IV. UNA DONNA-PREMIO

Il 22 giugno, partendo da Val Silà a piedi seguito dal mio attendente Ghiandusso, che chiacchiera volubilmente, sento subito rinascere nelle mie gambe l’inebriante elasticissimo passo del Carso. La strada scende fra i grossi calibri Inglesi che gli artiglieri alti, biondi, casco coloniale e braccia nude ripuliscono cantando. Quelle voci aspre un po’ velate di marinai d’oltre Manica contrastano con le morbide ondate profumate del vento estivo che ci viene un po’ stanco dall’immensa pianura veneta giù sotto il Cengio.

La mia cagnetta Zazà sculetta, abbaia e m’invita a correre. Corro con lei fuori dalla strada. La montagna è tutta riplasmata dal bombardamento. Mi fermo e bevo la visione calda e nutriente della Patria coricata immensamente che sembra sollevare con ritmo felice l’ampio petto della pianura tatuato di strade e villoso d’alberi che il sole imbrillanta di un sudore dorato. La città e i villaggi sono i suoi amuleti.

Oggi è il 22 giugno; 22 doppio di 11, mio numero preferito, numero fortunoso che mi lega alle forze favorevoli e all’Italia.

A Campiello fra tre buche profonde di 305, trovo il mio carrozzino con mulo e bagagli. Tutti su con Zazà abbaiante. Ghiandusso dice:

— Guardi quella granata da 280. Non è scoppiata. Dorme nel suo buco come un porcellino. Mi sembra di andare alla fiera.

La strada già rovente è piena di soldati inglesi che corteggiano con omaggi incerti le belle popolane italiane. Ghiandusso sentenzia:

— La guerra è stata fatta per mescià le rasse!.

Giungo a S. Orso, Comando della decima armata. Io provo sempre uno schifo istintivo nell’entrare nei comandi. Quasi sempre deprimentissimi ambienti dove regnano due generi di imboscati odiosi: gli sgobboni arrivisti, pavoni e tacchini di Stato Maggiore che antepongono sempre la loro carriera alla Patria e i fiacconi rammolliti che pensano unicamente a migliorare la mensa e allo champagne. Ho inoltre un profondo orrore per i generali che hanno quasi sempre delle civetterie ridicole di vecchie mantenute. Ma Caviglia fa eccezione e il suo ambiente è quasi degno di lui.

Mi riceve affettuosamente e subito mi descrive sul plastico la battaglia del Montello, precisandomi tutti gli errori e tutte le correzioni già suggerite e in parte compiute con successo. Con la sua sorprendente calma ultra-piemontese, alto, freddo, pochi gesti, assoluto equilibrio fisiologico, armato d’un buon senso spoglio di frasi, egli parla del maneggio delle fanterie che non fu lodevole. Disapprova i due attacchi sui fianchi del Montello che furono come era prevedibile massacrati dalle artiglierie nemiche. Bisognava invece sferrare un attacco unico centrale, con 4 reggimenti, dopo avere simulato con un violento bombardamento le due azioni ai fianchi.

Caviglia dice:

— Badoglio ha creato un meraviglioso schieramento di artiglierie... Quando Badoglio ha il tempo di riflettere è un generale capace e potente. Ad ogni modo è il nostro miglior generale.

Caviglia parla poi del Duca D’Aosta che era a Fogliano quando gli austriaci irruppero sulla nostra riva. Fu più volte invitato a ritirarsi, rispose sempre «No, rimango!» Il duca è un uomo coraggioso, freddo, e di gran buon senso. Quando gli sottopongono dei piani militari li esamina bene poi dice spesso: «Non vanno, portatemene degli altri». Riesamina, accetta o rifiuta senza boria, nè presunzione. Ha un ottimo capo di Stato Maggiore: Fabbri. Dall’Astico al mare il morale delle nostre truppe è semplicemente meraviglioso.

— Ho visto i rincalzi assalire gli autocarri partenti per la linea con gioia trionfale. La popolazione del Piave è pure calma, sicura. Durante la battaglia del Montello ho visto i contadini arare la terra, e i bambini in piedi attenti intorno ai 75 campagna controbattuti.

Parto da S. Orso con la convinzione che Caviglia è veramente il capo predestinato a stringere nel suo congegno volitivo, intuitivo e decisivo tutte le probabilità favorevoli e sfavorevoli, tutti i calcoli, tutte le forze degli uomini, della pioggia, del sole, e del terreno come altrettanti fili convergenti a quella meravigliosa tavola di commutatori elettrici che ha nel cervello. Bisogna che ad ogni costo Caviglia abbia il comando supremo della prossima immancabile battaglia finale.

Schio è tutta sonante di canti al sole, quando vi entro sul mio carrozzino. Non riconosco quasi più la cittadina che sonnecchiava quest’inverno sotto le alte batterie austriache sdegnose. Oggi è veramente fiera d’aver subito i coiti furenti dei 305. Sulla piazza, incontro la fanfara dei primi bersaglieri che tornano dal Piave.

Esplosione lirica del pomeriggio infocato. Passo aggressivo, fucili e tascapani fioriti, tutte le trombe al cielo spinte su dalle rudi facce di cuoio lucenti di sudore. Sopra, squilla il sole come la più bella tromba bersagliera lanciata in alto nel ritmo danzante della marcia.

Vorrei proseguire, ma non posso, tanto la massa irruente di quelle forze guerresche mi s’avventa con prepotenza sul viso, preme su di noi come un Simun di gioia selvaggia. Gridano capriolando davanti ai bersaglieri i monelli in delirio. Le porte delle case, le finestre, i balconi spremono grappoli di donne e bambini scroscianti applausi, fiori sui cani abbaianti. Zazà si slancia, ma la ripiglio a volo, e tenendola fra le gambe guido a destra il mio mulo che dà calci con un’imprevedibile anima poetica.

Mi viene incontro a ondate sbatacchianti, l’anima italiana tempestosissima, irta di belle pazzie, scamiciatissima. Dei bersaglieri riposano la bocca e se l’asciugano mentre gli altri a gote gonfie sembrano dilatare le case con globi violenti di suoni scagliati al cielo. E gli occhi ridono, e tutti ridono. Dietro le prime trombe marziali e cadenzate, saltellano si sganasciano e si divertono altre trombe mattacchione.

Abbiamo vinto, tutto è permesso. Vi sono molte donne a guardarci. Spandono buon odore i bei seni accaldati sotto i capelli pesanti. «Un bacio, via, bella mora, non fa male! Che belle chiappe... Evviva la fila, signor tenente... Vieni giù biondina! Viva i bombardieri!... Viva i bersaglieri!... Viva la fila dei bersaglieri che resiste a tutti i colpi!»

Un bersagliere colossale sembra quasi ingoiare la sua tromba, poi si curva fingendo di cadere a destra, a sinistra buffamente. Ogni tanto uno sgambetto all’amico davanti, una gomitata a sinistra e colla mano destra rema rema accarezzando le facce delle donne. Quella curva lo magnetizza: un pizzicotto. Colla mano sinistra scuote in alto la tromba bavosa mentre la sua mano destra arrotondata sulla bocca prolunga il suono dei pernacchi tumultuosi e dei lunghi uuu... uu-uu-uu- uu-uu-uu prr prr prr prr oooooooo aaaaaa.

Bacia tutte le donne per forza. Queste stizzite ridono, strillano, ruzzolano quasi sotto il peso brutale nello schiamazzo dei bambini e dei cani. Il sole volantista arroventato ritto nel polverone incandescente delle strade celesti, gonfia dall’alto dei gas di gioia insalamandoli nella strada come in un enorme pneumatico torrido.

Il mio carrozzino segue la corrente di quella passione popolare ed ecco a 100 metri da una strada laterale sbocca un battaglione scozzese.

Contrasto prodigioso. Passo lento in cadenza, saggio, ritmato, monotono col dolce ondeggiamento dei gonnellini quadrettati color pinete alpestri, giubba kakì, berretto in forma di barchetta rovesciata sull’orecchio, fasce a mezzo polpaccio fissate da nastro e fiocco rosso. Splendore dei cuoi e degli ottoni. Tutti calmi con l’azzurro mite degli occhi rapito ai cieli di Scozia, tutti obbedienti per sempre al peso del fucile e degli zaini eleganti. Accompagnano la marcia con una melopea che senza urto s’innalza, si spande

o-eee o-eee o-eee hurraaa!
o-eee o-eee o-eee hurraaa!

I bersaglieri salutano con tutte le trombe alzate, pigiano donne e bambini sulla sinistra e offrono con un frastuono infernale la destra all’altra razza che passa.

Lenta – grave – forte – solenne. – Uno – due – uno – due, con piccole risatine brevi negli occhi senza voltar la faccia, uno – due, uno – due, venuti da lontano e sicuri della strada futura marciano gli scozzesi. Quando il tenente dà l’ordine, allora soltanto i pifferi nordici spruzzano allegria, e le sacre zampogne incominciano a gonfiare pance e mammelle con gioia comandata fra le braccia degli antichi montanari gonnelluti che le portano maternamente – nazii iii ziii biii biuu.

I bersaglieri suonano il tippereri senza parole urrara pum – pumb papapapum – pumb para pum pum-pumpum.

Rispondono gli Scozzesi

Adioo miabeladioo.

Passa il carreggio Inglese. Lussuoso scintillio di ottoni sui cavalli fortissimi. Zampe ingonnellate di lunghi peli. Il sole sembra ruzzolar giù magnetizzato sui finimenti ghiotti di scintille. In alto sui carri verde scuro pieni di cose ricche inutili i guidatori in kakì faccia rossa polverosa colla pipetta all’angolo della bocca.

Dietro, vengono più grandi, terremotando, gli autocarri inglesi, scatoloni colossali o palchi automobili per assistere ai cortei. Smisuratamente sproporzionatamente. I volantisti, pipino in bocca, faccia rossa polverosissima sembrano arrampicarsi come topi sui volanti.

Questo secondo autocarro è ancor più grande. L’ultimo gareggia con le case. È forse una casa di Folkestone col suo giardinetto a guisa di strascico. Portano tutto con loro gli Inglesi. Ogni battaglione trascina una città di case dinamiche riboccanti di spettatori.

Noi italiani combattiamo quasi nudi, ma ognuno ha purtroppo nel cuore un pensile giardino di donne-fiori i cui capelli pesantissimi ci incurvano in avanti sui golfi lunari del pericolo.

L’indomani sera in treno per Verona leggo il trionfale comunicato di Diaz: «Dal Montello al mare, il nemico sconfitto ed incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave».

Alla stazione di Verona quasi buia mugola asserragliato e ribollente uno dei reparti d’assalto che va a riposo. Odore acre e mordente di belve vittoriose. Ballano nelle corse e nei gesticolamenti i fiocchi dei fez neri tra il vociare turbinoso, le gomitate e gli spintoni. Gli arditi hanno occupato il caffè della stazione. Si intravede un rimescolio di braccia nude stantuffare e rubinettare fiaschi di vino e bicchieri di birra, fra una fantasmagorica agitazione di luci azzurre e di ombre caricaturali. Ogni discussione sembra una rissa. Tutti si pigiano. Fame e sete azzannante e arraffante nel buio. Grandinare di bottiglie, bicchieri. Bestemmie degli ufficiali presi nei vortici della folla grigia-nera che non cede, resiste alle lente sbuffanti locomotive in manovra coi meccanici che si sporgono gridando.

Mi sento chiamare. È il colonnello Trivulzio alto montanaro dal viso sessantenne alcoolizzato ma solidissimo, occhi giocondi vivacissimi, pipa in bocca. Ha lasciato il suo reggimento di fanteria per il comando di un reparto d’assalto. Fra le gomitate, gli urli dei suoi fez neri, mi racconta:

— A Meolo, c’era da ridere. Una battaglia di clown e buffi napoletani. Vero bordello pieno di risse di avvinazzati. Ma quanto sangue e quanti morti! Però tutto era allegro. Non ho mai visto tanta confusione. Pensa, una nostra mitragliatrice tirava su una mitragliatrice austriaca che tirava su una nostra mitragliatrice! Una nel culo dell’altra. Tutte e 3 sulla stessa riga. Non si capiva dove era la linea. La linea oscillava continuamente. Alberi spaccati, reticolati che non prevedevamo, tutti i fili telefonici rotti. Ad un tratto, io mi avanzo con una mitragliatrice in una boscaglia e sbocco in un prato. Ma, ta-ta-ta-ta-ta... due, tre mitragliatrici austriache! Ai! ai! indietro, indietro! sono troppi, siamo pochi!

E il colonnello Trivulzio descrive con gesti comici questa subita ritirata buffissima di gente scottata.

— Ci rannicchiamo dietro gli alberi, 50 metri indietro. Tre secondi. Altri fez neri ci arrivano alle spalle come scolari in baldoria. Subito tutti in piedi ci slanciamo nel prato. Che casino! Che casino! Ma vi era una sicurezza straordinaria! Avevamo la vittoria nelle ossa. Avanti, indietro, si perdeva, e riguadagnava. Si perdeva con strafottenza di ricconi alla tavola del giuoco. «Dobbiamo far saltare quei tre cannoni?» mi domanda un caporale. Tutti rispondono: «No, no, no, per carità! Glieli prenderemo, non facciamo saltare nulla. I cannoni sono nostri e torneremo fra mezz’ora a riprenderli.» Eravamo tutti tranquilli come Battisti! Trenta pariglie di cavalli nostri furono prese dagli austriaci e riprese da noi mezz’ora dopo.

Attraverso la calca con Zazà nelle braccia e fuori per Verona buia.

Qualche bettola, a ciglia semichiuse. La sbornia già spinge fuori i gruppi-viluppi, le coppie-canore e gli arditi pugni e pugnali pronti fieri, irritatissimi di non veder davanti a loro la città inginocchiata con tappeti di donne morbide sul selciato, lampade e giardiniere di donne ai balconi. Sotto un portone nero, una zuffa fra carabinieri e arditi. Intervengo poichè un enorme carabiniere ha avvinghiato e porta sotto il braccio poderoso un frenetico magro ardito che batte coi piedi l’aria con ritmo di telegrafia Morse.

— Via, non si trattano così dei soldati vittoriosi.

— Ma, signor tenente, mi ha sferrato un pugno nel naso. Guardi come sanguina.

— Lo lasci andare, è ubriaco. Bisogna concedere una sbornia agli eroi.

— Se lei me lo comanda, signor tenente, lo lascio andare.

Ecco liberata la belva gloriosa nella città buia. Avrò delle noie, ma non importa.

Giro tutta la notte cogli arditi aizzando e moltiplicando i canti, ebbro non di vino ma di quell’alcool trasfigurante che tutti i filosofi sognano di sciogliere e distruggere nei lambicchi meticolosi e freddi e che si chiama Patriottismo. In questo senso non diverrò mai un antialcoolico.

All’alba nello scompartimento di seconda classe che mi porta a Modena trovo finalmente il Premio che mi offre la Patria.

Un’italiana veramente bella. Bruna, delicata, morbida e flessuosa. Trentenne, con occhi capelli e denti eccezionali. – Ma adagio! Ve la descriverò a poco a poco. Freno tutti i miei slanci compreso quello del mio lirismo descrittivo. La contemplo sommerso nell’ammirazione. Ghiandusso la guarda estatico. Zazà le si accuccia vicino, quasi sulle gambe. Io attacco discorso. Pronto, incalzante, intuitivo. La sento entusiasta della vittoria. Parlo della battaglia. La bella signora ascolta, vive tutti i gesti. Si chiama Rosina Millari di Oderzo. Ricca profuga un po’ sperduta, poichè non ama i parenti che la ospitano. Deve passare la giornata a Modena senza scopo per raggiungere la sera stessa una villa fuori di città. Invito la bella a colazione. Esita. Ma le forze mi sono favorevoli. Non si può veramente rifiutare nulla a un soldato vittorioso. Alla stazione di Modena non si può mangiare. L’affollamento dei soldati ci costringe a uscire al più presto coi bagagli suoi e miei, Ghiandusso-Zazà, tutta una famiglia improvvisata e poco dopo installata all’Albergo d’Italia.

Ho l’anima di un soldato italiano. Sapete cosa significa avere 40 anni, del genio, molto fascino, una potente irradiazione di idee personali nuovissime e sane, regalate al mondo, dei poemi potenti creati, altri da scrivere, e nondimeno volontariamente e con entusiasmo giocare il tutto con disinvoltura per la propria terra e la propria razza in pericolo?

Mi direte che un tenente di più al fronte è poca cosa. Ma questo tenente ha un nome luminoso, una parola eloquente, diventa perciò un esempio, un faro, un richiamo, una bandiera vivente di coraggio e fede per tutti coloro che credono in lui. Ecco ciò che sono. Un accumulatore di energia patriottica, utilissimo e assolutamente disinteressato. Militarizzare così il più ribelle dei temperamenti, disciplinando e strangolando il proprio orgoglio, sempre sull’attenti davanti a dei superiori che non lo sono. Ecco degli eroismi profondi e dolorosissimi che meritano, cari passatisti e care passatiste, dei premi da afferrare con mani rudi e pochi riguardi!

Nella camera dell’Albergo d’Italia io entrai come si entra da un pasticcere quando si è stati privati di zucchero per molto tempo. Parlai d’amore con lirismo variopinto e modulatissimo offrendo tutti i trampolini vellutati alla dedizione della bella donna, ma in realtà io la conquistavo si può dire d’autorità.

Non era una corvée che imponevo ai nervi della mia amica, li mandavo anzi in licenza sulle spiagge d’un gran mare di voluttà perchè vi guizzasse il suo spirito al quale io superiore cortese insegnavo a nuotare.

La stanza era accesa dai riflessi delle mille bandiere che infuocavano le facciate delle case. Mobili giardini pensili. Rosso che sembra veramente ringiovanito. Il verde vile di Caporetto è diventato un verde Piave, un verde Mare Adriatico, diventerà un verde Isonzo. Il cielo incandescente sembra roteare come un viluppo gesticolante di bersaglieri scamiciati, feroci, urlanti, la bocca piena d’Italianità selvaggia e d’orgoglio, amore – vendetta – rapina – eroismo – maffia.

Mi voltai per seguire la bella mia affaccendata nell’aprire i suoi bagagli. Un morso delicato nella nuca. Poi la svestii. Si lasciò fare languidamente, con tutte le moine che distinguono le amanti venete e il loro chiacchierio di uccellino che maledice la gabbia, implora la libertà e non conosce altro cielo che quello che brilla nell’acqua dello scodellino. La stordii di baci e di carezze infinite. La presi e ripresi con foga, con slancio, delirando. Poi mi fermai. Buttai sul divano l’anima che mi aveva servito fino allora e ne tirai fuori un’altra dalla profondità dei miei nervi.

— Bisogna, pensai, che io valuti con precisione scientifica e occhi di buongustaio il premio offertomi dal destino.

Imposi dolcemente silenzio a Rosina che si accaniva a dimostrarmi l’imbecillità paurosa di suo marito notaio, pedante germanofilo, disfattista, imboscato malgrado una buona salute e i suoi 25 anni, e le dissi:

— Cara Rosina, sei troppo bella per coprirti con una camicia, toglitela. Voglio analizzare la tua bellezza con cura e prendere delle note.

Salto dal letto prendo il mio libretto di note dispongo bene il corpo nudo e coricato di Rosina:

— Chiudi gli occhi. Bene!... ora aprili!

Occhi meravigliosi. La cornea lievemente azzurrina venulata agli angoli da piccolissime venette sanguigne, nuota in uno strano rosolio dorato. La pupilla è nera cerchiata d’oro scuro...

Rosina è stupita, trattiene la sua allegria mi lancia un’occhiata brillante e maliziosa che si lega bene al sorriso. Ecco il sorriso sboccia, mobile losanga, e fiorisce tondo sui denti piccoli, freschi, bianchi, saporiti. Penso ad una giovanissima Madonna di Raffaello, ma più calda, passionale, dietro i cristalli di una limousine veloce.

Io amo i seni piccoli, vivaci, spiritosi. Questi di Rosina sono invece un po’ grassi e lievemente materni. Ma la bella cupola militare del ventre è perfetta. Sotto l’ombelico una lievissima depressione perpendicolare discende, piccolo sentiero appena marcato e si perde nell’ombra triangolare fra le cosce. Ancora più ammirevoli. Hanno muscoli sodi, mascherati dalla più dolce carne. Bei cuscini soffici e nuovi con ricche molle di muscoli.

Ma Rosina si annoia di tanta estetica scultoria. Nuovi baci, nuove carezze e nuova pausa con relativo chiacchierio sul marito che Rosina critica ora come un vizioso parassita amico delle prostitute.

Il nostro dialogo è interrotto da un balzo di Zazà che vuole accucciarsi fra noi.

La mia cagnetta di guerra non conosce le donne. Ha sempre vissuto in mezzo ai soldati ed è decisamente ostile ai dissolventi profumi carnali. Mi ammonisce abbaiando, richiamandomi all’antica castità. La caccio via, rimbalza su. La mando dall’attendente nel corridoio.

Io sono ormai sufficientemente premiato. Ho centellinato e masticato deliziosamente tutte le ghiottonerie di quel letto imbandito come una tavola di re.

Nell’annotare sul mio libriccino la mollezza soave delle due bende di capelli che coprono le piccole orecchie di Rosina ho sentito gonfiarsi nel mio cuore un oceano di pensieri e ormai il mio spirito vi veleggia sopra, con le sue vele date al tondo soffio delle purezze astratte.

Dico a Rosina concludendo:

— Non ti potrò mai dimenticare, poichè sei veramente la figlia del nostro Piave devoto e della vittoria!

Poi soggiungo:

— E anche la figlia della luna augurale!

Così, sporgendomi al balconcino, salutai la luna che avevo maledetto il 27 ottobre sul Carso, tutta gialla, allora, insozzata forse a dipingere bandiere austriache.

Un’ora dopo ci accompagnava in carrozza rotolando in alto grassa, bianca e felice la luna enorme. Fresca campagna dilatata dalla gioia della vittoria. Passiamo sulla Secchia, rapita anch’essa di gioia lunare.

— Non cercarmi, non scrivermi, ti scriverò io, mormora Rosina abbracciandomi. Mio marito è geloso, ti ucciderebbe!

Sento che Rosina sta per trasformare suo marito imboscato in un ardito.

— Non venirmi a cercare, ripete Rosina, verrò io a Milano da te.

Non l’ascolto. Penso di dare al mio prossimo poema i ribollimenti e formicolii d’argento della Secchia che scorre dolcemente quasi nel mio cuore. Le vigne alte sospese a braccia spalancate, aggrappate ai gelsi mi danno colle loro grandi ombre nere animate dei consigli energetici. Il vecchio cocchiere porta ora in equilibrio sul cappello a cencio la pletorica luna piena. Vorrei affrettare il passo del cavallo. Sono stanco di voluttà. Le ruote della carrozza svegliano in me il ritmo pneumatico della mia futura blindata, nuova amante per le velocità della prossima vittoria.

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