XXIX. A MENSA COL VINTO FRA I ROTTAMI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO

Don Jacopo, parroco di Resiutta, è un simpatico e fervido patriota italiano. È stato felice di accogliere nella sua casa parrocchiale il comando dell’8. squadriglia cosicchè impiantiamo la mensa nel vasto cucinone affumicato le cui finestre sono aperte sulle strada di Chiusaforte gibbosamente ingombra dei rottami della ritirata austriaca.

Volpe dopo aver spedito mediante un motociclista un ordine bancario da telegrafare in Borsa a Genova mi fa ammirare i magnifici porcelli e le oche catturate che si sbattono e rumoreggiano nella navicella di un draken-ballon austriaco custodito da Ghiandusso. Ha trovato anche farina e zucchero e molte casse di sigarette ungheresi.

Ogni mio soldato ne fuma tre alla volta, tre piccole torce di gioia al balcone della bocca.

Il prete, alto segaligno, faccia di montanaro ossuta, occhi celesti vivacissimi, forti mascelle da mangiatore e piede veloce, si affaccenda dalla cucina alla sua vigna che egli proclama la prima vigna d’Italia. Da Resiutta a Vienna non si trova più una vigna. È indubbiamente una vigna straordinariamente fertile, piena di nascondigli, forse di sotterranei, poichè il prete ricompare ogni tanto con qualcosa di nuovo fra le braccia a maniche rimboccate: pentole, cassette, sacchi, sacchetti, salami, ecc. La sua serva Maria, grassa, quarantenne, dal viso roseo primaverile e dagli occhietti furbissimi neri un po’ avari, brontola; ma ogni volta che nel cucinone entra un nerboruto bersagliere ciclista col ruvido viso patinato di polvere-sudore, quegli occhi brillano stranamente inumiditi. Non so se per insoddisfatta sensualità o per patriottismo commosso. Il mio ottimismo riassume tutto in questa frase:

— Maria, sono belli i soldati d’Italia!

Maria ride e corre su al piano superiore per la scala di legno, chiamata da una voce femminile piacevole malgrado il suo accento straniero.

— Maria, Maria, preego preego un momento.

Don Jacopo che entra mi spiega l’enigma:

— Volevo precisamente parlarle, signor tenente, la prego anzi di fare le mie scuse al signor capitano comandante la squadriglia. Mi sono permesso di ricoverare al primo piano un colonnello austriaco ammalatissimo. Colonnello della Croce Rossa. Non è un combattente. Oh! una persona assolutamente compita, certo un brav’uomo. Deve avere 55 anni circa, ma ne dimostra 70, tanto è sfinito dalla stanchezza. Stanotte aveva 40 gradi di febbre. Ora sta un po’ meglio. Ha voluto confessarsi appena fu ricoverato. Ha con sè una bellissima signora che pare sia sua nipote. Pure della Croce Rossa.

— Ah reverendo! Lei ha fatto molto bene. Approvo la sua opera di carità. Gli Austriaci sono stravinti. Non è più il caso di preoccuparci di spionaggio.

— La signorina mi ha domandato, implorando, una tazza di caffè per il conte. Poichè è conte, il colonnello, e appartiene all’alta aristocrazia viennese.

Io chiamo il mio attendente:

— Ghiandusso, porterai tu stesso un buon caffè al colonnello austriaco. Fallo parlare, cerca di sapere esattamente chi è.

Poi vado a raggiungere il capitano Raby sulla strada e lentamente trascinati dalla curiosità ci inoltriamo fra gli avanzi dell’esercito austriaco, come due compratori in uno smisurato negozio di antiquario. Non compreremo nulla. Tutto questo tragico bricabrac è stato già da noi pagato coi 500 mila morti eroici dell’Isonzo, del Grappa, del Piave.

Davanti a noi sulla strada incassata tra le alte montagne e che corre col torrente Fella fino a Chiusaforte e a Tarvis, è tutto un tumulto pietrificato di carri sbilenchi, affusti di cannoni, cucine da campo, fucili, draken-ballon, carrette, mitragliatrici, ruote, carogne di cavalli, masse luride di cappotti infangati, stracci, stracci, stracci, vagoni rovesciati, auto-carri ruote all’aria e motore nel fosso, sterco. Immane lerciume che incensa l’azzurro con lugubri zaffate di puzzi di stiva grasso iodio sangue corrotto ammoniaca e pidocchi.

Questi rottami dell’impero austro-ungarico sfasciato evocano in me l’immagine di un triste, polveroso, sconfinato magazzino di roba vecchia. Sembra anche un interminabile villaggio di cenciaiuoli.

Ad uno svolto della strada un vagone appare goffamente impennato su tre carri sfasciati. Sembra volerli assalire e fecondare con un ultimo colpo di groppa taurina. Fetore rivoltante. Sotto imputridiscono tre carogne di buoi.

Mentre ci scostiamo, un lungo disperatissimo niiiiiitrito lacera l’aria tiepida di questo pomeriggio autunnale che la corrente gelata del Fella invernalizza a quando a quando un poco.

— Un cavallo agonizzante! dico a Raby.

Il nitrito si rinnova più straziante e lugubre per modo che intorno a noi la vasta marea di questi enormi rottami di guerra ci appare ad un tratto come una spaventosa agonia di carovana assalita, accecata da una bufera satanica in fondo a una gola maledetta. Ci avviciniamo al punto da cui parte il nitrito. Eccolo. In fondo a quel fossato, in quel marciume verde d’acqua e fango un gran cavallo ungherese rovesciato allunga enormemente il collo sforzandosi di far leva per sollevarsi. Ma il sangue e la vita gli colano, e anche l’intestino, fuor dallo addome tagliato. Ha le 4 zampe impigliate fra le cinghie e le ruote di un cannone. Evidentemente degli austriaci affamati non hanno perso tempo ad accopparlo. Hanno strappato un pezzo di carne poi chiusi nell’incubo cieco e sordo della fuga-fame sono ripartiti senza ascoltare il nitrito disperato della bestia. Ma il cavallo con un lungo tremito febbrile riapre le froge arricciate e masticando il fango coi dentoni trascina trascina un nuovo niiiiitrito.

Non resisto allo strazio, punto il mio revolver sulla tempia e con tre colpi pacifico la povera bestia, per sempre. In alto il sole sta per celarsi dietro le altissime montagne, ma prima allunga un suo meraviglioso sguardo biondo-azzurro-dorato sulla strada che si svolge interminabilmente ingombra di rottami guerreschi affastellati.

Il sole, straricco antiquario, vuole prima di coricarsi rivalutare col suo sguardo minuzioso e penetrante di conoscitore tutti i frammenti d’un impero che la Morte gli regala e che ricatalogherà, coi tanti rottami di tanti imperi già immagazzinati.

Alle sette il pranzo è pronto e la mensa sorride alla nostra fame di vincitori nel cucinone odoroso di maiale ben condito. La sera è fresca e si chiude volentieri le finestre contro la risacca sinistra di puzzi ammoniacali. Nel vapore stuzzicante di un monumentale minestrone io dico a Raby e a Volpe:

— Si mangerà bene e si berrà meglio, ma mancano le donne ai vincitori! E dire che ce ne è una bellissima al primo piano. Io propongo che la generosità ultra-civile italianissima del nostro capitano inviti a tavola il conte Funk e la sua bella Rose Barn.

Approvato con entusiasmo. Ma il colonnello che ora sta meglio, rifiuta commosso l’invito inaspettato. Teme di disturbare e manda a ringraziare. Ghiandusso torna su con ordini precisi poi ridiscende e dalla porta spalancata entra esitando con cento inchini il vecchio ufficiale dal viso pallidissimo ormai tutto naso per l’eccessiva magrezza, calvo, gli occhi grigi, acquosi e tremolanti. Un’indistruttibile aria signorile d’alto comando malgrado l’uniforme bigia sciupata, e la schiena curva. Ma dietro splende magnetico un affascinante sorriso femminile.

Rose Barn è alta, snella, bruna, grandi occhi vivi, neri, lucentissimi che col tipico pallore verdino della pelle e l’elastica snodatura dei fianchi felini, rivelano quella razza interessante e tipica di ebree viennesi, crepitante perfida e seducente fusione dei sangui rumeni, boemi e austriaci.

Bellezza meridionale sì, ma senza l’affettuosità mediterranea, con sensualità raffinate dal calcolo e lussuria prodigata fuori d’ogni legge di pudore, nel bisogno di domare prontamente i maschi e sfruttarli. Donna da prendere in velocità per gustarne i mille sapori in fretta prima di scoprire la inevitabile prostituta che è celata appena dalle moine infantili, e da una maschera di verginità.

Raby, Volpe ed io guardiamo la donna valutandola e quasi pregustandola, mentre il conte Funk rinnova i suoi inchini, ossequi, esitazioni.

— Preeego, signor capitano, non posso accettare. Non vorrei che lei avesse delle noie coi suoi superiori. Sono troppo gentili, loro. Non credevo ufficiali italiani così gentili e pieni di bontà.

Il conte non vuole sedersi, si fa quasi spingere da Ghiandusso verso la sedia. Ma la sua bella amica ha già accettato e finiscono per sedersi tutti e due davanti a me, un po’ distanti dalla tavola.

— Merci, merci! dice Rose Barn; Monsieur le curé nous a déjà donné a manger. Nous accepterons seulement une tasse de café. Io parlo un po’ italiano, male, molto male. Il conte parla bene come tutti gli alti ufficiali austriaci. Alla corte di Vienna si parlava molto l’italiano, specialmente ora con l’attuale imperatrice.

— Si parlava e si odiava l’italiano, dico io.

— Autrefois, monsieur le lieutenant! Oggi non si odia più. Tutto è finito per noi, dice Rose Barn.

E il colonnello aggiunge:

— Con loro, signori ufficiali, posso dire tutto. Io ho cominciato la guerra con grande entusiasmo. Comandavo uno squadrone di cavalleria al fronte russo, ma contro gli italiani non ho combattuto. Ho avuto per molto tempo il comando di una colonia agricola a Oppacchiasella. Conosco bene quei posti. Ho una proprietà vicino a Gorizia, venivo spesso in Italia. Non ho mai odiato gli italiani. La guerra è la guerra!

Il capitano Raby, dopo aver assaporato l’ultima cucchiaiata del suo minestrone, dice con lentezza piemontese:

— Non so se ci avete gratificato con molte cannonate sul Carso. Ad ogni modo io desidero ringraziarvi con un pezzo di maiale ben cucinato.

— Grazie, grazie, dice il conte Funk, troppo gentili. Non sapevo, non sapevo, veramente, in Austria non si sa quanto gli ufficiali italiani siano cortesi, umani, buoni.

— Non tutti, interrompe Rose Barn, non tutti... Ah! gli ufficiali dei bersaglieri ciclisti. Comme il sont durs, durs, durs!... Dieu! qu’ils sont durs!

Pienamente rinfrancata e sicura ormai delle sue labbra sorridenti e delle sue occhiate precise, la bella ebrea viennese racconta come furono catturati nella confusione del disarmo a Stazione per la Carnia. Il conte Funk aveva molti bagagli, probabilmente molti anche lei. Sento in Rose Barn la donna sempre armata di eleganza e che ad ogni costo ricostruisce le sue armi di seduzione. Essa racconta che gli ufficiali bersaglieri brutalmente spinsero lei e il colonnello lontano dal carro dei bagagli ormai perduti per sempre. Rose Barn è stupita di non aver potuto sedurre coi suoi sguardi quei vincitori violenti.

— J’ai embrassé plusieurs fois leurs mains comme une mendiante, comme une mendiante! Mais ils me criaient: Viaaaa! Va viaa! Va via! Comme ils sont durs! comme ils sont durs!

Una nostra risata fragorosa accoglie questa descrizione dei forti, impetuosi soldati italiani colla loro pratica intelligenza decisa, rozza e senza smorfie.

— Vedete, signor conte: questo contrasto tra i bersaglieri ciclisti che giustamente sbrigarono le cose con voi, e noi altri che a vittoria compiuta siamo lieti d’invitarvi a pranzo, è tipicamente unicamente italiano. La nostra razza è superiore a tutte le altre razze perchè sa capire, dosare tutto nel tempo e nello spazio. La razza tedesca, gonfia di prodotti inutilizzabili da spargere sul mondo e ubriacata da una spaventosa preparazione militare meticolosissima, ha con una assoluta mancanza d’elasticità spirituale dimenticato che la forza pur dominando nel mondo deve fare i conti sempre con lo spirito. Voi avete misurato a cifre le nostre forze, ignorando forse, per il cretinismo dei vostri informatori, che il popolo italiano ha una grande anima potentissima, geniale, ricca di tutte le possibilità improvvisatrici. Questa anima dormiva e voi che contavate solamente il numero dei nostri cannoni, ci avete in blocco disprezzati, considerati come quantità trascurabile. L’Italia, avete pensato, marcerà con noi, obbedendo a noi. Se non marcerà con noi resterà neutrale. Ma l’anima italiana che aveva contato e ricontato tutte le offese i soprusi e i disprezzi, pur avendo mille ragioni per non battersi (triplicismo, propaganda pacifista, assoluta impreparazione ecc.) è scattata nel momento più pericoloso, sicura d’improvvisare ciò che non aveva preparato, e d’imparare la guerra facendola e vincendola. Ciò che avete fatto nel Belgio, i vostri siluramenti di navi inermi, il pericolo dell’egemonia tedesca che non ha e non può avere nessuna ragione d’essere mai, il desiderio rivoluzionario di noi futuristi italiani che volevamo ripulire l’Italia di tutto ciò che vi è di vecchio e specialmente del papato, scopatura che non si poteva fare con un impero Austro-Ungarico in piedi ecc. ecc... Ecco infinite ragioni per le quali siamo entrati in guerra, ma certo in tutti gli Italiani, dal più umile fante al Comandante Supremo, c’era un’altra ragione potente!

«Volevamo dare con una lezione violenta a voi cocciuti professori medioevali d’arte guerresca, un brillante spettacolo d’Italianità, che significa fulminea genialità improvvisatrice, eroismo senza educazione guerresca, massima elasticità nel passare dalla violenza utile ad una assoluta bontà coi vinti e i disarmati. Ricordatevi che in questa guerra ogni pattuglia italiana aveva almeno uno scopritore di terre, un meccanico inventore, un poeta e un padre affettuoso.

«Volete conoscere il piano vittorioso del generale Caviglia? Eccolo:

«Dopo un’intensissima azione dimostrativa sul Grappa, per attirarvi il nemico, sfondare con 21 divisioni, separando la massa austriaca del Trentino da quella del Piave, e, con azione avvolgente, provocare la caduta dell’intera fronte montana.

«La più settentrionale delle armate austriache, la sesta, aveva per linea di rifornimento Vittorio-Conegliano-Sacile. Bisognava dunque conquistare Vittorio Veneto tagliando questa linea. Poi, puntare con azione avvolgente su Feltre, cioè sul tergo del Grappa, facendolo cadere per manovra.

«Subito dopo, raggiungere la convalle bellunese, puntando per le vie del Cadore e dell’Agordino.

«Gli ordini di concentramento di forze diramati il 25 settembre ebbero principio di esecuzione il 26.

«Tra il 26 settembre e il 10 ottobre, 21 divisioni, 800 pezzi di medio e grosso calibro, 800 pezzi di piccolo calibro e 500 bombarde, si schierano sulla nuova fronte. Quattrocento pezzi tolti da altri settori sono trasportati sulla fronte del Grappa.

«Intanto 20 equipaggi da ponte, 4500 metri di passerella tubolare, 4500 metri di ponte, sono preparati. In complesso, contro le 63 divisioni e mezza austriache e i loro duemila pezzi, noi abbiamo schierato 54 divisioni e 4750 pezzi.

«Il nostro fuoco d’artiglieria s’iniziò fra Brenta e Piave alle ore tre del 24 ottobre. Alle ore 7 e 15 balzano le fanterie sul Grappa. Il 26 ottobre la resistenza sul Grappa è più che mai accanita. Sette divisioni italiane contro nove nemiche.

«La sera del 26, si gettano i ponti sul Piave. Sono travolti. Altri ponti sono gettati nella notte del 28.

«La mattina del 28, il 17.º corpo comincia a passare a Salettuol e l’8ª armata comincia a passare fra Pederobba e Falzè.

«Nelle prime ore del 29, l’ottavo corpo, sui ponti della Priula, passa e prende Susegana; il 17º corpo entra in Conegliano; una colonna di lancieri e di bersaglieri ciclisti entra in Vittorio Veneto. Il 30 ottobre, crolla il Grappa.

«La disfatta degli austriaci, iniziatasi il 28, resa inevitabile il 29, si conclude il 30 con la catastrofe.»

— Vous avez raison! Vous avez raison! interrompe il colonnello agitando le mani timide e tremanti. J’ai toujours pensé que le peuple Italien est un grand peuple.

— Et quels soldats magnifiques! aggiunge Rose Barn moltiplicando i suoi sguardi voluttuosi al capitano che la guarda con insistenza.

Mentre fissa il capitano, Rose Barn distrattamente urta col piedino il mio piede sinistro. Il mio scarpone d’alpino non vieta il passaggio dell’elettrica vibrazione. Rose Barn mi piace molto. Sono abituato a non lasciarmi sfuggire questi eleganti animali femminili che prediligono gli assaltatori audaci, e pur partendo sempre con un programma astuto nel cervello, non si rifiutano certi amplessi spensierati volanti e disinteressati.

Sarei contentissimo di passare una notte con Rose Barn, anche se la notte precedente fosse stata passata da lei con l’amico Raby. In guerra bisogna marciare e non marcire. Nondimeno più d’ogni desiderio carnale urge in me un imperioso orgoglio italiano che vuole manifestare nettamente la sua nativa squisitezza spirituale. Prendo dunque la parola, con tono energico e guardando negli occhi senza ironia il colonnello che ora sorbisce con delizia il nostro caffè:

— Vede, signor colonnello, noi siamo qui vincitori e siamo anche i vostri padroni. Malgrado le finestre chiuse entra l’odore pestilenziale della vostra gigantesca disfatta. Io vi parlo con sincerità assoluta. Vedo che siete intelligente, preciserò il mio pensiero. La signorina Rose Barn seduta vicino a me non è certo vostra moglie. Credo sia la vostra amante. La chiamate vostra nipote, poco importa. Ad ogni modo è bellissima. Piace molto a me e piace ancor più al comandante l’ottava squadriglia che ha catturato tutto il vostro corpo d’armata. Ve lo ripeto. Mi piace molto.

Il conte Funk, colonnello austriaco, mi guarda con occhi spaventati e un sorriso stiracchiato:

— Vous voulez rire, vous voulez rire, monsieur le lieutenant!

— No, no, signor colonnello, non rido. La signorina Rose Barn che è una involontaria affascinatrice, non certo per tradire voi, anzi per ottenervi maggiori gentilezze nostre, ci promette con gli occhi (e certo manterrebbe!) delle notti d’amore straordinarie.

— Oh monsieur le lieutenant, vous voulez rire, vous voulez rire!

— Non rido, insisto su queste notti d’amore, che io intuisco veramente degne di noi vincitori.

Pausa avvocatesca. Poi un sorriso a Rose Barn che tiene gli occhi abbassati come una educanda felice e turbata:

— Sarebbero notti degne di noi vincitori se.... se... se non fossimo degli Italiani. Degli ufficiali austriaci che fossero questa sera nelle nostre condizioni, non mancherebbero di costringere la bella preda femminile tipo Rose Barn anche a viva forza, a ingoiarsi una purga di baci bavosi di vecchi generali e giovani ufficiali. Ma noi che siamo Italiani, signor colonnello, vi offriamo da pranzo e dopo l’eccellente caffè che avete sorbito non vi togliamo la vostra meravigliosa donna. È bellissima, ve lo ripeto, ma io ho goduto la notte passata nelle braccia di una donna divina, unica, che si chiama l’Italia!

Poi rivolgendomi con sorriso ironico, mellifluo a Rose Barn:

— I vostri baci che devono senza dubbio essere sapientissimi, mi sembrerebbero inevitabilmente insipidi quanto quelli di una prostituta. Voi, non lo siete. Coi vostri occhi pieni di capricci e fantasie dovete certamente desiderare un maschio come me, se non fosse altro insolito, che vi parla come mai certamente un maschio vi ha parlato. Ebbene, no! cara Rose Barn, io vincitore italiano non vi prenderò, pur potendovi prendere, pur sapendo che vi farei piacere. Prego anzi l’amico Raby di rinunciare anche lui alla bella notte sicura. E lei, caro colonnello, gradisca l’ospitalità di questa parrocchia italiana che le offre un prete poco austrofilo, e dorma questa notte in pace senza che la gelosia aumenti i gradi della sua febbre. Però io propongo ora una breve passeggiata per digerire il nostro pranzo. Vuole, signora, e lei, colonnello, venire con noi a fumare una buona sigaretta Macedonia? Prego anche lei! Sono migliori, sono migliori delle sigarette ungheresi. Così potremo fumando non asfissiarci nel passeggiare fra i rottami dell’impero austro-ungarico... ma dove sono i nostri cani! Nick, Kim, Zazà? Venite, esperti puzzicoltori! Tu Zazà in testa. Guidaci fra tanti affastellamenti di luridume insanguinato. Coi tuoi bau! bau! variati ci descriverai il tuo paesaggio d’odori.

Correvano danzavano e capriolavano Nick e Kim intorno, sopra, sotto Zazà abbaiando. Gli echi della valle stretta moltiplicavano i

bu baa baubau baubaubau.

— Vede, signora, i soliti puzzi monotoni di stiva, latrina, iodio, pidocchi

baubaubaubaubauabaubaubaubau.

Ora Zazà ha scoperto e ci spiega nel suo linguaggio che io comprendo i fetidissimi puzzi che sta decifrando col naso: puzzo d’imperatore, puzzo di caserma, puzzo di prete sudicio, puzzo di carcere, puzzo di medioevo, puzzo di passatismo!

Ridevano le buone, umane, civili stelle italiane arricciando le schifiltose nari d’oro.

COMANDO SUPREMO

4 novembre, ore 12.

La guerra contro l’Austria Ungheria che, sotto l’alta guida di S. M. il Re Duce Supremo, l’Esercito italiano inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, È VINTA.

La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco-slovacca ed un reggimento americano contro 73 divisioni austro-ungariche, è finita.

La fulminea arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della Settima Armata e ad oriente da quelle della Prima, Sesta e Quarta, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria.

Dal Brenta al Torre, l’irresistibile slancio della Dodicesima, dell’Ottava, della Decima Armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.

Nella pianura S. A. R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta Terza Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute.

L’Esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subìto perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento: ha perdute quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressochè per intero i suoi magazzini e i depositi; ha lasciato finora nelle nostre mani circa 300.000 prigionieri con interi stati maggiori e non meno di 5000 cannoni.

I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.

Firmato: DIAZ.

Le automitragliatrici della colonna (VIII Squadriglia) catturato un comandante di Corpo d’Armata, mitragliato e arrestato un treno in movimento verso Pontebba, entrarono a Chiusaporte.

(Diario Ufficiale della nostra ultima offensiva)

FINE.

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