IX. IL DEPOSITO FA SCHIFO

Genova è in festa per l’American-day. Suono di trombe, folla, folla, folla. Balconi riboccanti, vasta primavera dilagante di toilettes femminili, scugnizzaglia sospesa sui capitelli.

S’avanzano gli inglesi. Elegantissimi. In testa un giovane tenente dandy con lo stick sotto il braccio. Furoreggia la banda Americana. Come un bambino gioca il capobanda issando in alto il lungo bastone d’argento. Più volte lo fa piroettare e intorno a sè lo mulina come per vestirsi di veloci ruote d’argento. Poi lo punta davanti imitando lo stantuffo. Il sole d’Italia squilla, scatta, rimbalza sulle trombe d’alluminio, si affanna a lucidare e abbellire quel popolo venuto attraverso l’oceano dal lontano pacifismo per fare anch’egli la guerra in nome della libertà minacciata. Il sole polemizza coi pacifisti anch’egli verniciando di giustizia vendicativa la primavera sanguigna dei Cow-boys.

Passano fra le due ali di popolo pigiato, variopinto che schizza bambini tra le maglie dei carabinieri. La strada è vuota.

Sono le Forze invisibili che la mantengono così vuota sotto la pioggia di fiori, fiori e cuori che cadono dai balconi.

Le Forze impongono a tutti un’incosciente ammirazione per le virtù guerriere e per l’eroismo prossimo-sicuro di questi nuovi soldati aggiunti a tanti altri impiegati laggiù al nuovo mestiere indispensabile di cannoneggiare.

Gli americani hanno l’aria di soldati improvvisati. Passo elastico dei pelli rosse. Questi lottarono nel Far-West per la loro libera razza perseguitata. Quelli imitano in Europa la spavalda e scattante agilità cauta, vellutata dei pellirosse fra le liane e nelle alte erbe.

Seguiamo la sfilata degli americani ordinatissimi, visi radiosi. Zampilla dai loro passi un ritmo di Cake-walk. Poichè sono sensibilissimo e il mio cuore subisce i pizzicati della mia immaginazione visionaria, io vedo in sogno le grandi masse americane rimescolate da sentimenti europei nei vasi capaci delle ampie città lontane. Vedo le masse americane canalizzarsi verso i porti, riempire gli enormi trasporti e in questo Waterland che contiene 12.000 soldati, traversare le lunghe monotonie astratte meditanti dell’Atlantico, poi colare come un fiume nelle città italiane e su, su ramificarsi nei budelli delle trincee sotto crollanti soffitti di ferro nella battaglia delle nazioni.

Ho un singhiozzo alla gola nel partecipare lucido e cosciente col mio corpo di soldato e il mio cervello faro onnipresente a questa fusione storica nel crogiuolo europeo.

Nella arena vasta si svolgerà una finta battaglia. Al centro un cinematografista è seduto comodamente come un pascià vicino al suo apparecchio mentre tutti sono in piedi militarmente. Simbolo del falso genio-letterato tipo Romain-Rolland che guarda, controlla e merita una bomba d’areoplano. Un fotografo punta la sua macchina sotto la seta nera lucida come una groppa. Sembra un toro, corna puntate e zampe posteriori aperte. O semplicemente un dannoso o inutile critico di strategia militare.

Una compagnia di allievi caporali italiani entra nell’arena. Allineamento perfetto. Geometria di linee. Tutti i torsi all’indietro come per tirare una fune. Tutti i torsi in avanti come per slanciarsi. Si vede il bianco dei polsini muoversi insieme, a distanza uguali, le braccia remare nell’aria con parallelismo stupendo.

Dieee-tro-front! fulminei, senza oscillazione, torniti. Ripiegamenti sui tacchi a gradi, a gradi, che sembrano arpeggiati e modulati come una risacca dolce sulla ghiaia. Flessuosità del movimento che dà a tutta la compagnia una snellezza precisa di onda.

Zazà, eroica e molto umana, abbaia d’entusiasmo per dimostrare che tutti gli esseri vivi amano i ritmi marziali.

Una risacca d’applausi annuncia gli Americani. Entrano e si dispongono su tutto il diametro dell’arena. Si tolgono la giubba e incominciano una meravigliosa ginnastica con ondulazione di alte erbe sotto il vento e relativi morbidissimi solchi scavati che gradualmente si chiudono.

L’entusiasmo è ancora ufficioso. Il sole esige uno spettacolo di lotta ed ecco pesanti e colossali i nostri artiglieri di montagna al tiro della fune cogli Americani. Primo strappo d’assaggio. Secondo più deciso. Al terzo gli artiglieri d’un colpo sradicano gli americani radicati patriotticamente nel terreno.

Il prorompente grido di Viva l’Italia fa impazzire Zazà che abbaia alla feritoia della mia 74. La finta battaglia incomincia con cannoni da montagna, muli e compagnie di mitragliatrici ci chiudono la strada. Ma la squadriglia passa trionfante senza far male a nessuno sotto i grandi fragori, fragori, rrrombi, rrrombi, rrrombi delle finte cannonate dei forti genovesi.

In alto, il Sole, gattaccio d’angora dal pelo d’oro, si lecca i baffi d’oro pregustando l’immancabile massacro di gran parte di quei giovani muscolosi e sani che sanno ormai anch’essi verniciare i propri istinti sanguinarii con nuovi ideali.

Il 24 luglio la folla genovese si accalca sul piazzale di S. Benigno intorno alla nostra 8ª squadriglia di automitragliatrici blindate. Tutte infiorate. Ogni comandante di squadriglia è ritto in piedi a 3 metri di distanza dalla sua macchina. Sono stato incaricato dal colonnello di ringraziare con un discorso le signore genovesi che hanno organizzato la festa d’addio colmando di doni soldati e ufficiali partenti per il fronte. Meriggio infuocatissimo. Il porto di Genova è irto di raggi rimbalzanti poichè il sole infierisce sulle masse di carbone, pugnali brillanti.

I ventagli blu dell’alto mare non rinfrescano i nostri visi di bragia. L’esposizione di quadri e complessi plastici futuristi è stata accatastata alla rinfusa nel porto, col groviglio delle sue fasce coloratissime.

Flavia Steno parla in nome delle signore genovesi con sobria eloquenza, ma indugia troppo a descrivere le sofferenze eroiche e gli orrori della guerra che i miei soldati sono contenti di affrontare.

Il sole di lava comunica per invisibili tubature col mio cuore, vasi comunicanti. Il mio entusiasmo sale per raggiungere il livello dell’entusiasmo solare ed insieme porta su la sintesi luminosa dei problemi da risolvere.

Poichè le donne patriottiche d’Italia hanno il difetto di piagnucolare troppo, poichè le altre meno patriottiche si lamentano dei disagi imposti dalla guerra voglio parlare senza diplomazie alle donne Italiane, dimostrando che l’ambiente delle caserme e dei depositi è talmente asfissiante di cretinismo e vigliaccheria da mutare la trincea in paradiso.

Parlo con tono rovente nel silenzio radioso mentre le campane antiche sgonnellano su e giù come donne ubriache sull’altalena.

— Donne d’Italia, voi che sentite fervere nel sangue l’odio per il nemico ereditario da scopar via ad ogni costo, non compiangeteci. Noi, nuovi Italiani, ben più alti sereni eroici dei nostri avi, siamo allenatissimi alle sofferenze eroiche della guerra!... Dopo 20 giorni di vita rattrappita, grigia, strangolata e un po’ pidocchiosa di caserma siamo felici di partire. Compiangiamo gli imboscati che amano il Deposito, poichè noi, nuovi Italiani, dopo 3 anni e mezzo di guerra siamo senza stanchezza e pieni di ottimismo fisiologico e morale. Il Deposito sappiatelo, il Deposito ci fa schifo schifo, schifo!

Rumori, brusio, grande emozione nel gruppo degli ufficiali superiori.

— E voi donne, così dette Italiane, che piagnucolate sulla mancanza dello zucchero, non vi siete mai domandato nella vostra sconfinata cretineria se avete nella zucca il sale sufficiente per vivere? Ricordatevi che noi continuiamo e vinceremo questa guerra difendendo e salvando così non soltanto la libertà di pensiero e lo spirito del mondo, ma anche ogni elasticità e lo chic, al quale tenete tanto, dei vostri vestiti e delle vostre case contro il peso professorale, la goffaggine, la balordaggine grottesca dei tedeschi!... Ma indovino in voi più ghiottoneria che amore d’eleganza, tanto più che scocca l’ora di colazione. Per ringraziarvi dei vostri fiori, o pseudo-italiane, vi porteremo tornando dopo la vittoria qualcosa che farà tacere finalmente i vostri pianti sulla mancanza di burro... Vi porteremo del buon grasso di cadavere austriaco, per le vostre tartine!... Arrivederci.

Evidentemente un alto e glorioso destino era riservato alla nostra ottava squadriglia. Dopo la grande vittoria del Piave 15 giugno il Comando Supremo preparò con perizia e con metodo l’offensiva generale predisponendo particolarmente le truppe celeri che dovevano fulmineamente lanciarsi nella prima ferita grave del fronte nemico. Le blindate costituivano coi bersaglieri ciclisti e la cavalleria queste truppe celeri, ma le tradizioni militari davano d’altra parte una importanza enorme alla cavalleria e una importanza minima e discutibile alle blindate. Nei circoli militari si negava la resistenza della blindatura non soltanto alle scheggie di granata, ma anche al fuoco delle mitragliatrici. Una volta colpiti i pneumatici cosa poteva fare una autoblindata? Come utilizzarne la velocità in caso di strade rotte e di guadi?

Tutte queste obbiezioni pesavano su noi, mentre le Forze predisponevano tutto in favore della nostra tipica e personale vittoria veloce. Infatti il 25 luglio giunge l’ordine di caricare su un treno tutta l’8.ª squadriglia. Risparmiamo così ogni sciupio alle nostre macchine che simili alle celeri Fiat dei grandi circuiti devono giungere vicino al campo di battaglia in assoluta efficenza. Portata a destinazione la 8ª squadriglia sarà immediatamente sottoposta a una prova di allenamento in una serie di brevi manovre con cavallerie e bersaglieri ciclisti.

Il 26 luglio io monto col capitano Raby e coi tenenti Bosca, Paccagnella, sulla mia auto-blindata 74 caricata su vagone aperto nella stazione di S. Albania nel porto di Genova. Tutte le auto-blindate caricate sono infioratissime. Folle di donne bambine alle balaustre del passeggiatoio. Piovono fiori. Sventolio di bandiere. Squilli di trombe. Ma non è la solita partenza per il fronte. Ci sentiamo veramente l’anima di meccanici e volantisti intorno ai motori terrestri o aerei destinati a vincere un record pericoloso, decisivo. Quando però la locomotiva fischia e il lungo treno sovraccarico di macchine da guerra irte di mitragliatrici si mette in moto l’infantile, chiassosa, patetica sensibilità popolare della partenza per il fronte accende fulmineamente tutti. In equilibrio fra i 2 taglia-fili della mia 74 io divento in tutto simile ai miei soldati e lancio a gara manate di cuore alle ragazze che sbocciano fitte ai balconi.

Prima fermata lunga a Sampierdarena, sull’alto viadotto ferroviario fra gli applausi delle finestre affollate e dei panni colorati sospesi alle corde. Tocco quasi con la punta delle dita la punta delle dita appassionate di due sorelline che mi mandano baci con nome e indirizzo. Sono brune. Capelli pesanti come i giardini liguri. Occhi che riassumono i languidi spasimi del Mediterraneo notturno. Labbra ardenti come le montagne di Sicilia coronate di boschi incendiati nei tramonti d’agosto. Denti bianchissimi e precisi come le casette strette tutte in fila bianca in fondo alle rade italiane quando si giunge sopra una nave veloce all’alba. Le due sorelle si chiamano Augusta e Vittoria. Mando loro i miei baci, ma vorrei berle poichè le sento fresche, colorate, ardenti e salate come due sorsi del mio Mediterraneo.

La mia anima futurista attraverso mille balzi elastici ha raggiunto la sua più divertente e sana trasfigurazione. È diventata l’anima d’una recluta di 20 anni.

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