VIII. GLI EQUIPAGGI DELLA LUNA SBARCANO A RAPALLO

Possiamo ormai tutti in squadriglia languidamente rallentare nella grande magia dei profumi notturni, fra le diafane aeree mani lunari che viaggiano nella brezza e supplicano i giardini di bagnarsi nel mare. Quando entriamo nel giardino del Casino delle Delizie, la luna alta armata di tutti i suoi fascini si è già impadronita del golfo meraviglioso.

Dall’alto cassero di madreperla la Luna ha calato la sua lunga scala nell’acqua intenerita. Subito ha messo in mare i suoi canotti bianchi costruiti con la polpa di favolose noci di cocco. Gli equipaggi della luna vengono a terra alzando in cadenza fuor dalle onde i lunghi remi d’argento, perchè ne grondino perle innamorate e sguardi spiralici di bionde bionde che quando dormono guardano ancora coi loro denti di perle. Clic cloc gott gott plic ploc sotto la prua. Languida sonnolenza di acque tessute di corpi in fuga, volubili, che si sciogliono sotto la carezza delle pale scivolanti.

I rematori hanno il corpo nudo plasmato d’argento vivo, ma tornito, senza frange, intriso di luce intensa che non abbaglia, anzi seduce gli sguardi. I loro visi sono mandorle d’argento, e vi scorrono sopra gli smeraldi degli occhi che guardano e si celano sotto alghe verdi.

Quando a braccia tese fanno leva sulle pale affondate, i rematori rovesciano le facce bianche sotto una doccia di latte immateriale. Bevono un sorso lungo poi rapidamente insieme si leccano le labbra colla lingua di rubino acceso, serpentello di fuoco sull’argento del viso.

Un’immensa dolcezza preme sulla montagna boscosa che digradando scende sino agli ultimi coni circonflessi di verdura di Portofino, vasca d’angeli. «Venite giù, venite giù, Monti, rocce, terrazze e giardini; nell’acqua tenera abbandonatevi!»

Nell’estasi dilagante, gli equipaggi della Luna intonano un canto grave, pieno di serena malinconia che sale sale sale allargandosi, si ferma lentamente, ricade estenuato. Ma con scatto improvviso, eccolo di nuovo in alto su quella nuvola di tiepida neve abbagliata. La voce trema in un do bianco prolungato con tale soavità da rapire nel sogno i giardini coricati sul mare e soffocare alla gola gli alberi svegliati in una straziante voluttà di piangere. I lunghi canotti della Luna hanno ora tutti i remi alzati, le pale grondanti di perle, ad aspettare che il canto solenne ricada finalmente giù dalle troppo fredde nuvole nel grembo carnale del golfo.

Perversamente il Casino delle Delizie protende le terrazze a scaglioni, le balaustre curve appassionate, gli aloes infilzanti, le rose suicide alle ringhiere e le vetrate spalmate di stelle e levigate dai pianti del mare. Frusciaaare, schiumaaare, tubaaare delle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e come culle rimorchiaaate dai profumi del maaare.

Il Casino delle Delizie offre una magica festa ai suoi invitati. Sotto le quercie e i pini ombrelliferi una orchestrina di nervi e fibre, tremolanti archetti di pudore, clarini di mandre sognate, tamburelli-cuori rapiti al petto delle bambine, chiama gli usignoli a spasso nei dintorni, perchè le armonie non siano troppo flebili.

Ed ecco gli usignoli saltellare fuori dai piccoli tunnel fronzuti e inoculare l’adamantino sangue del loro canto nelle ramificate arterie del silenzio, sotto le palme che spandono l’anima sognante del Nilo. Giungono i primi invitati: ufficiali e soldati mutilati. Il loro incedere ha un ritmo sincopato sulla ghiaia scricchiolante dei viali. Scatti obliqui e cadenze rotte che scuotono l’estasi generale.

Ma sono bene accolti, e piovono i gorgheggi e le fughe a ventaglio di perle sonore fra un diluvio di profumi.

Le ombre della notte e le forze della dolcezza lunare non sdegnano, ma avviluppano con mille carezze e moine questi corpi umani preziosi che l’affamatissima battaglia ha rosicchiato.

Alcuni si affacciano alle terrazze tonde, prue illusorie con alti pennoni e bandiere addormentate. Ben diverse da quelle che aizzavano come mantici il fuoco del sangue nelle risse per l’intervento.

Altri vanno oscillando su passerelle che ricordano i transatlantici. Ogni mutilato insegue, sembra, col suo movimento troncato il membro rapito che certo non dorme in un cimitero del fronte ma vive, trasfigurato, la vita delle carni immateriali nella scìa della luna. O lassù, nell’elastico sorprendente tessuto delle nuvole.

I mutilati sono ricevuti dalle Ombre e dai Profumi che stendono amache penose, divani spirituali, cuscini di sospiri.

Noi soli siamo materiali e pesanti. I nostri applausi di uomini interi stonano coll’imprecisa vellutata cortesia degli usignuoli e delle onde che stendono gementi tappeti d’argento per gli equipaggi della Luna.

Frusciaaare schiumaaare tubaaare di onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e come culle rimorchiaaate dai profumi del maaare.

L’orchestra di nervi e fibre patetiche annuncia l’arrivo scivolante delle dame. Previdente pensiero dei grandi sarti inspirati che hanno fasciato appena di stoffe leggerissime quei mobili corpi femminili, perchè l’aroma della voluttà si spanda in giro inebriando le nari veggenti dei ciechi di guerra.

Gli usignoli supplicano le dame di danzare. Sono obbediti. E la musica tutta vortici e pennacchi vaporosi rapina i corpi delle donne. I ciechi le guardano a quando a quando poi godono la Luna. Allora le teste rovesciate all’indietro bevono il bianco fuoco d’amore coi loro tragici occhiali neri. Penso ai risucchi di piacere delle piccole rade buie incappucciate di verdura quando bevono la luna.

Noi facciamo danzare le belle donne ma non le tratteniamo. Anzi imponiamo loro di trascurarci. Tutte a gara sviluppano il flirt semilascivo coi mutilati nelle penombre favorevoli, per le scale coperte e gli spiralici sentieri che sgusciano dall’ombra e s’affacciano sullo splendore del golfo lunare. Coppie strane dove un agile corpo di donna giovane è accarezzato un attimo, ma preferisce accarezzare un corpo maschio infranto che zoppica, ondeggia. Questi tende una mano sola, e non può tender la bocca per baciare.

Il gesto della donna diventa materno per accarezzare un mento d’argento, che la luna subito con dolce meccanico furore salda alla carne. Ride il sangue del mutilato in questa bizzarra officina improvvisata di metalli innamorati e carni che sognano di metallizzarsi. Il torso di quel tenente bersagliere si rizza con forza nella pienezza della sua virilità.

— Non ho più labbra, dice, ma il bacio non è indispensabile in amore! Parlo male ma so cantare, e anche danzare... Che importa se la mia spina dorsale avrà poi bisogno di tre giorni di ossigeno per rimettersi? Ora che gli equipaggi della Luna sono sbarcati bisogna che io balli per dimostrare che si può far all’amore in mille modi sconosciuti. Questi profumi deliranti urlano come l’odore della balistite che mi bruciava sul Carso... Urlano, urlano l’eroismo e l’amore!... Balliamo e cantiamo. Questa è una nuova trincea dove però la nemica non ci fa male anzi ci nutre tutti col suo piacere. Se continua, mi guarirà! Farà, farà anche rinascere le mie labbra! Balliamo cantiamo insieme!

Ognun lo sa e ben ci conoscete
perchè l’allegria con noi portiam.
Un cuore ardente e gioventù abbiam,
un cuore ardente e gioventù,
se pur con le stampelle camminiam.
Chi siete?... Siamo la ganga
perchè amiam le bimbe, il vin
spumante e di Rapallo il mar!

I mutilati cantavano. Frusciaaare schiumaaare tubaaare delle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e rimorchiate dai profumi del mare.

Tre mutilati danzavano, cercando di aggraziare i gesti nascondendo fra i capelli delle dame i visi spaccati o cotti dalle esplosioni. Due altri, in uniforme elegante e accurata, mutilati d’una gamba all’inguine si rizzavano e sulle stampelle tentavano di cadenzare uno strano ritmo di nave rullante. Un alpino mi domanda scusa di passarci davanti danzando, poichè ogni volta la sua manica vuota sfiora il viso della signora seduta accanto a me. Questa è una signora milanese: grandi occhi chiari di bambina e bocca carnosa sempre ridente sotto pesanti capelli biondi che le imperlano la fronte di sudore. È buona, intelligente, piena d’imprecise indulgenze e facilità nei suoi flirt svariati. L’amai con passione 5 anni fa; poi la vita ci separò. Siamo molto amici. Le parlo da cuore a cuore e lei mi risponde con assoluta sincerità.

— Io adoro la danza, ma non ho mai avuto tanto piacere come nel danzare con quel tenente bersagliere dalla mascella d’argento. Io non mi capisco troppo: sono una civetta, forse qualcosa di peggio... ma tu mi capisci... Era così felice di stringermi fra le braccia. Siamo stati anche giù nel buio sulla riva. Ha tentato di baciarmi il seno, ho lasciato fare... Quando si è così poco vestite come siamo noi, signore, oggi, è molto facile cadere... Deve essere tanto infelice poveretto!...

... Da quando la guerra era scoppiata
Rapallo in silenzio qui dormiva,
ma tosto che la ganga è arrivata
il silenzio e la quiete qui spariva.
Chi siete?... Siamo la ganga
perchè amiamo i fiori, il cielo
azzurro e di Rapallo il mar.

Sono diventato l’amico d’un capitano alpino mutilato della gamba e coscia destra chiacchierone e gioviale. Questa sera certamente ha dimenticato ciò che ha perduto.

Gli dico che la mia bionda amica ha un capriccio per lui ed egli tendendomi il viso molto vicino mi sussurra con gioia visibile:

— Me ne sono accorto... Mentre eravamo giù insieme vicino all’acqua seduti ho preso la sua mano e l’ho portata sulla mia coscia metallica. Veramente ho notato un piccolo movimento come di scottatura che la sua bella mano ha avuto nel toccarla. Questo m’è capitato altre volte. Inconvenienti del nostro mestiere. Ah! Ah!... Io rimedio subito portando la mano della donna un po’ più su.

E rideva, rideva, con gioia infantile senza rancore per la guerra poiché gli aveva concesso questa notte di delizie. Poi riprese a cantare:

— Forza, orchestra!...

Quando noi passiamo ci guardate
e dite che siam pazzi tutti noi
ma le pazzie nostre perdonate,
perchè siam pazzi sì, ma un poco eroi.
Chi siete?... Siam gli sciancati
Chi siete?... Siam gli avariati,
perchè abbiam fatto l’Italia,
col sangue nostro e la gioventù.

La mia amica mi prende il braccio e mi sussurra:

— Vieni, andiamo giù.

— Farai soffrire il povero tenente.

— Non preoccuparti; tornerò da lui dopo. Ora voglio stare con te. Tu non sei un mutilato, ma mi fa un po’ paura vederti partire per il fronte. Non c’è più nulla fra di noi, ma io ti voglio sempre bene lo sai. E questa sera ho un desiderio pazzo, pazzo, pazzo che questa benedetta guerra finisca. Hai visto quei poveretti come sono conciati... Tu sai che sono una buona patriota, ma non capisco, non riesco ad ammettere, malgrado tutti i miei sforzi, la necessità di questa eterna, brutale carneficina.

Io chiusi la bocca della mia amica con un lungo bacio. Tanto più utile che prevedevo il lungo suo discorso contro la guerra e preferivo ascoltare quello più eloquente e più patetico che la luna prodigava ai suoi equipaggi lussuosi d’argento vivo remanti nei gorghi di perle:

— Abbandonati, anima, — cantava la Luna — sciogliti, dimentica, acquètati. Ho dei rosolii che dissolvono ogni collera, ogni ferocia; ho dei balsami che addormentano i rancori. Tutte le volte che ho voluto fermare la guerra m’è bastato colmare le trincee col latte benefico della mia luce e subito le sentinelle in vedetta hanno reclinato il capo invaso dal sonno e dal pessimismo tenerissimo, dimenticando le pattuglie nemiche in agguato. Le mitragliatrici avversarie non hanno avuto più per loro altro interesse che quello di un notturno apparecchio telegrafico o di cani abbaianti. Sono la dispensatrice del nichilismo perfetto, del dissolvimento totale e di tutti i soavi abbandoni alla deriva d’una qualche corrente molle di baci, alcool, pigrizie, o sogni. Io sola vincerò la guerra la notte in cui spegnerò con carezze troppo lente il sangue solare dell’uomo, costringendolo a disprezzare l’ultima attività aggressiva del coito per negare e sognare unicamente.

— Hai sentito, cara Amica, le argomentazioni della luna in favore della pace universale, eterna? Sono subordinate come le tue argomentazioni alla distruzione della vita. Alle origini lontane dell’umanità noi vediamo popoli accaniti offrire agli Dei cadaveri sanguinanti. Poi un Dio ebraico affamato anch’esso di carne umana. La terra nel suo viluppo d’atmosfere contiene delle forze dominatrici, intricatissime e difficilmente decifrabili che noi definiamo con parole inefficaci quali: primavera, gioventù, eroismo, volontà ascensionale delle razze, rivoluzione, curiosità scientifica, slancio del progresso, civiltà, record. Tutte queste Forze indubbiamente telluriche adorano il sangue umano, cioè la lotta, il bisogno di distruggersi vicendevolmente simboleggiato dalle onde schiumose del mare. Queste Forze dominano la maggioranza più viva dell’immenso formicaio umano. Maggioranza d’istinti selvaggi e implacabili, tutti più o meno sanguinarii.

La minoranza meno viva o stanca o vecchia o ferita ha creato le idee pure, i sentimenti puri, le vaste bontà, la soavissima pace, l’amore umano, ed altre astrazioni di dolcezza serena che varcando le montagne aspre dei desideri e le irte foreste delle ambizioni, dovrebbero finalmente pacificare tutte le razze imponendo loro un ritmo morbido come quello di questo golfo innamorato e fedele alla luna. La parte turbolenta e istintiva del formicaio umano è spesso affranta e disillusa del suo andare crudele e sanguinante. Si ferma ed ammira inebriata le soavi pigrizie affettuose che la minoranza saggia ha lanciato in cielo e che ormai navigano anch’esse imperiture sulla curva della Terra. Ma la sosta è breve, le Forze di voluttà aggressiva e di primavera crudele, incalzano di nuovo la maggioranza giovane e virile. Più furibondo che mai il ritmo di distruzione e di morte ricomincia, e se le contese piccole, minute non bastano, si afferrano a volo le vaste astrazioni di bontà e di pace per farne delle bandiere al nuovo massacro. Si scagliano le folle in guerra, massacrando gli uomini, per massacrare la guerra! Altri si slanciano su aeroplani a lungo perfezionati perchè possano varcare tutte le atmosfere e gareggiare con le stelle. Immagina, amica mia, qui in questo golfo quattro o cinque aviatori già pronti sui loro apparecchi dalle eliche rombanti per la grande gara. Immagina il loro dialogo.

— Dobbiamo, dice l’uno, assolutamente a costo della vita salire a 20 km. di altezza, vincere o morire, amici!

Poi a mezza voce al meccanico fedele:

— Hai bucato il serbatoio dell’altro aeroplano?

— Sì, risponde il meccanico con occhiata radiosa. Fra un’ora il vostro concorrente precipiterà in mare.

— Grazie, son sicuro di vincere, gli altri non mi fanno paura.

E così gli aeroplani della grande gara ultra-terrestre si slanciano nel cielo ove ecco appare il Rabbi di Galilea col viso più tragicamente pallido di quello crocifisso sul Golgota. Gli occhi al cielo disperatamente guardano con bontà infinita e tremendo dolore il Padre dei padri, riassunto di forze cosmiche che ha l’implacabile e muto X rosso sul viso di tenebra azzurrina. Il Rabbi piange e dice:

— Padre, tu mi hai trasmesso il germe della divina bontà e dell’assoluto perdono e quello più prezioso ancora dello sconfinato amore, ma essi vogliono soltanto uccidersi o lacerarsi a lungo per meglio assaporare il sangue. E in nome della bontà ritornano al massacro – e non si riposano. La loro forza dà la morte. Il loro amore è sanguinante. Il bimbo nascituro insanguina la madre per scagliarsi verso la vita. La sua vergine sorella sarà domani insanguinata dal maschio che la primavera frusta con le sue belle flessuose verghe di profumi. Padre tu hai creato l’amore: e per l’amore si fanno guerra. Hai dato a loro il sogno della bontà, ma questa scoppia con straripamenti di lave guerriere come un vulcano. Se vuoi che l’amore eterno, puro, e la bontà serena e la pace di cuori intrecciati regnino finalmente, spacca, spacca la terra, distruggila senza pietà!

E il Rabbi alto nel cielo piange, mostrando con le due mani aperte come fiammeggiano le ferite degli uomini. Ma la luna grida al Rabbi con un lungo stridente gocciolìo di cristalli:

— No! no! Non spaccare la terra! È mia! la cullerò, l’assopirò, la svenerò deliziosamente. Sarà pallida come me, finalmente pacificata in una vasta, continua voluttà carnale!

Giù intanto sulla riva gli equipaggi della Luna si imbarcavano. I remi riprendevano il loro grave sonnolento fruscia-a-are, fruscia-a-a-are fruscia-a-a-a-are schiumare tubare nelle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e rimorchiate dai profumi del mare.

Sparvero ad uno ad uno ritirando su, su fino al cassero della Luna tutte le scie d’argento, i canotti bianchi, e le vaste reti di profumi pieni di pesci d’oro guizzanti.

La mia amica languiva al mio braccio, io avevo sonno; ma i mutilati riaccendevano con le stampelle alzate l’orchestrina di nervi e fibre che sull’alta terrazza miagolava, strillava, singhiozzava come mille gatti in groviglio d’amore.

Il tenente bersagliere correva dimenandosi e cantando:

— Un valzer pazzo, il più pazzo dei valzer, vogliamo! È troppo lento, questo! Sfondiamo il pianoforte!

Con un pugno rovesciò a terra il pianista e si mise a tempestare la tastiera con le mani e coi piedi. Sradicò con un calcio il pedale e si sforzava di scandire un valzer terrificante colpendo, di tanto in tanto i bemolli col suo mento d’argento. Gli ultimi saluti della Luna, ironici, mettevano fra lui e la tastiera una risata candida di fiume africano che cento elefanti bevessero con proboscidi d’argento russanti come canne d’organo.

— Bisogna che la Primavera scoppi nel pianoforte. Mi sento nel sangue, e anche voi, cari mutilati, vi sentite nel sangue una Primavera diabolica, mille primavere equatoriali. L’Africa mi divampa nelle gote e arroventa il mio mento! Se non fosse d’argento sarebbe già liquefatto!

I mutilati intorno danzavano tutti, tutti, alcuni sulle mani e sui piedi come orsi, altri sulle stampelle, altri in bilico su un piede. Altri si rincorrevano come belve nei cespugli.

Fuori sulla terrazza, uno più ebbro degli altri, sull’altalena, abbracciato con una donna seminuda volava volava inargentandosi in alto di luna tra i fogliami. Certo un soprannaturale sciampagna li esaltava. Anche le donne erano impazzite. Una vergine bellissima si spalancò così a pochi metri di distanza, fra due rosai, al desiderio feroce d’un alpino, che, mutilato delle due braccia, realmente le mangiava di baci il viso, imprimendole il suo amore fra le poppe coi colpi reiterati del suo petto.

Un’ora dopo sulla soglia del Casino paradisiaco io gridavo ai miei amici:

— Male molto male! Siamo realmente avvelenati, avvelenati di chiaro di luna. Occorre immediatamente una sana furente bevanda di Velocità. Cento strade succhiate! Andiamo a Chiavari a tutta, tutta, tutta velocità. Sarà meglio di una corsa, un tuffo.

— Ah! ah! gridano tutti, ci sono però i passaggi a livello, carri, carrette, cani e marmocchi.

— Macchè! Tutto dorme ancora, scavalcheremo ogni ostacolo, saremo una ventata di ferro, proiettili, folgori, non lasceremo respirare il pericolo, strozzeremo la morte nel suo letto e capriolandole sopra le pizzicheremo i piedi senza morire!

Tutti in macchina. La mia 74 in testa. Padroneggio elasticamente il volante. La mia 74 ne gode. Corre, corre con lunghi brividi. Ronza il carburatore felice. Le candele sono eccezionalmente pulite. Ritmo perfetto. Martelli deliranti di precisione gioiosa. Sento nel cambio di velocità gli ingranaggi amoreggiare come labbra. Unirsi. Volere. Scorrere. Scattare. Forza vellutata. Velluto in delirio. Dolce aggressività delle ruote. Pneumatici danzanti aerei. Gas addomesticati disciplinatissimi, pronti a tutto, perchè si corra, corra, corra, corra un correre di corrente modulatissima oliata ebra di correre, quasi liquida e pur metallica, leggera e non di meno prensile. Docile alla strada ma come un maschio che imponendo sembra subire il ritmo della femmina beata. È beata di ricevermi la strada che si sbianca nei brividi delle prime luci spasimi sotto le ombre massicce delle montagne lungo l’ampio sussurrare del mare pieno di giochi di gatti bianchi che miagolando rincorrono a zampate, spruzzi di baffi rimbalzanti nel refe argenteo rapito alle vele della Luna. Correre, correre tuffandosi nella vegetazione nerissima.

Trapaniamo forse la midolla nera della notte?

Balza fuori la mia macchina. Oliatissima morbida mia carezza nel grembo di questa valle. La luce cresce come se colasse fuori dal mio motore cuore arroventato.

Ecco un altro tuffo nella penultima galleria... Interminabile... Mi pare di essere nel collo ebro, premuto, scoppiante di una smisurata bottiglia d’alcool. Il mio motore tira bene, bene. Esce, esce, escirà, deve escire! Sto sturando la bottiglia della valle lunga e nera con la pressione dei miei pneumatici-pollici che non cedono. Il cavaturaccioli è fortissimo! Forza! forza! Viene. Forza! Ecco!

Scatta in alto, il tappo rosso, Sole! Tutta la campagna colli, valli, mare spumeggia di luce bionda. Corriamo, scorriamo schiumeggiamo anche noi inaffiatissimi di rosso oro vaporante nel buon odore del caucciù che sa di pane caldo. Divino spettacolo allietatore. Il sole che fu un istante il tappo allegro ora diventa l’enorme faccia tonda e gonfia del bevitore. Faccia calda di metallo in fusione con sale, iodio, bromo, congestionata e gioviale.

Il Sole ha un nuvolone nero fumante fra i denti e lascia cadere giù il mare come una colata verde schiumeggiante di bava. Forte riflusso delle sue risate fragorose fra i pomodori degli orti e nel sangue dei nostri cuori che vincono definitivamente in salute i pomi d’oro delle Esperidi idiotissime sconfitte.

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