Introduzione a «I nuovi poeti futuristi»

Le prefazioni che i letterati passatisti illustri scrivono per i libri dei giovani debuttanti sono dettate dal desiderio di liberarsi da una richiesta fastidiosa, quasi mai ispirate dalla volontà di rivelare al pubblico un nuovo ingegno.

Il loro egoismo pauroso vede in tutti i giovani dei pericolosissimi concorrenti.

Le loro prefazioni sono inevitabilmente prefazioni forzate di libri mediocri o prefazioni tiepide che scoraggiano il lettore.

Compiango i giovani che sognano di ornare il loro primo libro con simili impiastri.

Conoscete voi una prefazione di Carducci, Pascoli, Verga, D’Annunzio, che abbia rivelato un giovane geniale? No. Questi illustri letterati si sono sempre infischiati dei giovani.

L’Italia riconoscerà fra qualche anno che soltanto noi futuristi abbiamo voluto e saputo centuplicare il genio artistico della nostra razza, rivelando, sostenendo e glorificando i giovani.

La ferma sicurezza di poter creare instancabilmente del nuovo ha annientata in noi qualsiasi paura egoistica di concorrenza.

Io ho scritto poche prefazioni, ma le mie prefazioni orali di presentazione o conferenze, furono numerose. Nessuna dettata da opportunismo o da preghiere insistenti. Tutte clamorose. Tutte decisive, per l’intensa luce che hanno proiettato sui nuovi ingegni.

Ho preferito sempre le conferenze alle prefazioni scritte, perché più efficaci nel suscitare polemiche.

I nuovi ingegni da me scoperti formano oggi la gloria della nuova letteratura e della nuova arte italiana. Con prefazioni orali e declamazioni io mostrai all’Italia, diciotto anni fa, Giosuè Borsi, premiato da me nel primo concorso di «Poesia».

Con innumerevoli conferenze e declamazioni, contro tutti i fischi dei detrattori e tutti gli scetticismi della stampa quotidiana, io rivelai più tardi Cavacchioli, Buzzi, Folgore, Govoni, Palazzeschi, Boccioni, Russolo, Carrà, Severini, Auro D’Alba, Armando Mazza, Sant’Elia, Jannelli, Bragaglia, Dessy, Marchi, Cangiullo, Depero, Steiner, Fiozzi, Vasari, Nicastro, Azari, Cantarelli, Bonomi, Cannonieri.

Cito coloro che prima delle mie Conferenze e declamazioni battagliere non erano noti poiché alla notorietà di molti altri, come Balla, Pratella, Settimelli, Mario Carli e Prampolini ho semplicemente collaborato.

Vent’anni fa, più di cento mie conferenze e declamazioni sulla poesia simbolista e decadente francese fecero conoscere all’Italia i capolavori di Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, Regnier, Moreas, Verhaeren, Claudel, Gustave Kahn, Laforgue, Paul Fort, Vielé Griffin, Jammes, Maeterlinck.

Fondai «Poesia», rivista internazionale, che, prima fra tutti i fogli d’Italia, portò il nome e le poesie di Paul Claudel, accanto alle prime poesie di Buzzi, Cavacchioli, Folgore, Palazzeschi, Gozzano.

Nasceva così il movimento futurista, con un largo e frenetico amore per l’arte nuova e per i molti ingegni lirici italiani soffocati dallo scetticismo misoneista. Nasceva il movimento futurista antiscuola, anti-accademia, che doveva sgomberare l’Italia dal passatismo ruderomane, dal professoralismo pessimista, e preparare l’attuale rinascenza italiana.

Una conoscenza anche sommaria degli ingegni da me rivelati, tanto diversi l’uno dall’altro, dimostra che non si può oggi parlare di Accademia futurista senza essere nella più impudente malafede.

Alla morte del mio grande amico Boccioni, denigrato in vita e glorificato dopo la sua rassicurante sepoltura, mi sono convinto che in Italia ci sono pochi imbecilli, ma moltissime canaglie. Queste intuiscono talvolta la presenza di un nuovo ingegno. Ma subito addosso, con materassi, trappole, palate di terra, dileggi, ironie e gas asfissianti di silenzio. Se muore, eccole tutte a tavola sul suo cadavere da misurare, commentare, sfruttare culturalmente.

Noi futuristi continuiamo imperterriti la nostra opera di demolizione, sgombero di macerie, impianti elettrici spirituali, per ingigantire il genio creatore italiano rivelandone tutte le più diverse, le più opposte manifestazioni.

Il volume I poeti futuristi pubblicato e lanciato da me l’1l luglio 1912, e giunto al 42° migliaio, rivelò al mondo i poeti futuristi Altomare, Betuda, Buzzi, Cardile, Carrieri, Cavacchioli, Auro D’Alba, Folgore, Govoni, Manzella Frontini, Armando Mazza, Palazzeschi.

Questo volume I nuovi poeti futuristi rivelerà al mondo i poeti futuristi Loris Catrizzi, Silvio Cremonesi, Mario Dolfi, Escodamè, Farfa, Fillia, Alceo Folicaldi, Giovanni Gerbino, Giuseppe Guatteri, Angelo Maino, Enzo Mainardi, Oreste Marchesi, Bruno Sanzin, Cesare Simonetti, Alberto Vianello. Di questi 15 poeti 8 sono paroliberi.

Le parole in libertà orchestrano i colori, i rumori e i suoni, combinano i materiali della lingua e dei dialetti, le formole aritmetiche e geometriche, i segni musicali, le parole vecchie, deformate o nuove, i gridi degli animali, delle belve e dei motori.

Le parole in libertà spaccano in due nettamente la storia del pensiero e della poesia umana, da Omero all’ultimo fiato lirico della terra.

Prima di noi paroliberi, gli uomini hanno sempre cantato come Omero, con la successione narrativa e il catalogo logico di fatti, immagini, idee. Fra i versi di Omero e quelli di Gabriele D’Annunzio non esiste differenza sostanziale.

Le nostre tavole parolibere, invece, ci distinguono finalmente da Omero, poiché non contengono più la successione narrativa, ma la poliespressione simultanea del mondo.

Le parole in libertà sono un nuovo modo di vedere l’universo, una valutazione essenziale dell’universo come somma di forze in moto che s’intersecano al traguardo cosciente del nostro io creatore, e vengono simultaneamente notate con tutti i mezzi espressivi che sono a nostra disposizione.

Campo di ricerche difficilissime, piene d’incertezze, lontane dal successo e dall’approvazione del pubblico. Tentativi eroici dello spirito che si proietta al difuori di tutte le sue norme di logica e di comodità.

Nel mio Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912) io scrivevo:

Scartando tutte le stupide definizioni e tutti i confusi verbalismi dei professori, io vi dichiaro che il lirismo è la facoltà rarissima di inebbriarsi della vita e di inebbriarla di noi stessi. La facoltà di cambiare in vino l’acqua torbida della vita che ci avvolge e ci attraversa. La facoltà di colorare il mondo coi colori specialissimi del nostro io mutevole.

Ora supponete che un amico vostro dotato di questa facoltà lirica si trovi in una zona di vita intensa (rivoluzione, guerra, naufragio, terremoto ecc.) e venga, immediatamente dopo, a narrarvi le impressioni avute. Sapete che cosa farà istintivamente questo vostro amico lirico e commosso?...

Egli comincerà col distruggere brutalmente la sintassi nel parlare. Non perderà tempo a costruire i periodi. S’infischierà della punteggiatura e dell’aggettivazione. Disprezzerà cesellature e sfumature di linguaggio, e in fretta vi getterà affannosamente nei nervi le sue sensazioni visive, auditive, olfattive, secondo la loro corrente incalzante. L’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione. Manate di parole essenziali senza alcun ordine convenzionale. Unica preoccupazione del narratore rendere tutte le vibrazioni del suo io.

Se questo narratore dotato di lirismo avrà inoltre una mente popolata di idee generali, involontariamente allaccerà le sue sensazioni coll’universo intero sconosciuto o intuito da lui. E per dare il valore esatto e le proporzioni della vita che ha vissuta, lancerà delle immense reti di analogie sul mondo. Egli darà così il fondo analogico della vita, telegraficamente cioè con la stessa rapidità economica che il telegrafo impone ai reporters e ai corrispondenti di guerra, pei loro racconti giornalistici. Questo bisogno di laconismo non risponde solo alle leggi di velocità che ci governano, ma anche ai rapporti multisecolari che il pubblico e il poeta hanno avuto. Corrono infatti, fra il pubblico e il poeta, i rapporti stessi che esistono fra due vecchi amici. Questi possono spiegarsi con una mezza parola, un gesto, un’occhiata. Ecco perché l’immaginazione del poeta deve allacciare fra loro le cose lontane senza fili conduttori, per mezzo di parole essenziali in libertà.

Gli scrittori si sono abbandonati finora all’analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l’animale all’uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press’a poco a una specie di fotografia. Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro sangue. Altri più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante, a una piccola macchina Morse. Io lo paragono invece, a un’acqua ribollente. V’è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi. L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse e ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico e poliforme, può abbracciare la vita della materia. Quando nella mia Battaglia di Tripoli, ho paragonato una trincea irta di baionette a un’orchestra, una mitragliatrice a una donna fatale, ho introdotto intuitivamente una gran parte dell’universo in un breve episodio di battaglia africana. Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto d’immagini nuove, senza di che non è altro che anemia e clorosi. Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione...

L’immaginazione senza fili, e le parole in libertà c’introdurranno nell’essenza della materia. Collo scoprire nuove analogie tra cose lontane e apparentemente opposte noi le valuteremo sempre più intimamente. Invece di umanizzare animali, vegetali, minerali (sistema sorpassato) noi potremo animalizzare, vegetalizzare, mineralizzare, elettrizzare o liquefare lo stile, facendolo vivere della stessa vita della materia. Es., per dare la vita di un filo d’erba, dico: «sarò più verde domani».

Le parole in libertà hanno conquistato i nostri maggiori scrittori: fra i quali Gabriele D’Annunzio, che nel suo Notturno (prime 130 pagine), e a pag. 124 ha saputo trovare questi effetti simili al notissimo Vampe vampe vampe della mia Battaglia di Adrianopoli.

Volti, volti, volti, tutte le passioni di tutti i volti scorrono attraverso il mio occhio piagato, innumerabilmente, come la sabbia calda attraverso il pugno. Ma li riconosco.

Mi volto. Discendo. La guerra! La Guerra! Volti. Volti. Volti. Tutte le passioni di tutti i volti. Ceneri. E un acquazzone di marzo. Bora. Pioggia. Origlio lo scroscio.

Giuseppe Lipparini scrive nel «Resto del Carlino»:

Ricordare la campagna marinettiana contro la sintassi e per le parole in libertà? Bisognava sciogliersi da tutte le regole, liberare la parola dalla schiavitù in cui la tenevano oppressa i vincoli della sintassi, uccidere il periodo, decomporre la proposizione. Bisognava sopprimere ogni idea di subordinazione, ed esprimersi solamente per coordinate. E queste coordinate dovevano essere ridotte ai lor minimi termini, in modo da ridurle alla parola isolata e all’espressione pura. Così la parola, meravigliosa creatura viva, avrebbe riacquistato lo suo splendore e si sarebbe liberata dal greve velo di nebbia e di tedio che le velava la faccia luminosa.

... E vi fu anche un beneficio, perché ne venne il gusto di un periodare più vario, più agile, più ricco di sorprese, più spezzato, non alla francese, come male usava un tempo, ma secondo un concetto quasi plastico della collocazione delle parole.

Ora io apro il Notturno di D’Annunzio e leggo pagine come questa:

Usciamo. Mastichiamo la nebbia.

La città è piena di fantasmi.

Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligine.

I canali fumigano.

Il grido delle vedette aeree arrochito dalla nebbia.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il motoscafo di Sant’Andrea romba alla riva. Porto con me le valige e il sacco dei messaggi.

La laguna agitata.

L’acqua che spruzza.

Il motorista siciliano con cui converso.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

... Si va.

Il bacino di San Marco, azzurro,

Il cielo da per tutto.

Stupore, disperazione.

Il velo immobile delle lacrime.

Silenzio.

Il battito del motore.

Ecco i Giardini.

Si volta nel canale.

È facile dimostrare come le parole in libertà abbiano anche influenzato il giornalismo. Si trovano continuamente degli articoli di stile velocizzato sintetico essenziale parole in libertà, balzi di pensiero, immagini vastissime, notazioni telegrafiche e simultaneità.

Cito a caso da un articolo di Fraccaroli nel «Corriere della Sera», intitolato Frontiere!:

Alpi, valli, gallerie, (chiudere i finestrini, presto!) il Ticino che scroscia, paesetti con le case incappucciate, angolo acuto pochissima neve sulle cime più alte, un vento di frescura, ferrovieri svizzeri che parlano in lombardo-ticinese a voi, in tedesco al vostro vicino col cranio rasato, in francese a quella signora in libertà.

Il treno fila.

Ecco il lago dei Quattro Cantoni. Un vaporino bianco, il tramonto sfoglia violette sul lago.

I nuovi poeti futuristi rivelati da me in questo volume sono quasi tutti della nuova estetica volitiva della macchina, e credono fermamente che il poeta futurista deve avere una originalità naturale intensificata da una volontà tenace di creare opere originali.

Il poeta futurista deve avere quella tipica passione per la vita di oggi che Boccioni chiamò modernolatria. Egli deve amare ciò che gli uomini hanno inventato e inventano di più meraviglioso: la macchina.

La macchina sintesi dei maggiori sforzi cerebrali dell’umanità. La macchina, equivalente meccanico organico del globo terracqueo. La macchina nuovo corpo vivo quasi umano che moltiplica il nostro. La macchina prodotto e conseguenza che produce a sua volta infinite conseguenze e modificazioni nella sensibilità, nello spirito, nella vita.

Non c’è salvezza dunque fuori dell’estetica della macchina e del suo splendore geometrico meccanico che noi futuristi predichiamo e glorifichiamo da 16 anni. Questa estetica ha per elementi la forza imbrigliata, la velocità, la luce, la volontà, l’ordine, la disciplina, il metodo, la concisione essenziale e la sintesi, la felice precisione degli ingranaggi, la concorrenza d’energie convergenti in una sola traiettoria.

L’estetica della macchina, cioè la Macchina adorata e considerata come simbolo, fonte e maestra della nuova sensibilità artistica, è nata col mio primo Manifesto futurista, nel 1909, nella più meccanica città d’Italia: Milano. Questo primo Manifesto, pubblicato dal «Figaro», tradotto in tutte le lingue e lanciato a molte centinaia di migliaia di esemplari, conteneva idee che sconvolsero e mutarono le anime degli artisti di tutto il mondo:

Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia.

Noi canteremo le grandi folle... il vibrante fervore notturno degli arsenali... le officine... i ponti... i piroscafi avventurosi... le locomotive... e il volo scivolante degli aeroplani...

Subito dopo io sviluppo il mio pensiero nel manifesto Uccidiamo il Chiaro di Luna e nel volume Le Futurisme (Paris 1911) che glorifica l’Uomo moltiplicato e il Regno della Macchina. Nel 1911, appare il volume di versi liberi Aeroplani, di Paolo Buzzi. Nel 1911-1912 corrono pel mondo le Esposizioni futuriste, che impongono la nuova sensibilità di compenetrazione, simultaneità, dinamismo plastico, formata nella passione ardente per la Macchina. Ai primi iniziatori, Boccioni, Balla, Russolo, Carrà, Severini si uniscono: Depero, Prampolini, Funi, Dudreville, Sant’Elia, Soffici, Sironi, Galli, Marchi, Pannaggi, Baldessari, Marasco, Tato, Caviglioni, Lucanovic. Nell’ottobre 1911 io creo le Parole in Libertà Battaglia peso odore, libera esaltazione delle forze meccaniche della guerra. Seguono Zang tumb tumb, Assedio di Adrianopoli, e il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), con queste mie dichiarazioni:

È la solidità di una lastra d’acciaio, che ci interessa per sé stessa cioè l’alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole e dei suoi elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice. Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante per noi, del sorriso o delle lacrime di una donna.

Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale istintivo del quale conosceremo l’istinto generale allorché avremo conosciuto gl’istinti delle diverse forze che lo compongono.

Nulla è più interessante, per un poeta futurista, che l’agitarsi della tastiera di un pianoforte meccanico. Amiamo il cinematografo che ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano.

Nel 1911, l’architetto Sant’Elia espone i bozzetti della città futurista e lancia il manifesto della Architettura futurista liberata da tutti i decorativismi, basata sulla armonia meccanica delle masse, sui nuovi materiali (acciaio e cemento armato) e sulle necessità dell’igiene e della velocità e del confort.

Nel 1912, il musicista futurista Balilla Pratella compone la sua prima opera futurista, L’Aviatore Dro, glorificazione dell’aeroplano e dell’eroismo aereo.

Nel 1913, nel suo manifesto: L’arte dei rumori, Luigi Russolo, dopo aver descritto il meccanismo dei suoi intonarumori elettrici, scrive:

Godiamo molto più nel combinare idealmente dei rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire l’Eroica o la Pastorale. Attraversiamo una grande capitale moderna con le orecchie più attente che gli occhi, e godiamo nel distinguere i risucchi d’acqua, d’aria o di gas nei tubi metallici, e il borbottio dei motori che fiatano e pulsano con una indiscutibile animalità, il palpitare delle valvole, l’andirivieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe meccaniche, i balzi dei trams sulle rotaie...

Nel 1914 Boccioni lancia la magica parola «Modernolatria» sviluppandone il concetto nel suo volume Pittura e scultura futuriste. Nello stesso anno, scoppia col fragore d’una officina inspirata il volume di Luciano Folgore Canto dei Motori.

Il 18 marzo 1914, io completo e definisco la nuova estetica, col manifesto: Lo splendore geometrico e meccanico e la nuova sensibilità numerica, seguito dal manifesto Nuova religione e morale della Velocità.

Il 19 marzo 1914, nella Galleria Permanente futurista di Roma, io realizzo il mio manifesto La Declamazione dinamica e sinottica. Nel declamare le parole in libertà, bisogna imitare i motori e i loro ritmi mediante una gesticolazione meccanica. Il poema parolibero Piedigrotta di Cangiullo fu presentato con una declamazione dinamico-sinottica.

Nel 1915 il poeta Settimelli lancia il manifesto futurista: Pesi e misure del genio creatore.

Nel 1915, il pittore futurista Prampolini completa e definisce la plastica futurista nel suo Manifesto Costruzione assoluta di motorumore. Nel 1916, il pittore Severini spiega il Macchinismo nell’arte, in un suo articolo del «Mercure de France».

Nel 1917, il pittore futurista Depero crea i suoi Balli Plastici con ritmi meccanici.

La rivista olandese «Mecano» constatava recentemente tutto ciò, pubblicando la fotografia di una macchina con questo titolo: Plastica moderna dello spirito italiano.

Questa nostra Estetica della macchina è realizzata nelle parti più futuriste della Esposizione mondiale delle arti decorative di Parigi e specialmente nella sezione futurista italiana dei pittori e decoratori Balla, Depero e Prampolini.

Trionfa così a Parigi e nel mondo il Futurismo italiano. Gioia immensa di vedere le nostre macchine geniali di dinamismo plastico simultaneità compenetrazione stati d’animo colorati diventare Padiglione Russo, Porta d’Orsay, Torre del Turismo e addentare la setacarnillusione delle sopranaturali toilettes cosce dessous parigini.

Se mi vedete rivelare e glorificare nuovi poeti non attribuitemi una generosità eroica. Il mio gesto è semplice e naturale.

Ad altri giunti come me sulle vette della celebrità questi giovani poeti potrebbero incutere il terrore di una concorrenza. Ciò non può accadermi poiché sono il loro vero coetaneo.

Pronto ad entrare con loro in gara di audacia e forza muscolare per estrarre le budella sanguigne rivoluzionarie d’una piazza di provincia tutta pace silenzio eternità e sole. Pronto ad entrare con loro in gara di eroismo e fantasia per far esplodere fuori dal fronte purissimo della nostra patria immagini esplosive e proiettili pensanti contro lo straniero prepotente o il critico negatore.

Perciò io vi presento in questo volume fra i nuovi poeti futuristi il giovanissimo F. T. Marinetti.

F. T. Marinetti, Tato

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