XIV. UNA FESTA PETROLINIANA

All’Hôtel Baglioni di Firenze trovo un telegramma di Maria che rimanda a più tardi il nostro incontro forse fra 15 giorni a Padova. Me ne rallegro e a zonzo cogli amici inasprisco la mia volontà di prossima offensiva al fronte nel tepore vile della città cosmopolita, antiguerresca.

Però Firenze migliora. Gli alberghi di Lung’Arno trasformati in ospedale, sono ridiventati italiani. Da quegli eleganti piccoli giardini invernali la lingua italiana era quasi esclusa. Cubava, rotolava la goffaggine ia – ia – teutonica. Motoreggiavano tutte le rrrrrr snobistiche di Parigi Londra New York. Le bocche Americane mangiavano parole inglesi masticandole meccanicamente con mascelle quadrate d’acciaio. Steli pallidi di Misses piegavano bisbigliando parolette cretine sotto il vento della moda ammirativa, e la borghesia della città seguiva quel ritmo accentuando beceramente i toni e le forme. Oggi vedo ai balconi soleggiati degli alberghi i feriti italiani in camici bianchi e grigi che godono nell’aspettare il colpo di cannone meridiano della colazione, lontano dalle corvées.

Tum Tum... Dilatazione lieta di questo rumore sfaccendato e in vacanza. Subito le campane sbrodolano il loro piombo fuso sull’Arno giallo sporco. L’Arno! lenta corrente di sudiciume dei secoli, patina liquida di tutte le facciate delle case scolorite come vecchi quadri male incorniciati in un cielo da museo.

Inerzia. Atmosfera svogliata. La rompe un groviglio di miagolii di gatti che a gomitoli balzanti si precipitano fra le mie gambe.

Solita caccia quotidiana intorno alle trattorie. La polizia sequestrò ieri venti grossi gatti già pelati e pronti per la padella. I neutralisti bestemmiano contro la guerra che costringe a mangiare in tal guisa. Io compiango con l’anima di Baudelaire i poveri gatti che soli sanno dinamizzare con risse e amori diabolici i pederastici chiari di luna dell’Arno. Le campane di Firenze hanno le monotonie e le insistenze balorde che caratterizzano lo stile di Benedetto Croce e di Romain Rolland. Scodellano in giro suoni, rumori, dondondondondon vecchie idee sciupate, nostalgie e latte e miele sentimentale sull’immane bricabrac di case, chiese polverose affastellate alla rinfusa e scopate tutte sull’altra riva dell’Arno perchè questa sia tutta pulita per i forestieri in estasi, ignoranti, ma compratori. In fondo, verso le Cascine, i camini delle officine fumano, fumano distrattamente con spiraliche sciarpe d’ozio oblioso infischiandosi, infischiandosi degli operai che chiamano e della guerra che esige munizioni.

Ma alle due del pomeriggio seguo un fiume di folla che mi conduce al parco di Boboli.

Grande festa patriottica. Nell’anfiteatro sulle gradinate a semicerchio Veneri, Apolli e urne bianchissime spiccano sulle alte muraglie verdi di bossi e lauri.

Agitazione di ventagli, cappelli di paglia, vestiti bianchi e rosa, ombrellini verdi, viola, rossi, sotto il sole ardente impressionista. Una faccia spunta dietro la nicchia di una Venere cantando:

Vorrei essere Tirteo...

È quella Venere forse che canta con la mano sul sesso per accentuare il sentimento.

Grande pastorale in costume con coro campestre.

A sinistra nel folto del viale che sale verso il parco alto, molti carabinieri ritti come in agguato sembrano pronti ad acciuffare una massa rossa che canta nel verde, massa troppo rivoluzionaria di coristi camuffati da soldati francesi.

Corteo simbolico. Una Italia in manto rosa con stella sulla testa. Scende cantando:

Maggio sei bello, ma Firenze è assai più bella.

Si slanciano giù furiosamente i teutoni, con pelli di tigre, elmetti alati, tridenti e lance:

Siam i re dei barbari

In mezzo a loro Attila e la Germania in rosso sangue di bue col chiodo in testa.

Risponde l’Italia cantando parole assurde sul tema:

T’amo come il fulgor del creato

Duetto dell’Italia e della Germania.

Vicino a me una bambina dice:

— Guarda che occhiacci fa la Germania!

Si avanza grottesca la Repubblica Francese con fantaccini in pantaloni rossi. Marsigliese.

Segue l’Inghilterra con molti scozzesi. I gonnellini quadrettati divertono le donne che però preferiscono questa carica di bersaglieri piume al vento, e la sciabola sguainata del suo capitano. Questo, rosso apoplettico, ha un diverbio fiero con Attila quasi impaurito.

Scoppia la battaglia. Pastori, pastorelle, soldati francesi inglesi, italiani inseguono verso l’alto parco i teutoni fugati in disordine. Ma un tripode stretto da fucili, baionette e tricolore fuma incenso e promette pace. Si svolge un corteo di vestali subito cancellato da un battaglione americano di cow-boys, e pellirosse marziali. Il popolino toscano non trattiene più la sua gratitudine per l’aiuto americano.

Dopo il corteo delle città invase o irredente Udine, Trento, Trieste, la marcia dell’Aida accompagna l’entrata solenne su cavallo bianco della Pace con un ramo d’olivo in mano.

Il pasticcio frenetico dei simboli e delle musiche d’ogni tempo e d’ogni popolo ingigantisce. L’agitazione delle bandiere e lo svolazzamento dei manti trasformati in scope veloci, mi dà la sensazione d’una tragicomica rivolta di palcoscenici napoletani o d’uno sciopero violento a mezza opera al Teatro San Carlo.

Penso che quel grande futurista che si chiama Petrolini demolitore d’ogni romanticismo ha voluto prendere definitivamente a calci la storia e la vecchia retorica con una sintesi futurista di neutralismo fiorentino, + gentilezza floreale toscana + ossessione della pace + ammirazione servile pei forestieri ricchi, + amore estivo per la campagna + cretinismo congenito degli organizzatori di feste.

Giungo a Milano a mezzanotte. Sciopero di carrozze. Sul piazzale, nella luce azzurra delle lampade velate crocchi di soldati e di prostitute vocianti affaccendate nei contratti erotici. Inquietudine delle notti di guerra in città, tempestate dai galoppi della lussuria e dell’alcool sui letti divorati e vomitati spensieratamente!...

Consegno la mia valigia a uno strano facchino improvvisato. È un gobbetto con ambiguità pederastiche e un’inesauribile chiacchera di beghina.

Dice con smorfie e risucchi di saliva pieni di orrore e ripugnanza schifiltosa:

— Dio mio, Dio mio, tutte quelle donnasse! quelle porcasse! Povera Milano! Stanno lì ogni sera... Tutta la notte a fare réclame coi soldati! È una indecenza! Povera Milano non si riconosce più...! E i profughi, che disgrassia... Date indumenti, date indumenti! Lo so, lo so, sono povera gente. Ma, date indumenti, date indumenti! Sono restato a piedi io e senza scarpe!

Il gobbetto che mi segue portando la valigia mi racconta che è figlio di un portinaio di Via Cerva. Per colpa dei profughi vive in un ripostiglio, quasi di mendicità; porta gli abiti del padrone di casa. Di notte fa il facchino. Certo ha due, tre altri mestieri meno confessabili. Ad un tratto si ferma con un bizzarrissimo lustrascarpe vestito da sportman stivaloni, berretto e cane lupo a guinzaglio. Il gobbetto mi spiega poi che quel lustrascarpe è spagnuolo e fa l’usuraio dei cantanti in Galleria. Originale flora mostruosa di questa tropicale fermentazione di guerra.

A Milano, confido la mia sicurezza nella vittoria prossima, grandiosa, all’amico Notari, geniale patriota, instancabile, fattivo. Con lui assisto a una assemblea interventista. Piccolo teatro gremito. Sono sul palcoscenico. Il signor Del Crema, viso paonazzo grondante di sudore, spinge affannosamente alla ribalta la sua eloquenza e la sua pancia, botti spaccate che schizzano, tuonano, sputacchiano, inaffiano rosso. I suoi paroloni-piedoni pigiano l’uva dell’assemblea. Come, dove salvarsi? Vedo mani sul viso, parafanghi. Braccia alzate come parafulmini. Tutti i cappelli delle signore abbassati, paralumi. Beato chi aveva davanti un più alto spettatore, paravento. Una donna fuggì, gonna svolazzante, paracadute. Ma urtò contro un uomo pietrificato dal sonno, paracarro!

Vorrei chiacchierare col pittore Rosai. Si è calato giù sotto la ribalta.

Del Crema continua. Pancia, eloquenza non formano più che un unico pallone gonfio, gonfio, gonfio che sta per esplodere:

— Violenza, violenza! violenza! Bisogna colpire, colpire, colpire!

Invisibile, ma pronto Rosai colpisce l’ultima parola in pieno con un potente:

tum – tum

della grancassa. Ilarità fragorosa. Grandine, valanga di risate. Del Crema sembra ferito in pieno nel tamburo della propria pancia.

Io crollo a terra corpo e gambe in convulsione di allegria. Del Crema bestemmia, sbuffa, si arrabbia, non può ripigliare il suo discorso.

Entra nella sala una folla di donne politiche. Acclamazione, vocio. Perchè mai son tutte brutte le donne che frequentano le assemblee? Tutte tragicamente incoricabili, tenaci consigliere di castità.

La loro eloquenza ha lo sviluppo epidemico del colera e della peste. Una donna stridula impreca contro le signore disfattiste e germanofile ma è subito interrotta da un uragano di altre voci stridule e mani fragili unghiute. Cento colli allungati di galline per raggiungere una mano alta piena di grano:

— Fuori i nomi! fuori i nomi! fuori i nomi!

Pollaio esasperato dalla mancanza di galli... I galli imboscati non sono galli.

Torno al fronte pensando senza rancore che gli imboscati sono utili non fosse altro per dar risalto alla bellezza dei combattenti.

Nella tradotta m’addormentai al ritmo di questa canzone che dei fanti in un compartimento vicino trascinavano con voce di sonno alcoolizzato:

Non hai tu un deputato?
Un parente cornuto
che ti venga in aiuto?
Non hai tu un ministro
o qualche altro ruffiano
che ti stenda la mano,
per levarti dal freddo
dal rischio e dal gel?
Se tu sapessi
quanti imboscati
dormono laggiù
di certo la trincea
lasceresti
pel bosco anche tu!

Share on Twitter Share on Facebook