XV. CAVALLERIA MEDIOEVALE E BLINDATE FUTURISTE

Il ritmo del treno non riesce a uguagliare in celerità il battito del desiderio che l’idea dell’offensiva suscita in me. Che cosa si aspetta? Sento ’l momento venuto. L’ora tipica, unica col suo nodo di forze favorevoli penderà fra poco sul nostro capo. Gli eserciti francesi e inglesi al comando di Foch attaccano violentemente la Germania che cede, poco, ma cede. Il morale delle nostre truppe è forte, sereno, consolidato dalla grande vittoria del 15 giugno e dall’enorme propaganda, metodica, accanita. Bisogna dunque sferrare l’offensiva finale.

Non curandomi dei miei vicini di compartimento io mi tasto il petto, le cosce, le gambe come si palpa una granata prima di introdurla nel cannone. Mi sento bene. Non temo il lieve dolore al ginocchio sinistro che ogni autunno si ricorda di Plava.

Ferito da una grossa scheggia all’inguine, caduto sotto il pietrame e i sacchi a terra della batteria sfasciata, mi rialzai con la faccia bruciata e calandomi i calzoni inzuppati di sangue ammirai lo straordinario viola della mia coscia e del mio ginocchio pesto. Ora sono risanati.

Nella fattoria di Barchessa trovo i miei compagni a tavola sotto la lampada pacifica, che mangiano discutendo questioni di servizio e di faticosissime manovre con la cavalleria.

A tavola con noi un simpatico ufficiale di cavalleria: Franci di Pietralunga, raffinato, coraggioso ma sempre velato da una melanconia inspiegabile.

Io tento di concludere la discussione:

— È assurdo volere accordare il medio-evo della cavalleria col futurismo delle blindate! Salvo rari momenti la cavalleria è stata sempre fuori di posto in questa guerra. Assurdo l’impiego strategico per divisioni! Duemila cavalli offrono un bersaglio enorme. Se domani avremo da inseguire il nemico basterà un solo suo cannone ben puntato per fermare qualsiasi massa di cavalleria nostra. La cavalleria non può come la fanteria camminare ai fianchi della strada o nascondersi dietro gli argini o nei fossi. Un cavaliere è facilmente individualizzabile su una strada. Se poi il nemico è in rotta completa senza neppure un cannone per proteggere la sua fuga, si presenta il problema della velocità dei cavalli che naturalmente è mediocre a meno di ammazzarli la sera del primo inseguimento.

— La cavalleria, interrompe Raby, è stata nei due primi anni di guerra un bosco elegante. Come cavalleria, bene inteso, poichè appiedata diede innumerevoli eroi a Monfalcone e sull’Isonzo nel corpo dei bombardieri e in quello dei mitraglieri.

Franci scattò:

— Dimenticate le nostre gloriose cariche suicide in retroguardia dopo Caporetto.

— Le ho viste con questi occhi e non le dimentico, disse Raby. Ho visto eroismi sublimi, ma vani. Una sola delle mie blindate dal Tagliamento al Piave serviva più che 4 o 5 squadroni.

— Credi, caro Franci, dico io, le macchine di guerra, cannoni a tiro rapido, mitragliatrici, areoplani e auto-blindate hanno reso assurdo il Don Chisciottismo della cavalleria. È il passatismo che si difende. Non vuole morire, ma deve morire. Questa guerra ha esautorato il fucile, immaginiamoci se non esautora il cavallo. Il cavallo è un milionario, nato gran signore per non fare niente. L’altro giorno c’erano lì nei prati 250 cavalli. Bisognava vedere che bersaglio per l’artiglieria! Ora vedi, caro Franci, i comandi supremi della cavalleria italiana che erano tutti più o meno dei germanofili, sicuri che la loro cara Germania conservatrice e militarista avrebbe certamente vinto, sono oggi agitati, sbalorditi dalla piega degli avvenimenti. Vedendo crollare la Germania sognano archi di trionfo per il ritorno dell’esercito e vogliono ad ogni costo coprirsi di qualche prestigio.

Non disprezzano più le macchine veloci. Molti sono felici di pedalare. Gli squadroni sono pieni di biciclette e motociclette. Gli speroni si impigliano nei raggi di bicicletta, poco importa. Ora vogliono arrampicarsi sulle nostre auto-blindate. Hanno incorporato nella divisione di cavalleria biciclette, motociclette e auto-blindate. Ci metterebbero sopra, se potessero, soltanto ufficiali di cavalleria. Lascerebbero volentieri i cavalli nei depositi purchè si dica che la divisione di cavalleria ha forzato, sfondato, inseguito, accerchiato il nemico. Dimenticano che ciò non è facile senza ruote, stantuffi, pneumatici e benzina. Mi dispiace, caro Franci, di dichiararti che il bel cavaliere elegante e romantico non ha più ragione d’essere fuori degli album delle signorine. Finite le lance con banderuola blu! Oggi ci vogliono le nostre mitraglianti auto-blindate in velocità. Se lo Stato Maggiore italiano avesse avuto al principio della guerra questo senso pratico di adattamento agli uomini e alle cose e si fosse liberato dal concetto teutonico stupidamente importato con relativa meccanizzazione di tutti gli organi, avremmo forse evitato Caporetto. Ne risultò una continua falsa valutazione della responsabilità e un assurdo particolarismo burocratico. Tutto si riduceva a queste frasi lanciate da comando a comando:

«Non mi faccia difficoltà – Si arrangi – Ricevuto l’ordine aspettare il contrordine – Dare assicurazione».

Nulla di più assurdo della concezione aprioristica professionale, tedesca, secondo la quale il nemico deve prendere una tale o tal’altra decisione solo perchè questa si presenta come la più logica. Questa concezione elimina l’enorme valore guerresco dello spirito creatore. In una razza come la nostra, carica d’individui geniali, ingabbiare così burocraticamente lo spirito improvvisatore è stato un delitto. Abbiamo inoltre disprezzato per molto tempo il fattore umano nelle truppe logorando così, avvilendo, e anemizzando i reparti. La Germania ci aveva regalato la stupida teoria delle formazioni ammassate che conducono ad attacchi frontali con forze sempre insufficenti, urti ripetuti digradanti per intensità e senza veri effetti.

La battaglia moderna invece si riduce quasi sempre a una lotta sui fianchi. Vince colui che dispone di una riserva potente, pronta, non nelle lontane retrovie dietro il fronte, ma nelle retrovie immediate di una delle due ali. Questa riserva non deve esservi condotta nel momento grave della battaglia, ma molto tempo prima. Lo Stato Maggiore tedesco nella battaglia della Marna, settembre 1914, non ragionò così e fu sconfitto. Il centro del fronte ha pure bisogno di riserve, ma la massa delle riserve non deve mai essere disposta dietro il centro fintantochè esiste una possibilità di accerchiamento. In settembre-ottobre 1914 in Fiandra l’esercito tedesco tentò di avviluppare l’esercito francese. Questo comprendendo il pericolo allungò il suo fronte. L’esercito tedesco allungò ancora di più il suo, e la doppia corsa per avvilupparsi l’un l’altro il fianco finì al mare.

Questi concetti in parte anteriori alla guerra hanno assunto un valore speciale data la possibilità attuale di velocizzare il trasporto di truppe, il vettovagliamento, e il munizionamento.

Nella guerra futura però non si potranno equipaggiare milioni di uomini. Vi saranno piccoli eserciti di 100 mila uomini agguerriti e scelti, in azione dinamica davanti alla nazione che tutta lavorerà a produrre per loro.

Questi piccoli eserciti saranno costituiti di truppe celeri e specialmente di artiglieria d’assalto cioè tanks terrestri e tanks anfibie che colla solita striscia scabra o ventre di bruco supereranno boschi, colline, fiumi sorprendendo il nemico. Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.

Grideremo allora: «Finiamola coi vecchi esplosivi! Noi non sappiamo che fare, ormai, della ribellione dei gas imprigionati che sussultano rabbiosamente sotto i pesanti ginocchi dell’atmosfera!»

Vedo in sogno, sul confine di due popoli avanzarsi, dalle due parti, rotolando sui binari le enormi macchine pneumatiche – elefanti d’acciaio irti di proboscidi scintillanti puntate sul nemico.

Quei mostri bevitori d’aria sono guidati facilmente da macchinisti appollaiati su in alto, come cornacs, nelle loro cabine tutte a vetri. Le loro piccole figure sono arrotondate da una specie di scafandro che serve loro a fabbricare tutto l’ossigeno necessario per la respirazione.

La potenzialità elettrica cosciente e raffinata di quegli uomini, sa utilizzare l’amicizia e la forza dei temporali, per vincere la stanchezza e il sonno.

Ad un tratto il più agile dei due eserciti ha bruscamente rarefatta l’atmosfera del suo avversario mediante la violenta aspirazione delle sue mille macchine pneumatiche.

Queste filano via, subito dopo, a destra e a sinistra, sui loro binari, per lasciar posto a delle locomotive armate di batterie elettriche. Eccole puntate come cannoni verso il confine. Degli uomini, ossia dei domatori di forze primordiali, regolano il tiro di quelle batterie che lanciano fra le dighe di un nuovo cielo irrespirabile e vuotato d’ogni materia, grandi grovigli di fulmini irritati.

Li vedete voltolarsi nell’azzurro, codesti nodi convulsivi di serpenti tonanti? Strangolano gli innumerevoli fumaiuoli branditi delle città operaie; infrangono le mascelle aperte dei porti; schiaffeggiano le cime bianche delle montagne, e spazzano il mare color di bile, il mare urlante, che s’incava e si rizza follemente per atterrare le città marittime. Venti esplosioni elettriche nel cielo, smisurato tubo di vetro pneumaticamente vuoto, hanno riassunti gli spasimi coraggiosi di due popoli rivali, coll’ampiezza e lo splendore delle formidabili scariche elettriche interplanetari. —

Il mio sogno di guerra suscitò un uragano di applausi. Intervenne pacatamente Raby:

— Oggi la nostra cavalleria medioevale può avere un impiego tattico. Ad ogni corpo d’armata uno squadrone per il servizio di arginamento nelle retrovie e per impedire alla fanteria di cedere. La cavalleria può servire, data la forza di coesione disciplinata che la caratterizza. Credo anche a dei colpi di mano isolati con plotoni lanciati che appiedandosi combattono coi ciclisti. I plotoni di cavalleria sono adatti al collegamento dei corpi d’armata. Nella fitta rete stradale rotta da canali e fossi del Veneto una divisione di cavalleria in massa diventa un elegante suicidio.

— D’altronde, concludo io, nulla di più assurdo che polemizzare contro la cavalleria oggi. È tardi per perfezionare. L’offensiva è ormai cotta a puntino, bisogna servirla in tavola. Sono convinto che è imminente.

— Macchè, macchè! gridano tutti, sei un illuso. Preparati a rimanere tutto l’inverno in questa palude.

— Scommetto ciò che volete... scommetto con te Raby che il 27 ottobre prossimo, anniversario di Caporetto, noi sferreremo una offensiva generale, formidabile. Sarà decisiva e vittoriosa. In novembre la guerra è finita.

Grida, fischi, schiamazzo.

— Scommetto una succolenta cena con donne eleganti al Cova di Milano.

— Accetto! risponde il capitano Raby, mi preparo alla tua bella cena con digiuno e castità.

Volpe si avvicina e sotto voce:

— Forse hai ragione. Mando subito un telegramma al mio agente di cambio a Genova. È il momento di comprare.

L’indomani sera ero invitato a pranzo dal generale Filippini comandante la prima divisione di cavalleria. Speravo di apprendere qualcosa di preciso, ma in realtà ero già convinto da una voce intima che non ammetteva discussione.

A tavola sono seduto in faccia al generale Grazioli comandante il corpo d’armata d’assalto. Ha sul petto un giardino multicolore di medaglie. Alto, elegante, viso lungo intelligente addolcito come da una sensualità soddisfatta, bell’uomo quarantenne d’aspetto giovanile.

Parlo a Grazioli degli arditi, esponendogli le loro inquietudini, la loro aspirazione sempre contrariata verso dei privilegi ai quali essi hanno diritto. Morale altissimo. Ma soffrono di non essere nettamente distinti dalla fanteria. Vogliono una disciplina elastica, un riposo assoluto quando sono nelle retrovie. Rifiutano le marce, le esercitazioni quotidiane e le corvées. Esigono di essere portati in autocarro sulla linea del fuoco. Concludo:

— Sono dei cavalli da corsa, che non vogliono prepararsi alla corsa fra le stanghe di una carrozzella.

Il generale Grazioli e il generale Filippini sorridono, e con tono militare mi espongono la loro volontà di disciplinare ad ogni costo gli arditi.

— Pensate, mi dice Grazioli, 200 arditi di Reggio Emilia sbandati dopo Caporetto, venuti dagli ospedali hanno lanciato alcuni mesi fa delle bombe in una stazione e l’hanno saccheggiata. Sentendosi troppo pigiati sul treno che li portava si sono arrampicati sul tetto dei vagoni. Viaggiarono così 50 Km. Si dovette fermare il treno prima di un tunnel per non massacrarli. Io credo che gli arditi vanno trattati come fanteria scelta. Tanto più che molti degli arditi attuali non sono mai stati al fuoco! Disciplina, disciplina, questa è la migliore garanzia del loro massimo rendimento nella offensiva futura.

— Quando, generale?

— Diaz è tornato da Parigi, dice Grazioli, senza avere ottenuto i 300 mila americani richiesti. Clemenceau Foch e Loyd George hanno risposto che per ora non era il caso d’impegnare nuove forze sul fronte italiano. Noi non abbiamo molti uomini, oggi. Il ministero d’altra parte esita a decretare l’operazione obbligatoria per gli erniosi, che ci darebbe cento mila uomini di più in un mese. La Francia à ottenuto così 350.000 uomini!

— Eppure, generale, questo è il momento di attaccare l’Austria.

— Vede, risponde Grazioli, se si potesse essere sicuri che la guerra finisse prima dell’inverno, noi potremmo impegnare tutto il nostro esercito in una offensiva finale conservando come riserva la sola classe del ’900. Cioè giuocare tutte le nostre carte. Ma se la guerra dovesse durare come è probabile, ancora un paio d’anni, la partita si convertirebbe in un fallimento.

— Ma, generale, chi non risica, non rosica!

Tornando alla fattoria di Barchessa, sono più che mai convinto che sferreranno la grande offensiva il 27 ottobre. Penso che dei generali di alto valore, come Grazioli, sono purtroppo isolati e resi insensibili da ciò che chiamo guerrismo o mestiere della guerra. Monotona abitudine del fronte da tenere senza colpi audaci, senza carte giuocate, nella speranza che la guerra finisca lentamente da sè. La guerra, invece, è l’unica cosa al mondo che non ammetta l’abitudine. Bisogna giocarla. Chi vince vince, chi perde perde, e buona notte, non ne parliamo più!

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