III. LA BATTAGLIA CHIMICA E GLI ALONI AZZURRI

Nei prati alti che strapiombano sulla confluenza dell’Astico e dell’Assa, la battaglia si spalanca davanti a noi con un milione di vampe febbrili e dei vasti roteanti volumi d’aria che ci squassano fra la vegetazione torturata e singhiozzante.

A destra scoppia nel folto fogliame nero

SGRAGRANG-GRAANG

una Spraangranata. Il graticcio di verdura che ricopre il camminamento diventa per me un pergolato satanico dai grappoli furibondi. La terra sembra sventrata dagli atletici colpi di reni delle nostre bombarde. Invisibili sotto di noi slanciano a gara con brutalità ubriaca i loro bottiglioni di sciampagna esplosiva in alto, in alto e li guardano ammirati la bocca al cielo, senza curarsi degli immensi tondi maestosi rimbombi che quell’alcool massacrante produce a 600 metri sotto di loro. Ci sdraiamo per riprendere fiato su un declivio mentre la luce torbida dell’alba sbianca la curva dei fumi e svela sui fianchi prativi di Campolongo in faccia a noi i villaggi di Rotzo e di Albaredo. Piccole mandre di casette bianche dal tetto rosso, umili, timide, infantili, estatiche, beate.

Le nostre batterie da 149 tirano accanitamente con sempre nuove rotaie buttate sulla valle contro la Croce di Alenburg. La Croce appare incensata da fumi bianchi, neri; blocchi, cerchi, ovi, losanghe, pacchi di fumo che spacchettano delle stelle violente d’argento votivo.

Più giù 3 case di Rotzo godono d’essere spaccate. Si fumano spensieratamente da sè come pacifiche sigarette. Invitano, implorano o sfidano le granate nostre che le sfondano con voluttà crudelissima. Il villaggio di Rotzo ha delle linee semplici, caste, sante come dipinto da Giotto sotto gli elastici ondulanti arabeschi e guinzagli che gli scaglia forse il genio dinamico plastico di Boccioni. I volumi mostruosi e lenti dei fumi sono assaliti dalle pressioni d’aria formidabile, giganteschi boa di forze torride che li arruffano, impacchettano, globalmente. Salgono i fumi, ma sono ricacciati giù, scopati dalle ventate furenti e rinascono più tenere, più tranquille, più attente, più sottomesse le sette casette di Rotzo. La luce che cresce dà ai tetti il colore del sangue. Sono forse segnate per il macello quelle strane pecorelle? Il campanile è da tempo decapitato. Penso al tragico fermento molecolare di quelle fragili mura che presentono l’urto acuto di diabolico pesce d’acciaio che li sfascerà. Sembrano anche bianche polpe di cadaveri in fondo al mare grigio verde fumoso di quest’alba sottomarina fra gli assalti voraci degli innumerevoli squali esplosivi.

Valli, valloni, valloncelli, burroni, vallette, conche e torrentelli si sono svegliati, gemono, singhiozzano e strillano a perdifiato. Poi una collera li invade e scoppiano ovunque moltiplicando i loro grugniti, rutti, sputacchi, vomiti lugubri. Le valli ampie sono sdegnose nelle loro digestioni sonore e senza fretta ingoiano i pesanti fragori per rivomitarli masticatissimi tra i denti stridenti dei loro echi che brillano e tintinnano di passione.

Sentiamo sotto i piedi risuonare i polmoni, le budella e fino in fondo lo sfintere della montagna dove si sono infilati, asserragliati e stipati infiniti rumori. Alle nostre spalle frana una valanga di echi appassionatissimi. Li distinguo tutti: ovoidali, sferici, serpentini, piramidali, cubici, stracciati, tutti accalcati nella furia goliardica di partecipare alla battaglia. Risse, corse, fughe, salti, capitomboli e coiti forsennati di rumori.

Ormai gli echi si sono fatti esperti, attentissimi, tutti al loro posto come vedette.

SPRANG-SPRANG di cannonata e BRAAAA BRAAAA di echi. Vi sono in alto loggioni di Echi affollatissimi che fischiano. Sono molto più numerosi delle cannonate. Ogni cannonata è aspettata da 10, 20, 30 echi pronti a schiacciarne il fragore sbranarlo, lacerarlo, liquefarlo, spremerlo, allungarlo, spezzettarlo per poi riscagliare tutto con schizzi, sputi, scherzi, rabbuffi e risate, risaaaate, risaaaate infiniiiiiiiiite.

Sento lontanissimo dietro di me rumoreggiare dei colossi che certo buffonescamente calpestano la lamiera del mare Adriatico. Certo le platee della pianura veneta applaudono e ridono. Nel cielo, migliaia di rumori ginnasti dondolano sui trapezi del vento, giuocano e ridono.

Noi non possiamo ridere, colla faccia presa dal respiratore inglese, che ci dà, colle sue tubature, dei profili di originalissimi palombari immersi in un mare di gas asfissianti e lagrimogeni. Ecco la terribile iprite!

Gli ufficiali verificano il respiratore inglese sul viso dei soldati. Hanno tutti il naso prolungato mostruosamente dalla tubatura di caucciù che scende nella gialla musetta. Alcuni sembrano formichieri, altri fanno oscillare dei misteriosi cordoni naso-ombelicali. Una luce di rogo crepita improvvisamente dietro di noi: sono strani viluppi neri di resina e catrame che cuociono e fumano sospesi su cavalletti come porci impalati, spandendo un acre odore-vapore anti-ipritico.

La trincea sembra un laboratorio chimico pieno di scienziati impazziti. Impazziti forse dalle continue nuove miscele sempre più pericolose azzannanti e massacranti che la valle smisurato lambicco fornisce a noi pronti ma un po’ ansanti nel risolvere i problemi di questa così lirica e pur scientifica battaglia chimica: acetilene, solfuro di carbonio, acido solforoso, cloropicrina.

TUM-TUM BROONG

d’un nostro 75 da campagna,,

Rispondono gli echi

BRAA

bu-bu-bu-bu-bu-bu

vu-vu-vu-vu-vu-vu-vu.

Entrano in scena i grossissimi calibri. Sulle bottiglie, i bottiglioni di esplosivo inebriante crollano ormai i barili giganti. E la frenetica gioventù baldanzosa dei gas a lungo compressi si scatena nella domenica di tutte le libertà omicide. I barili non bastano. Bisogna sventrarsi, pensano i cannoni, e gettare a manate e a palate sulle montagne in giro le nostre lunghissime budella di bronzo. Inghirlandiamone anche le cime che ora tintinnano sotto i primi buffetti dorati del lontanissimo faticoso sole nascente. I rumori salgono, salgono, come spiraliche budella nere a strangolar le cime perchè se mai vi fosse un nostalgico pastore a sognare, possa pensare d’essere immerso a capofitto colle punte dei monti nel più spaventoso inferno di tutte le religioni.

Prendiamo il camminamento e poi la trincea della brigata Casale. Si scende dietro le spalle dei fucilieri che scattano, sparando pim-pam-pam-pam.

Un gruppo di mitragliatrici innaffia giù con un ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta che non cessa, un burrone a 300 metri sotto di noi granulato di piccole forme che salgono. I nastri delle cartucce corrono su a tuffarsi nella macchina sussultante come frettolose di trovarvi il varco e per la canna precipitare con gioia contro i corpi vivi che appetiscono.

Sulle bocche delle mitragliatrici si aprono e chiudono fulmineamente orchidee e giaggioli scarlatti, argentei e dorati. Flora tropicale dalla telegrafica fecondità.

Valle Ghelpa mette 200 metri di vuoto tra noi e la trincea austriaca di Cima Tre Pezzi incoronata di fumi neri zaffiro, smeraldo e celeste verdolino delicatissimo. Svolazza via un fumo elegantissimo a mille pieghe come una veste di Poirée. Sentiamo che la battaglia infuria a destra dove si dice gli inglesi abbiano ceduto. Siamo a Sculazzon fra le mie bombarde con l’amico Mattoli.

Si tira verso destra in un punto della valle ormai trasformato in un vulcano. Il ritmo della fucileria opprime il cuore. Corre voce nella lunga trincea della brigata Casale che gli austriaci hanno conquistato 900 yards agli inglesi con un principio di accerchiamento che avrebbe per obiettivo il Cengio. Tutto il blocco di montagne che s’incunea fra l’Astico e l’Assa è in pericolo. Passano uomini e uomini con cassette di munizioni. Hanno spostato le mitragliatrici verso la destra. I telefoni però funzionano. Ordine di cessare il fuoco delle bombarde. Ma una lieve angoscia ci punge nello straripamento dei fumi che ormai hanno invaso tutto il paesaggio oscurandolo. Siamo ripiombati in una specie di notte caotica fra gli altissimi scossoni dell’aria dove viaggiano come su mille binari paralleli i proiettili dei grossi calibri. Impera ora il 280. Interviene tirannicamente il 305 di tratto in tratto. Questo che scoppia è certo un veliero carico di esplosivi spinto in questo mare di fumi per colmare, incagliandosi, lo stretto che separa gli Austriaci e gli Inglesi.

Oh con quale fierezza italiana io ammiro i buoni fanti della brigata Casale che sparano nella trincea! In uno squarcio di luce ancor torbida una allucinazione o una realtà stranissima assale i miei occhi. Ogni soldato che spara sussultando al suo parapetto ha uno strano alone azzurro-rosso intorno a sè. Sembra un molle globo di nebbia, una ruota di fumo azzurrino. Ne noto tre, quattro, venti, cento. Mi alzo e nell’angosciosa precipitante frenesia della fucileria seguo la trincea. Certo ogni combattente appare ai miei occhi come un nucleo opaco o meglio come il mozzo di quella misteriosa ruota di diafano azzurro. Intuisco così la presenza della vita vissuta che avviluppa ogni combattente nel momento della battaglia.

Sono grovigli di giorni passati, di gioie godute, di dolori sofferti che affettuosamente si arrotondano sull’uomo nel giuoco supremo; quando le forze ostili lo assaltano da ogni parte. Ogni ruota azzurra è diversa dall’altra, non so se per l’età, le condizioni di vita, o la coscienza. Malgrado le ondate sbattenti dei fragori e degli echi polifonici io odo quelle ruote azzurre veramente vive chiamare, gridare, implorare. Voci di donne in lagrime, gridio di bambini al sole e la madre impietrita che singhiozza, e il viso del padre che si scolora leggendo il giornale, e la bocca soavissima fresca che mostra le sue perle più ricca di ogni ricchezza.

Ecco sfioro la schiena d’un forte soldato dal viso cotto dal sole: sono nel suo alone azzurro e tremo come chi entra nella casa dove è morto qualcuno fra pianti disperati. Il soldato che m’è vicino e che spara, spara, affrettando i colpi è forse un marinaio. Chi pensa più alle fischianti pallottole che cinguettano sul capo coi primi passeri indifferenti? Sono preso dalla gioia di scoprire una nuova legge. Ben lontano dai Bergson seduti nelle cretine poltrone universitarie trovo nel momento più pericoloso d’una battaglia la soluzione di molti problemi che i filosofi non potranno mai scoprire nei libri, poichè la vita non si svela che alla vita. Il segreto amplesso del passato e del futuro nella stessa coscienza si rivela a coloro che tutto il passato hanno vissuto, sudato, pianto, baciato, morso e masticato e che vogliono fra le carezze o le gomitate della morte vivere, baciare, masticare e soffrire il loro futuro.

I fanti della brigata Casale mi appaiono come astri nella loro atmosfera gassosa di luce azzurra. Atmosfere ruotanti che si sfrangiano simili a ruote dentate della gran macchina della battaglia. Il mistero mi avvince, la divinazione mi incoraggia. Ogni ruota è formata, tessuta di innumerevoli piccole ruote. Più queste piccole ruote snelle e combacianti sono numerose, più l’alone o ruota globale chiude fortemente il nucleo che è più compatto. Quando è facile decifrare e contare le ruote secondarie che girano sul combattente, questo ha un nucleo più fragile e più scoperto; e la massa di sensibilità vissute, ondeggiando elasticamente e agganciandosi ad altri aloni, lo protegge poco o affatto.

Potenza della nostra razza meravigliosa e della sua sensualità dentata, polputa e coperta di bocche come una piovra! In quelle ruote azzurre vi sono tutte le forze affettive dei congiunti, amici, parenti, figli, madri, amanti e bambini che unite alle forze dei dolori e piaceri passati corazzano i combattenti. Avevo già ammirato la bella qualità d’uomini che distingue la brigata Casale, uomini forti, agili, scattanti, con muscoli visibili, denti e capelli ben piantati. Li ho sentiti i migliori della razza eletta perciò capaci di amare, più amati, più ricordati, più istintivi. Amici del sole e del mare, sanno agire bene senza pensare, hanno quasi tutti oggi un forte alone azzurro d’affetto e di coraggio protettore; vincono, vinceranno, hanno già vinto, ne sono sicuri.

Infatti mentre cresce dovunque la spavalderia gesticolante del sole scopando via con le sue lunghe scope d’acciaio e d’oro flessibilissime le immani matasse di fumi, nebbie, fragori, rumori, io constato che fra questi combattenti dagli aloni azzurri vi sono pochi morti, molti feriti, ma questi raggianti e sicuri d’una prossima più forte salute domani.

Tre ore dopo rientravo al Gruppo. Riordinamento delle linee telefoniche rotte. I guardafili corrono sulla strada. Uno porta l’apparecchio telefonico, l’altro rotoli di filo. Incontro dei porta-ordini in biciclette veloci che ondeggiano su e giù nei vasti buchi scavati dalle granate. Il fuoco austriaco rallenta sempre più. Giungono le ultime granate colleriche disperate. Trovo al Gruppo bombardieri le prime notizie e le voci che corrono false, vere, imprecise. Molti feriti, pochi morti. I nostri muli massacrati. I nostri fanti contrattaccano con gli Inglesi a Cesuna per riprendere i 300 yards perduti. Una baracca nostra vuota in fiamme. Il bombardamento austriaco si accanisce ancora su Campiello. Gli Austriaci hanno preso cima Ekerle agli Inglesi. Molti colpi sono caduti su Piovene e su Schio. L’offensiva austriaca è generale dal Val D’Astico fino al mare; con fluttuazioni la linea nostra resiste poderosamente. Sento nell’aria la sicurezza della vittoria.

Alle 10 il bombardamento che è cominciato alle due e mezza di notte è completamente cessato. Val Silà riprende la sua fresca anima alpina, bacinella di silenzio puerile, tenero, nostalgico. Ma l’invade un nuovo frastuono veramente inaspettato. È il corteo orchestrale di ieri sera che gira spaccando i timpani colla virulenza delle latte percosse, i lazzi, i pernacchi. Hanno aggiunto due chitarre e un clarinetto. Il direttore impazzisce gesticolando di gioia; sembra guidare buffonescamente l’anima ancor commossa della Patria alla fiera finale dove saranno macellate e mangiate dai panciuti e ghiotti cannoni le mandre austriache.

Mi addormento in baracca affranto, soddisfatto. Sonno pesantissimo.

A mezzo giorno due nostre cannonate mi svegliano dandomi l’illusione di Ghiandusso battente alla mia porta. Grido nel sonno «Ava-a-anti». Ho preso due cannonate per un innocuo bussare alla porta, tanto il mio sonno fu profondo.

Tre giorni dopo il generale Monesi in automobile si ferma davanti alle baracche del Gruppo. Entra, allegro. Eccellenti notizie. Con la sicurezza di un generale vittorioso, dopo avermi detto di avere assistito alla serata futurista di Brescia mi parla del piano fallito degli Austriaci che speravano di tagliarci fuori facendo cadere tutto il massiccio nostro (Forte Corbin, Cima Arde, Cesuna) giungendo al Cengio e poi al Pao con un aggiramento. Le nostre posizioni perdute del Tonale sono riconquistate. Asiago, il Grappa sono fermi. Abbiamo perduto una parte del Montello sul quale pesa lo sforzo principale degli Austriaci, che sono però contenuti.

Il generale Monesi parte sotto una pioggia dirotta, mentre si straccia il nebbione agitato e dilaniato dal vento che sale da Val D’Astico inesauribile caldaia di nebbie. I nostri 75 campagna non tacciono mai e i loro proiettili hanno dei rumori di siluri sull’acqua.

Ptoo!... fisssss

Pto! Pto! Pto! fiiiiii

Ptoo! Ptoo! Ptoo! fiiiii

Il 19 giugno all’alba vedo venirmi incontro Zazà allegra e civettante con in bocca un foglio di carta, seguita dal suo nuovo corteggiatore Ligò cagnolino buffo incrocio di barboncino e di buldog bastardo. Agilissimo con mosse di cavallino, fulvo come Zazà ma frenetico di mosse, musino delicato con una strana punta rosea-nerastra, occhi acquosi-grigi, grazioso, intelligente, vivace, non più giovanissimo. È sempre in foia. Assale amorosamente Zazà e le strappa il foglio di carta. Io prendo a volo il foglio e leggo: «Bollettino Diaz – 9011 prigionieri austriaci e circa 300 mitragliatrici austriache catturate. Le nostre truppe stanno riconquistando il Montello e ricacciando gli austriaci nel Piave».

Il 21 giugno sera sorveglio e dirigo un lavoro di mine per piantare una nuova baracca. Tre bombardieri intorno al pistoletto conficcato in una piega della roccia. La mazza bene impugnata da braccia rudi gira sulla mia testa scintillando ogni volta rosea in alto negli ultimi raggi obliqui del sole. Il secondo bombardiere ogni tanto spinge il raschietto nel buco per togliere la polvere. Con cura introduco la sabulite, capsula e miccia. Tutti via a 50 metri di distanza. Il bombardiere dà fuoco e fugge

Tum Tum PRAANG

Poi i tonfi toonfi dei blocchi ricadenti. Zazà abbaia e corre mentre un porta-ordini in bicicletta arriva trafelato. Il capitano legge e mi comunica l’ordine di partire per Scandiano e raggiungere le squadriglie di Auto-Mitragliatrici blindate alle quali sono assegnato.

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