sensibilmente sanno che non sono passate se non poche ore, non potendo l'inganno in loro aver luogo, il quale è tuttavia riconosciuto dal senso».

Se questa è la vera cagione della pretesa inverisimiglianza, che nasce dalla differenza fra il corso del tempo supposto ed il reale, possiamo noi moderni a ragione vantarci di avere, colla bene intesa costruzione dei nostri teatri, allargati del doppio i confini della illusione teatrale. Poichè noi abbiamo teatri ove si può con ogni agio fare, e tuttavia si fanno, quelle[421] cose di cui parla il Castelvetro, e che non giova ripetere; e quindi (almeno per una parte degli uditori, e per quella appunto che naturalmente dev'essere la più attenta) si può supporre che la dimora in teatro sia di due giorni. Ma io non vorrei essere tacciato di avere scelto un testo sguajato, per toglier fede al principio e forza alla difficoltà: chè, a dir vero, essa, comunque in altri modi espressa, non viene a dire altro in tutti gli scritti dove io possa averla rinvenuta. Tutti convengono in questo, che essendo nel Dramma i fatti posti dinnanzi agli occhi dello spettatore, a differenza della Epopea che li narra con parole, perchè in esso si trovi quel grado di verisimiglianza che crea l'illusione, devono i fatti esser rappresentati come se accadessero realmente. Ora, siccome se quei fatti accadessero realmente non potrebbe lo spettatore assistere in poche ore a quelli che occupano mesi o anni, nè assistere senza muoversi a quelli che avvengono in diversi luoghi, così, perchè lo spettatore possa essere veramente illuso, deve il tempo e il luogo dell'azione conformarsi a quel tempo che lo spettatore sente veramente trascorrere, a quella unità di luogo in cui egli sente veramente di rimanere.

Due massime erronee sono qui, a parer mio, il fondamento della regola. L'una, che la presenza materiale dello spettatore sia una delle condizioni dell'arte; la seconda, che l'arte, per eccitare in noi la simpatia colla rappresentazione, debba valersi degli stessi mezzi con cui le cose reali fanno impressione sull'animo nostro. E quanto alla prima, egli è evidente che la presenza dello spettatore è riguardata come parte essenziale, poichè la inverisimiglianza si deduce, non dal volere che un uomo concepisca successivamente fatti successivi per lunghi intervalli di tempo e di luogo, ma che li veggia senza lunghezza di tempo e mutazione di luogo. Basterà dunque il dire che la presenza dello spettatore non deve entrare nella composizione dell'opera. Lo spettatore non è già una parte dell'azione, è una mente estrinseca ad essa che la contempla: lo spettatore non è governato coi modi stessi che l'azione, nè l'azione coi modi dello spettatore; l'azione ha un tempo, il quale deve parer verisimile[422] allo spettatore considerandolo nell'azione stessa, ma paragonandolo alle sue proprie modificazioni. Egli è, ripeto, fuori dell'azione. Se la massima di cui si tratta potesse essere ammessa, ne verrebbe una strana conseguenza, cioè che il porre in iscena i drammi nuoce alla perfezione dell'arte loro: poichè è concesso da tutti i critici che il non astringersi ai modi reali di tempo e di luogo lascia un più largo campo ad una più varia e più forte imitazione. Quante volte non s'ode dire: sì, quello scrittore ha grandi bellezze, ma le ottiene a discapito della verisimiglianza. Ora, se la inverisimiglianza non viene che dalla presenza dello spettatore, se i dialoghi drammatici che formano un'azione possono dilettare senza la recita materiale, se letti sono pur sempre opera dell'arte, convien dire che è possibile una più grande, più bella Tragedia, che non è quella che si può vedere in teatro. «Tragedia da tavolino», si dirà; ma l'Iliade, l'Eneide, l'Orlando non sono essi poemi da tavolino? Sofocle ed Euripide ci dilettano in altro modo che per la lettura? E la recita accresce tanto pregio all'arte, che senz'essa l'arte non produce i suoi più grandi effetti?

Nè si dica che il difetto vi si troverebbe pure alla lettura, perchè la mente si trasporta alla rappresentazione; poichè io suppongo un genere di composizione nel quale le cose si rappresentino col solo dialogo, e i fatti che non si conoscono da esso vi sieno accennati semplicemente, come il nome di chi parla. E questo genere è possibile, ed ha in sè tutte le condizioni per esser perfetto, senza la rappresentazione. Ma perchè ho io detto possibile? Tutto Shakespeare è tale! E se dai lavori prodotti in un genere si può stimare il genere stesso, nessuno dubiterà che la Tragedia da leggersi non sia superiore alla Tragedia da rappresentarsi, perchè nessuno dubiterà che la lettura, verbigrazia, del Macbeth non produca un più vario, un più profondo effetto di commozione, di simpatia e d'istruzione morale, che qualunque delle moderne tragedie in cui le unità sono osservate. Nè io per questo concedo che il Macbeth e tante altre divine tragedie sieno da togliersi al teatro: io tengo che la verisimiglianza di cui l'arte abbisogna vi si trovi[423] perfettamente; ma dalla conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.

Il secondo principio, al parer mio, erroneo, si è: che l'arte, per formare in noi un'impressione colla rappresentazione, debba valersi degli stessi mezzi con cui le cose reali fanno impressione sull'animo nostro. E che questo principio sia sottinteso nelle ragioni che si adducono per la regola delle Unità, mi sembra chiaro, poichè queste ragioni si riducono a questo: che siccome nella realtà il mezzo, col quale io posso assistere agli avvenimenti che occupano una data lunghezza di tempo, si è di percorrere quel tempo, il mezzo col quale io posso assistere ad avvenimenti che accadono in diversi luoghi, si è di trasportarmi a quei luoghi; così l'arte, non potendo usare gli stessi mezzi, non può produrre gli stessi effetti, e quindi bisogna ristringere gli effetti ai mezzi reali che io ho e che posso impiegare a quella rappresentazione. Ma il fatto sta che le arti non si valgono, per farci impressione, degli stessi mezzi che servono alle cose reali. Le arti imitative non sono venute da altro che dall'aver gli uomini riflettuto e sentito che si poteva produrre un'impressione simile al concetto nato in noi dalle cose reali, senza riprodurle. L'imitazione non consiste adunque nel creare cose eguali al fatto, ma di modo somiglianti al fatto che sieno il più che si può eguali al concetto; perchè il fine è questo, e i modi di creare quest'imitazione sono mezzi subordinati a questo fine.

Io credo di poter dilucidare questo principio coll'esempio d'un'altra arte; e benchè sappia quanto i paragoni fra esse riescano spesso fallaci, mi sembra che in questo caso possano condurre al vero, poichè si tratta di una cosa comune alle arti tutte, che è il concetto umano. Pigliamo un esempio dunque dalla pittura; e per non uscire di teatro, pigliamolo da una scena, e sia questa un paese. La pittura è l'arte di rappresentare agli occhi nostri la somiglianza d'una cosa per mezzo di un'opera artefatta, che non è la cosa stessa. Quando io contemplo un paese reale, si crea di esso un idolo, un concetto, nella mia mente. Se io sciolgo questo concetto nelle varie parti di cui è composto, e per così dire conflato, se[424] paragono una, o più di queste parti del concetto, colle parti del paese reale che le ha originate nella mia mente, trovo che non sono ad esse perfettamente eguali, cioè che l'idolo parziale di questa parte non corrisponde alla parte che ha nel concetto generale. Per esempio, una pianta alta sei uomini, distante da me cinquecento braccia, mi sembra più picciola che una pianta alta quattro e distante cento braccia. Io veggo qui dunque la distanza alterare nel mio concetto l'idea della grandezza, e sento che io posso concepire questo paese in due differenti modi: quale è di questi due modi che l'arte pittorica imita? Quello analitico, per così dire, non le è dato imitarlo, nè essa tende a ciò; ma sibbene il modo dell'unico concetto. Può essa bensì avvicinarsi, più o meno, al modo analitico; ma, a misura che si avvicina a questo, ella va perdendo il carattere e il nome d'arte. Può, p. es., imitare un ramo d'albero che si contenga in un quadro, dando ad ogni foglia i contorni di grandezza naturale; ma oltrechè in questa cosa pure l'è forza di usare la prospettiva, essa fa uno dei suoi meno nobili e meno lodati effetti. Il modo di concetto che la pittura imita, si è il secondo, perchè gli uomini hanno trovato che si può in un picciolo spazio, su un piano liscio, imitare il concetto creato in noi dalla veduta di un esteso paese. Hanno trovato che gli effetti prodotti dalla distanza, dalla ineguaglianza della superficie, si possono imitare senza riprodurre queste condizioni, e così dilettare. La pittura adunque non rifà le cose reali, perchè, a dirla con parola tecnica, l'arte non lo promette; non imita nello spazio quella sola parte di cose reali che ci potrebbe stare, perchè l'arte promette assai più, ma rinchiude in quel dato spazio l'imitazione di quelle cose che possono riprodurre un concetto. (Più chiaro). Il senso poi dell'artista trova in ogni quadro i limiti che l'arte e il concetto danno alla estensione delle cose imitate. Questi sono indicati dalla novità e dalla somiglianza al concetto interiore.

Nello stesso, stessissimo modo, mi sembra che proceda l'arte drammatica. Essa non può rinnovare nell'anima dello spettatore la serie intera delle sensazioni, che nascerebbero in lui dal trovarsi presente ad avvenimenti che richieggono[425] uno spazio di tempo e di luogo più esteso di un teatro e di tre o quattr'ore. Non vuole rinchiudere l'azione in questo spazio, nei casi (e sono i novantanove centesimi) in cui l'azione non vi potrebbe stare. Non imita dunque nè la totale e intera azione, con tutte le sensazioni che l'accompagnerebbero se fosse reale, perchè non lo può; nè si ristringe a quella parte di essa che trova una corrispondenza reale in chi la rimira, perchè, come ho detto della pittura, l'arte promette assai più, essendo la mente capace di considerare in tre ore i fatti, le cause, gli effetti, le passioni, i rivolgimenti ecc. ecc., che possono accadere in un assai più lungo spazio di tempo. Essa rinchiude adunque, in quel dato spazio, l'imitazione di quelle cose che possono imitare il concetto nato in noi dalla rimembranza di questi fatti. Non potendo servirsi dei mezzi con cui apprendiamo, nella successione di spazio e di luogo, gli accidenti veri, si serve dei mezzi proprj ad essa, ed appropriati alla mente umana. Quindi, p. es., essa, non potendo servirsi della reale durata del tempo (l'attenzione non può in generale durare, se è molto interrotta), supplisce a questa colle idee che richiamano alla mente quella della durata, ed è la successione ragionata degli avvenimenti. Da una serie di questi astrae quelli che tendono a formare un'unità intellettuale. (Vegga il lettore sulle Unità l'eccellente Lezione decima del libro sopra citato del signor Schlegel). E qui pure, come nella pittura, il senso dell'artista deve trovare in ogni azione drammatica i limiti che l'arte e il concetto le assegnano. Quella congerie di avvenimenti, che la mente si diletta a contemplare insieme perchè vi scorge una tendenza ad un fine, è atta a diventare soggetto di una azione drammatica. Trovata questa, l'estensione dello spazio fittizio e di luogo e di tempo dove bisogna cercarla se non nell'azione stessa? E con qual regola bisogna misurarla, se non colla proporzione che le parti hanno fra di loro, e colla durata possibile dell'attenzione ad un concetto, senza stancarsi, e colla moltiplicità possibile di cose legate ad un fine, senza che ne venga la confusione?

Quale è l'uomo che ha potuto trovare un modulo di tempo fittizio per tutte le possibili azioni drammatiche? Aristotele[426] non lo ha certamente preteso. Ma i suoi commentatori, e coloro che hanno ricevuto le dottrine loro, hanno creduto di poterlo ritrovare. E qui si sono messi in luogo, dove non si appoggiano nè ai principj veri dell'arte, nè ai principj veri stabiliti da loro; poichè, veggendo che chi riduce la drammatica alle sole cose possibili nel tempo occupato dalla imitazione, viene a privarla dei suoi più grandi mezzi di diletto, hanno allargato questo tempo con un confine arbitrario. Al che non hanno voluto stare alcuni di coloro che ammettevano il principio della illusione intesa a quel modo, e questi, come è stato osservato, sono i più conseguenti: il che spesso si vede, chè fra quelli che tengono un'opinione falsa, i meglio ragionatori vengono a rendere il sistema più stravagante. Ma quelli che vogliono comporsi per avvicinarsi al vero, senza abbandonare quello ch'essi credono il solo vero, bisogna che inventino temperamenti arbitrarj. E tale è questo delle dodici o ventiquattr'ore. Poichè non sono possibili nella imitazione drammatica che due modi di tempo, il reale o il fittizio. Il reale è quello che s'impiega, il fittizio è quello che si suppone impiegarvisi; e il giro del sole (quando si sia stabilito per tutti i drammi) non è nè l'uno nè l'altro. Si può anzi credere che questo sistema non sarebbe venuto in mente ad alcuno, se Aristotele non avesse fatto parola del giro del sole. Il signor Schlegel, che osservò che Aristotele non parlò di esso dottrinalmente ma storicamente, ha trovate le ragioni per cui (oltre il Coro permanente, parte essenziale del dramma dei Greci) le azioni drammatiche non abbisognavano presso di loro, ordinariamente, d'un tempo fittizio che oltrepassasse il giro del sole. Se il povero filosofo ritornasse a questo mondo, si stupirebbe delle opinioni che gli si attribuirono, non meno che M. de Pourceaugnac della prole che gli attribuiscono quelle due finte provinciali.

Rimetto di nuovo il lettore alla stessa bella Lezione decima. E per conchiudere col paragone della pittura, la regola del giro del sole equivale ad una di questa sorte sui quadri che rappresentano paesi: non sia lecito rappresentare in una scena l'estensione che oltrepassi, per esempio, trecento braccia.[427] Ma lo spettatore, che vede la scena che gli rappresenta una gran lontananza di paese, che sa che le condizioni reali del paese non vi sono, che nè egli nè gli altri vi possono passeggiare per entro, che la distanza non vi esiste quale è finta ecc.; lo spettatore, che pure si accontenta di quella illusione che gli dà quel paese, non crederà poi che basti quella dell'azione, se le condizioni reali del fatto non vi sono conservate in modo ch'egli debba credere di poter assistervi realmente?

Questo tempo proprio dell'azione, è, per così dire, di due maniere, il reale e il supposto. Scegliendo da una storia, per esempio, quei fatti che costituiscono una unità, si rappresenta realmente il tempo occupato da quei fatti, si suppone il tempo che li divide. Il tempo, per cui questi fatti sono distesi, è il supposto; quello che essi tengono, è il reale. Il tempo invece dello spettatore è tutto reale, perchè egli non suppone, nè deve supporre, in sè una durata fittizia. Il tempo reale da lui impiegato basta a concepire gli avvenimenti rappresentati. Così, le tre ore materiali dello spettatore possono essere proporzionate alla intelligenza di un fatto di tre mesi; e se si consideri il fine, che è la contemplazione dell'unità, più proporzionate, secondo l'arte, che l'assistenza al fatto pel corso reale di tre mesi, pei quali le sensazioni relative ad esso verrebbero interrotte da mille altre sensazioni, e dopo i quali, per averne un concetto unico, bisognerebbe appunto fare astrazione da tutte queste modificazioni estranee. L'arte imita nello spettatore immaginario quello che la memoria farebbe in uno spettatore reale.

Quando si dice che le due Unità, di tempo e di luogo, non sono prescritte da Aristotele, i sostenitori di esse rispondono: che importa che Aristotele le abbia prescritte o no? esse sono fondate sulla ragione: ecco ciò che importa.

È utile alla scoperta del vero la storia delle opinioni. Quella delle Unità è venuta a questo modo. Si è creduto trovarla in Aristotele, in un tempo in cui egli era creduto infallibile; quindi, l'idea dell'autorità fu più esaminata, e si dubitò delle sue asserzioni; quindi, si cercò anche nelle sue asserzioni con più cura quello che vi era stato aggiunto: allora i partigiani[428] delle Unità furono costretti ad abbandonare Aristotele, e vollero trovare delle ragioni. Ma su questo campo sono venuti per forza; ma hanno credute e sostenute le Unità, credendo di non aver bisogno di ragioni. Questa opinione è cominciata con un errore di diritto, cioè che Aristotele non potesse ingannarsi, e con un errore di fatto, cioè che Aristotele avesse prescritte le due Unità. Sarebbe strano che una idea vera s'introducesse per queste vie, ma non impossibile. No, certamente: una conseguenza falsa può essere un'idea vera. Ma bisogna provarlo. E questo è ciò che non possono fare i partigiani delle Unità: gli argomenti loro sono di quelli che si cercano per comprovare un'opinione ricevuta per pregiudizio, non di quelli che conducono a provare un'opinione, e ad esserne persuasi. Essi ascoltano le ragioni degli avversarj coll'impazienza di chi non vorrebbe dubitare....................

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