La città di Paralisi, col suo gridìo di pollaio, coi suoi orgogli impotenti di colonne troncate, con le sue cupole tronfie che partoriscono statuette meschine, col capriccio dei suoi fumi di sigaretta sopra bastioni puerili offerti ai buffetti... scomparve alle nostre spalle, danzando al ritmo dei nostri passi veloci.
Davanti a me, ancora distante alcuni chilometri, si delineò ad un tratto il Manicomio, alto sulla groppa di una collina elegante, che sembrava trotterellare come un puledro.
— Fratelli, — diss’io — riposiamoci per l’ultima volta, prima di muovere alla costruzione del gran Binario futurista!
Ci coricammo, tutti fasciati dall’immensa follia della Via Lattea, all’ombra del Palazzo dei vivi, e subito tacque il fracasso dei grandi martelli quadrati dello spazio e del tempo... Ma Paolo Buzzi, non poteva dormire, poiché il suo corpo spossato sussultava ad ogni istante alle punture delle stelle velenose che ci assalivano da ogni parte.
— Fratello! — mormorò — scaccia lontano da me codeste api che ronzano sulla rosa porporina della mia volontà!
Poi si riaddormentò nell’ombra visionaria del Palazzo ricolmo di fantasia, da cui saliva la melopea cullante ed ampia della eterna gioia.
Enrico Cavacchioli sonnecchiava e sognava ad alta voce:
— Io sento ringiovanire il mio corpo ventenne!... Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la mia culla... Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!... Tutto, dunque, mi è lecito!... Voglio preziosi gingilli da rompere... Città da schiacciare, formicai umani da sconvolgere!... Voglio addomesticare i Venti e tenerli a guinzaglio... Voglio una muta di venti, fluidi levrieri, per dar la caccia ai cirri flosci e barbuti.
La respirazione dei miei fratelli dormenti fingeva il sonno di un mare possente, su una spiaggia. Ma l’entusiasmo inesauribile dell’aurora traboccava già dalle montagne, tanto copiosamente la notte aveva dovunque versato profumi e linfe eroiche. Paolo Buzzi, bruscamente sollevato da quella marea di delirio, si contorse, come nell’angoscia di un incubo.
— Li udite i singhiozzi della Terra?... La Terra agonizza nell’orrore della luce!... Troppi soli si chinarono al suo livido capezzale! Bisogna lasciarla dormire!... Ancora! Sempre!... Datemi delle nuvole, dei mucchi di nuvole, per coprire i suoi occhi e la sua bocca che piange!
A queste parole il Sole ci porse dall’estremità dell’orizzonte, il suo tremulo e rosso volante di fuoco.
— Alzati, Paolo! — gridai allora. — Afferra quella ruota!... Io ti proclamo guidatore del mondo!... Ma, ahimè, noi non potremo bastare al gran lavoro del Binario futurista! Il nostro cuore è ancora pieno di un ciarpame immondo: code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati!... E non abbiamo ancora scacciate dal nostro cervello le lugubri formiche della saggezza... Ci vogliono dei pazzi!... Andiamo a liberarli!
Ci avvicinammo alle mura imbevute di gioia solare, costeggiando una sinistra vallata, ove trenta gru metalliche sollevano stridendo, dei vagoncini pieni d’una biancheria fumigante, inutile bucato di quei Puri, lavati già da ogni sozzura di logica.
Due alienisti comparvero, categorici, sulla soglia del Palazzo. Io non avevo fra le mani che uno smagliante fanale d’automobile; e fu col suo manico di lucido ottone che inculcai loro la morte.
Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi, eruppero a migliaia, torrenzialmente, così da ringiovanire e ricolorare il volto rugoso della Terra.
Alcuni vollero subito brandire, come bastoni d’avorio, i campanili lucenti; altri si misero a giuocare al cerchio con delle cupole... Le donne pettinavano le loro lontane capigliature di nuvole con le acute punte di una costellazione.
— O pazzi, o fratelli nostri amatissimi, seguitemi!... Noi costruiremo il Binario sulle cime di tutte le montagne, fino al mare! Quanti siete?... Tremila?... Non basta! D’altronde la noia e la monotonia troncheranno in breve il vostro bello slancio... Corriamo a domandar consiglio alle belve dei serragli accampati alle porte della Capitale. Sono gli esseri più vivi, i più sradicati, i meno vegetali! Avanti!... A Podagra! A Podagra!...
E partimmo, scarica formidabile di una chiusa immane.
L’esercito della follia si avventò di pianura in pianura, colò per le valli, ascese rapido alle cime, con lo slancio fatale e facile d’un liquido entro enormi vasi comunicanti, e infine mitragliò di grida, di fronti e di pugni le mura di Podagra che risuonò come una campana.
Dopo avere ubbriacati, uccisi o calpestati i guardiani, la gesticolante marea inondò l’immenso corridoio melmoso del serraglio, le cui gabbie, piene di velli danzanti ondeggiavano nel vapore delle urine selvatiche e oscillavano più leggiere che gabbie di canarini fra le braccia dei pazzi.
Il regno dei leoni ringiovanì la Capitale. La ribellione delle criniere e il voluminoso sforzo delle groppe inarcate a leva scolpivano le facciate. La loro forza di torrente, scavando il selciato, trasformò le vie in altrettanti tunnel dalle vôlte scoppiate. Tutta la tisica vegetazione degli abitanti di Podagra fu infornata nelle case, le quali, piene di rami urlanti, tremavano sotto la impetuosa grandinata di sgomento che crivellava i tetti.
Con bruschi slanci e con lazzi da clowns, i pazzi inforcavano i bei leoni indifferenti, che non li sentivano, e quei bizzarri cavalieri esultavano ai tranquilli colpi di coda che ad ogni istante li gettavano a terra... Ad un tratto, le belve si arrestarono, i pazzi tacquero, davanti alle mura che non si muovevano più...
— I vecchi son morti!... I giovani sono fuggiti!... Meglio così!... Presto! Siano divelti i parafulmini e le statue!... Saccheggiamo gli scrigni colmi d’oro!... Verghe e monete!... Tutti i metalli preziosi saranno fusi, pel gran Binario militare!...
Ci precipitammo fuori, coi pazzi gesticolanti e le pazze scarmigliate, coi leoni, le tigri e le pantere cavalcate a nudo da cavalieri che l’ebbrezza irrigidiva contorceva ed esilarava freneticamente.
Podagra non fu più che un immenso tino, pieno di un rosso vino dai gorghi spumosi, che colava veemente dalle porte, i cui ponti levatoi erano imbuti trepidanti e sonori...
Attraversammo le rovine dell’Europa ed entrammo nell’Asia, sparpagliando lontano le orde terrorizzate di Podagra e di Paralisi, come i seminatori gettano la semente con un gran gesto circolare.